ventidue - 𝚛𝚒𝚟𝚎𝚕𝚊𝚣𝚒𝚘𝚗𝚒
𝚒𝚜𝚊𝚊𝚌 𝚜𝚙𝚒𝚍𝚎𝚛
Sebastian non mi guarda nemmeno mentre scendiamo le scale del suo dormitorio, diretti all'uscita.
«Seb?» lo chiamo, ma lui fa finta di non sentirmi e accelera il passo, quasi volesse lasciarmi indietro.
Sì, certo. Come se glielo permettessi!
«Sebastian!» riprovo alzando la voce e questo pare scuoterlo un po', perché si ferma, puntando i piedi sulle mattonelle rossicce dell'ingresso. Non si volta però e il suo cambiamento è talmente repentino che gli sbatto contro la schiena.
Dannato fisico di marmo!
Penso indietreggiando. Mi tengo il naso fra le dita e per un attimo penso che si sia rotto, però poi mi ricordo che è leggermente impossibile. Per quanto Seb sia un ammasso di muscoli, non è mica fatto di cemento armato.
«Mi spieghi perché fai così?» gli chiedo con voce chiusa, tappandomi le narici. Il setto sembra a posto, non c'è odore di sangue, ma fa un male cane.
«Sei tu che devi spiegarmelo.» ribatte senza darmi neanche un'occhiata.
«Che cosa?» domando, ma non mi risponde.
"Devi aver combinato un vero macello!"
Ridacchia la fata.
"Quando ti fai male, è sempre pronto a fare il principe azzurro, ora invece se ne infischia."
Gira intorno a Sebastian, ponendosi davanti a lui, che ovviamente non può vederla.
"Oh sì, sembra furioso!"
Cantilena allegra.
Basta! Finiscila!
Mi dico che devo ignorarla, che la mia priorità è Seb.
Faccio un passo in avanti, mollando la presa sul mio povero naso, e gli appoggio una mano sulla spalla per convincerlo a voltarsi. Con mio grande sollievo, non se la scrolla di dosso e gira leggermente il capo, osservandomi da sopra la spalla.
Perché deve essere sempre tutto così difficile con questo tipo?
«Dimmi qual è il problema.» lo prego e lui sbuffa.
«Io... Non è niente.» borbotta, ma la sua voce è stanca, sofferente.
«A me non sembra "niente", altrimenti non ti comporteresti così.» ribatto.
Deglutisco, facendo scorrere le dita lungo il suo braccio per arrivare al palmo. Lo prendo per mano, stringendolo forte per fargli sapere che ci sono e lui accenna finalmente un sorriso.
«Io davvero non ti capisco, Zack.» confessa girandosi, tirandomi a sé.
Cozzo sul suo petto, mentre un gruppetto di studenti passa alle mie spalle. Mi sento arrossire, ma non sono contrario a questa dimostrazione d'affetto pubblica. Ho un tuffo al cuore, tremo di gioia. Ormai sono dipendente dal suo tocco. Vorrei quasi che lo facesse più spesso.
«Perché dici questo?» gli chiedo, staccandomi da lui. Non mi sarebbe affatto dispiaciuto continuare in eterno quell'abbraccio, ma mio fratello ci sta aspettando e poi non credo di poter rimanere lucido se resto a meno di un centimetro da Sebastian troppo a lungo. È praticamente una droga ambulante.
«Perché sì.» mormora.
«Mi confondi.»
Sapessi quanto tu confondi me!
Vorrei dirgli, tuttavia mi limito ad accarezzargli il dorso della mano, senza distogliere lo sguardo dai suoi occhi così azzurri.
Ancora una volta, Seb mi deve qualche spiegazione per il suo comportamento. Non possiamo andare avanti se non ci parliamo e forse è il momento di smetterla di fare gli adolescenti.
Lui sospira, si lascia coccolare e, prima di rendercene conto, iniziamo a passeggiare mano nella mano per il campus. Catturiamo qualche sguardo, ma quell'attenzione stranamente non mi disturba. Magari è per via di Sebastian: ha un effetto calmante sui miei nervi, specialmente se è così vicino che riesco ad avvertire il suo profumo.
«Isaac, io ti piaccio almeno un pochino?» mi domanda all'improvviso e subito mi sento accaldato. Il battito mi finisce presto in gola, per poi rimbombarmi nelle orecchie. E comincio a sudare.
Non lo intende in quel senso. Non lo intende in quel senso. Non lo intende in quel senso.
Mi dico.
«Certo, sei il mio migliore amico.» gli rispondo, evasivo. O forse balbetto, non lo so.
