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𝚞𝚗𝚘

Novembre


Isaac Spider non era solito pensare al passato e, a dire il vero, non avrebbe proprio voluto rivivere certe esperienze. C'era un motivo se le aveva chiuse in un cassetto, insieme a quei sentimenti sinistri che lo avevano accompagnato durante l'adolescenza, e non aveva alcuna intenzione di punzecchiare il can che dorme, come si suol dire. Eppure la sua psicanalista glielo aveva praticamente ordinato. L'aveva fatto in modo subdolo, lentamente, incontro dopo incontro, e alla fine lui aveva ceduto.

Isaac avrebbe preferito di gran lunga infilzarsi la mano con una forchetta o ingoiare mille aghi che scrivere un diario, eppure eccolo lì: con una penna in mano, chinato sul bancone del bar dei suoi genitori pronto a "liberare la mente", come gli aveva gentilmente consigliato la dottoressa Linda Johnson. Era convinto che quella donna avesse qualche sorta di potere magico, perché non era possibile che lo stesse davvero facendo.

Gettò uno sguardo alla sua destra, osservando la porta d'ingresso, quasi pregando che arrivasse un nuovo cliente. Inutile dire che nessuno esaudì la sua richiesta.

Sbuffò, strinse la penna fra le dita e abbassò il capo sulla pagina bianca. Senza pensarci troppo, cominciò a scarabocchiare distrattamente. E poi il disegno si fece sempre più nitido, diventando una tartaruga. O meglio la sua caricatura. Poi aggiunse un caschetto biondo e ribelle, degli occhi da gatta e un ghigno impertinente. Sorrise. Isaac adorava disegnare, l'aveva sempre fatto, quindi perché non cominciare quel compito per casa in quel modo? Sapeva di essere infantile, ma cavolo se era soddisfacente dipingere la sua nemica mortale così: come una lenta, stupida e irritante tartaruga. Aggiunse delle mosche intorno al viso spigoloso e un fumetto: "Guardatemi, sono Chloé, sono perfetta, gne gne!"

Prese i bordi del diario e lo alzò sopra la testa, ammirando il suo lavoro, contento. Fece una giravolta, canticchiando fra sé e sé, e alla fine lo rimise giù, sotto lo sguardo sbigottito di un paio di clienti. Non che fosse una novità per loro: Isaac era solito fare movimenti improvvisi, bofonchiare cose a bassa voce e perdersi, per chissà quale arcano motivo, a fissare i muri.

In effetti, era un tipo particolare. Non era un ragazzo cattivo, né ingenuo o pazzo, solo che la sua mente tendeva a isolarsi dal resto del pianeta e gli faceva vedere cose, persone, che in realtà non esistevano neppure.
Ma che poteva farci?

Quando si rese conto di essere osservato, Isaac si bloccò completamente. Sbatté le palpebre un paio di volte e deglutì a vuoto. Chinò poi il capo sul diario e prese nuovamente la penna. Provò a far finta di nulla. Un po' tremava, non sopportava gli sguardi. Gli pungevano la pelle, lo facevano sentire sbagliato. Malato. Odiava quella parola. Era un'etichetta, quella, che non si sarebbe mai scollato di dosso.

Fece allora un respiro profondo, strizzò gli occhi e si sistemò gli occhiali, facendoli scivolare lungo il naso. Finse di tossire, mentre una figura familiare gli toccava la spalla, cercando la sua attenzione. Un'ombra scura, grande quanto un uomo, aggraziata nei movimenti e dai tratti quasi fanciulleschi, chiamò il suo nome.

«Isaac.»

Rabbrividì. Serrò le palpebre. In quei momenti, quando la vedeva così chiaramente e si sentiva suo ostaggio, l'unica cosa che lo rassicurava davvero era pensare a Sebastian. Riaprì allora gli occhi e riprese a scrivere, stavolta lo fece sul serio.
Forse Linda, dopotutto, aveva ragione quando gli aveva detto che aveva bisogno di confidarsi con qualcuno che non l'avrebbe giudicato. E quale amico migliore di un diario?