Seb scuote la testa, palesemente risentito. Evidentemente non era la risposta che voleva.
«Migliore amico? Sul serio? Ne sei ancora convinto?» socchiude gli occhi, accecato da un raggio di sole.
Mi fermo per rubargli gli occhiali che ha ancorati al colletto della maglia. Glieli piazzo sul naso l'attimo dopo. Si morde le labbra quando gli accarezzo la punta per spingerglieli fino in fondo, ma non fa alcun commento al riguardo.
«A volte è così difficile parlare con te.» borbotta non appena mi allontano.
«Il bue che da del cornuto all'asino?» alzo un sopracciglio.
«Beh, almeno il bue non dice all'asino che sono solo amici dopo averlo praticamente scopato.»
«Non abbiamo scopato!» esclamo, poi abbasso la voce quando noto qualche sguardo un po' troppo curioso.
«Non l'abbiamo fatto.»
«Erano praticamente preliminari.»
«E quindi? Tu hai un mucchio di storie o sbaglio?»
"Zacchino, posso sapere per quale accidenti di motivo ti stai sabotando di nuovo?"
Mi rimprovera la fatina, ma la ignoro.
«Non è lo stesso.» si gratta la nuca.
«Lo è.» sospiro.
«E tu sei il mio amico più caro, Seb, che ti piaccia o no.» lo guardo male, puntellandogli l'indice sul petto.
«Davvero? Io non limono i miei amici.» mi fa notare.
L'occhiataccia che gli lancio deve valere più di mille parole perché aggiunge: «Quelli là non sono- non abbiamo quel rapporto e tu lo sai.» ringhia.
«Lo so, è solo che-»
«Che cosa?» mi punzecchia.
«Pensi che mi vada bene qualunque buco o qualcosa del genere?»
«Lo sai che non è vero. Vuoi litigare?» lo ribecco.
«Beh, se litigassimo almeno avrei la tua cazzo di attenzione.» sbuffa.
«Sbaglio se credo di essere speciale per te?» alza lo sguardo al cielo.
No, non sbaglia, ma ho davvero paura di aprir bocca. Mi sembra così assurdo che stiamo facendo questo tipo di discorso. Mi spaventa persino un po' ascoltare questo Sebastian senza peli sulla lingua. Mi pare di parlare con un estraneo a momenti.
Dove sono finite le sue metafore? Il suo fare ambiguo? Perché oggi è così franco?
«Non siamo solo amici, Zack.» dichiara.
«Quante volte devo leccartelo prima di fartelo capire?» aggiunge, facendomi diventare un peperoncino.
«Seb!» esclamo, sorpreso dalla sua schiettezza.
«Cosa?» sghignazza.
«Ora fai il timido, piccolo?»
Ci ritroviamo con le dita intrecciate, esattamente come quelle coppiette che eravamo soliti prendere in giro.
Che smielati!, ridevamo ma, ora che siamo al loro posto, capisco che in fondo la mia era solamente invidia.
«Non sono timido.» ribatto, lasciando vagare lo sguardo lungo i vari edifici in mattoni dell'università.
Fingo di osservare ciò che mi circonda, anche se ho la mente talmente altrove che mi pare di non vedere neanche gli alberi che ci riparano dal sole. Metto a fuoco ogni ciottolo, ogni tetto, ma dimentico che siano lì il secondo dopo.
«Allora dì le cose come stanno.» mi stuzzica.
«Visto che non sei timido.» imita la mia voce quando lo dice e il tono stridulo che usa mi porta a dargli un pugnetto sul braccio. Questo gesto gli fa spuntare un sorrisetto impertinente e finalmente lo riconosco.
«A-ammetto c-che ci sia dell'attrazione fisica.» balbetto imbarazzato.
«Ma è solo curiosità, no?»
Dopotutto tu hai la tua cotta a cui pensare.
«Oh, sì!» esclama teatralmente, portandosi la mano libera al petto. Accartoccia la maglia fra le dita e mi lancia uno sguardo poco rassicurante, prima di continuare senza alcuna vergogna.
«Ciò che mi affligge, messere, è la famosa curiosità per i cazzi. Precisamente per i cazzi dei propri migliori amici. Ancora più precisamente, per il vostr-»
Mi avvicino a lui e gli tappo la bocca con la mano sinistra, prima che possa terminare. Lo guardo male, rossissimo in viso, ma Seb sembra soddisfatto della mia reazione. Ribatte infatti cacciando fuori la lingua e leccandomi il palmo.
Faccio un passo indietro, perplesso, e lui sorride malizioso.