Isaac raccontò quindi del loro primo incontro. Di come l'erede della famiglia più temuta della città l'aveva salvato.

Era metà settembre e diluviava. Le luci degli enormi grattacieli di New York City erano tanto forti da bucare lo strato di smog che inquinava l'aria e ribalzavano, impazzite, sulle gocce di pioggia, facendogli venire l'emicrania. Pure le auto erano chiassose, ingombranti. Avrebbe voluto cancellarle tutte quante con una gomma. Le persone poi, correvano da una parte all'altra, cercando riparo, sballottolandolo, calpestandogli i piedi. Credeva di svenire.

Isaac era appena uscito dallo studio della dottoressa Johnson. Masticava furiosamente una cicca alla fragola, chiedendosi per quale assurdo motivo avrebbe dovuto scrivere un diario alla veneranda età di ventun anni. Stando alla sua psicanalista, l'avrebbe aiutato sul serio. Per lei mettere su carta le emozioni, dopo anni passati rinchiuso nel suo guscio, gli avrebbe fatto sicuramente bene. Eppure Isaac trovava tutto ciò molto stupido. Infantile. Era certo che non avrebbe mai accettato.

"Alla fine della terapia cosa mi chiederà? Di bruciarlo per allontanare i fantasmi del passato?" pensò, domandandosi anche perché stesse ancora sprecando i suoi soldi in quel modo.

Alla fine nemmeno prendeva le medicine che gli prescriveva, quindi che senso aveva? Andava per accontentare sua madre? Per farle un piacere?

Calciò una lattina vuota che qualcuno aveva abbandonato sul marciapiede e si affrettò verso la fermata dei taxi. Fu un viaggio a vuoto, perché non ne vide mezzo. Riparato sotto il tettuccio di un negozio di dolci, allora prese il cellulare per controllare se ci fosse un Uber disponibile. E fu in quel momento che un uomo lo approcciò gettandogli malamente un braccio sulle spalle.

Isaac sussultò, anzi balzò proprio all'indietro.
Lo osservò, sentendosi violato. Per molti quel gesto improvviso, per quanto maleducato, non sarebbe stato affatto un problema, ma per lui il contatto fisico era semplicemente off-limits. A malapena riusciva a sopportare i parenti stretti.

Isaac percepì una scarica di brividi freddi corrergli lungo le gambe, rendendole molli, di gelatina. E cominciò a guardarsi intorno, disperato. La pioggia non bastava, gli serviva un bagno. Ogni molecola del suo organismo si era sporcata, doveva grattarla via, bruciarla. E in fretta. Era in procinto di un attacco di panico.

La presenza dell'uomo si faceva sempre più opprimente, mentre avanzava, tentennando sui suoi stessi passi. Aveva un alitaccio tanto forte che si riusciva ad avvertire nonostante l'aria carica di umidità. E la bottiglia quasi vuota che teneva in mano di sicuro non era buon biglietto da visita. E intanto quella maledetta ombra era ricomparsa e pareva incitare lo sconosciuto a spingerlo contro le macchine.

Isaac si strinse nella felpa, quasi potesse ripararsi. Tentò di ignorare l'ombra, quegli artigli che cercavano di scavargli la pelle, quello sguardo crudele e la sua voce graffiante, ma ormai l'aveva vista: era lì, sembrava reale, e lo stava chiamando.

L'uomo gli disse qualcosa, sbiascicando. Era ovvio che non lo trovasse semplicemente carino e quasi gli venne da vomitare. Isaac possedeva dei dolci tratti femminili, che lo facevano sembrare innocente e molto più giovane. Aveva poi delle meravigliose iridi verde prato che gli occhiali, seppur spessi, non riuscivano a nascondere. Di recente si era fatto crescere i capelli e tinto la chioma di blu, pensando di risultare tosto e intimidire, ma aveva ottenuto l'effetto opposto: le sfumature azzurrine, unite alle lunghe ciocche nere, ricordavano una farfalla morfo sotto la luce della luna. La sua pelle poi pareva di porcellana: più pallida di quella di un vampiro. Quell'aspetto androgino, insomma, riusciva a incantare chiunque e quel giorno aveva attirato l'attenzione della persona sbagliata. Isaac sembrava una bambolina e, soprattutto quando vestiva extra-large, lo scambiavano sempre per una donna. Non che quella fosse una buona ragione per molestarlo. Quell'uomo era uno schifoso, un verme. E avrebbe meritato l'inferno.

Lo sconosciuto si leccò le labbra sporche, eccitato, e provò a toccarlo ancora. Isaac quasi saltò in strada. Si fermò in tempo. Un passo di troppo e l'avrebbero investito. Intanto la gente passava, noncurante. Perché nessuno lo aiutava?

Il cuore gli batteva furiosamente in petto. Il ghigno malvagio dell'uomo era tutt'altro che confortante e stava per afferrarlo con quelle luride manacce. E l'ombra rideva sguaiatamente, sadica.

Fu in quel momento che arrivò il suo eroe.

Sebastian Show non aveva una buona reputazione, eppure fu l'unico a fargli da scudo. Il solo a intervenire. In un battito di ciglia, il molestatore si ritrovò steso a terra, tenuto fermo da due uomini in divisa scura. Dopo un cenno del capo da parte di Sebastian, fu trascinato in uno dei vicoli e Isaac non lo vide più. Fu allora che Sebastian si voltò finalmente nella sua direzione.

«Stai bene?» gli chiese.

Quando Isaac alzò nuovamente la penna dalla pagina, stava sorridendo e il disagio provato poco prima pareva già lontano anni luce. Aveva scritto solamente poche righe, in un corsivo tutto storto e a tratti macchiato d'inchiostro rosso, eppure quel casino lo rassicurava. Chiuse delicatamente il diario, sentendosi effettivamente un po' meglio.
Linda dopotutto sapeva quel che faceva.

Fu in quel momento che il tintinnio della campanella appesa alla porta, richiamò la sua attenzione. Entrò un gruppetto piuttosto rumoroso e quasi Isaac rimpianse la pace perduta, ma quando notò fra la folla una figura familiare si rilassò all'istante.

Sebastian era bellissimo, pareva essere stato creato da Dio in persona: la sua pelle era caramello fuso, gli occhi avevano un taglio felino, misterioso, e quel colore ti fregava, perché era lo stesso del mare calmo. Acqua limpida, cristallina, azzurra. Era ipnotizzante. Ogni suo movimento era elegante. E la voce tremendamente musicale. Isaac l'avrebbe ascoltata per ore intere: era bassa, rauca, l'accento italiano gli faceva stringere il cuore a ogni sillaba. E aveva i capelli chiari, tinti di rosa tenue, e parevano brillare, seguendo i raggi del sole che ne incorniciavano il viso perfetto.

Un mese prima, Isaac gli aveva confidato la ragione che l'aveva spinto a cambiare aspetto e l'insicurezza che ne era derivata, nonostante ora si piacesse di più. Sebastian allora gli aveva chiesto cosa l'avrebbe fatto sentire meglio e, ridendo, Isaac gli aveva risposto che se avesse avuto un amico con i capelli rosa, forse non si sarebbe sentito tanto impacciato e stupido. Il giorno, Sebastian si era recato da un parrucchiere.

Isaac era cotto di lui, non aveva mai conosciuto qualcuno di così figo, di tanto audace. Un po' lo invidiava, perché non avrebbe mai avuto il suo stesso coraggio. Nascose in fretta il diario sotto il bancone e si stampò in faccia il sorriso più accattivante del suo repertorio.

«Cosa vi porto?»

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