«Perché sei così dispettoso?» mi lamento, pulendomi dalla sua saliva strusciando la mano sulla maglietta.
«Come se non ti avessi già assaggiato per intero.» ribatte.
«Ma prima di uscire mi sono lavato!» sbotto, provando ad allontanare il ricordo di ciò che abbiamo fatto fra le lenzuola.
«Menomale che ho il disinfettante.» continuo, tastandomi la tasca, e lui mi osserva, incredulo.
«Dovrei sentirmi offeso?»
China il capo, per scrutarmi meglio e io annuisco vistosamente.
«Dovresti.» confermo, facendolo ridacchiare.
Rimaniamo in silenzio per un po', facendoci cullare dalle voci degli altri studenti e concentrandoci sulla fretta dei loro corpi in movimento, che corrono da una parte all'altra o che passeggiano, proprio come noi. Siamo una goccia in mezzo al grande oceano ed è piacevole sentirsi come tutti gli altri per una volta.
Ho sempre desiderato essere normale.
«Andiamo in macchina.» fa Seb, quando arriviamo nel parcheggio. È un sollievo perché non avevo affatto voglia di riprendere l'autobus.
«Devi ancora dirmi la destinazione.» mi ricorda e io annuisco, dicendogli distrattamente che il bar si chiama Detroit Club.
«Mettiamo il navigatore.» propongo, mentre ci addentriamo in quel deserto di cemento.
«Va bene.» annuisce, eppure non accenna a lasciarmi andare, anche se ho il palmo sudato.
Continuiamo così fino alla sua auto ma, prima che sia costretto a mollare la presa, Sebastian decide di farmi perdere dieci anni di vita. Abbassa il busto, improvvisando un inchino. Senza smettere di guardarmi, mi schiocca un bacio sulle nocche, gustandosi il mio tremore, e mi sfiora il gomito con la mano destra, facendomi avvampare per la millesima volta nell'arco di una mattinata.
«Messere.» sogghigna, andando al posto di guida.
«Pervertito.» sussurro, aprendo lo sportello del passeggero.
Una volta di fronte all'insegna giallo papavero del Detroit club, mi rendo conto che si tratta di un bar sportivo. O almeno lo intuisco dall'enorme mazza da golf disegnata affianco al nome. Sono quasi tentato di tornare a casa e di rinviare l'appuntamento.
Uffa...
Non riesco a frenare una smorfia, perché non è il mio genere di posto, ma Seb osserva le poltroncine a forma di guantoni da baseball, che si intravedono dalla vetrina, come se fosse Natale. Lui adora certi ambienti tanto quanto io li detesto.
Sono decisamente senza speranze, perché vederlo così felice è più che abbastanza per convincermi ad aprire la porta.
L'odore di tabacco mi invade le narici e, mentre mi chiedo perché non ci sia una zona fumatori apposita, un uomo sul fondo della sala si alza in piedi come una molla. Non è un posto così grande, perciò Paul è riuscito a individuarci subito. Forse l'ha scelto proprio per questa ragione.
"O magari voleva solo farti irritare, visto che sa benissimo che ti senti fuori posto in certi ambienti." ridacchia la fatina.
Potrebbe anche essere, conoscendolo.
Mi volto verso Seb e gli faccio un cenno, così che anche lui veda mio fratello. Annuisce e mi dà un buffetto sulla guancia, facendomi sorridere.
«Vi assomigliate.» commenta.
«La cosa ti stupisce?» ribatto superando il bancone in legno scuro, sopra il quale tre grandi televisori trasmettono la stessa partita.
Non seguo il football, ma quando Seb lancia un'occhiata al risultato impreca fra i denti e lo trovo piuttosto buffo. Immagino che tifi per la squadra che sta perdendo.
«Fammi indovinare: brutta giornata?»
«Se tu non fossi qui, sarebbe la peggiore.» borbotta.
Mi porto una mano al cuore per cercare di frenarne i battiti.
Sul serio, deve smetterla di farmi agitare in questo modo!
Quando lo raggiungiamo, Paul si presenta sempre con la sua solita eleganza: urla al cameriere di portargli in fretta altre tre birre. Alzo gli occhi al cielo, pregando che nessuno sputi dentro la mia bevanda per colpa di questo cretino.
Noto che ha tagliato i capelli e che ora li porta gellati e ordinati all'indietro. Un tempo non li pettinava nemmeno. Forse ha incontrato una persona speciale che gli ha fatto venire voglia di imbellettarsi.
"O magari ha imparato un po' di amor proprio." ghigna la fatina, crudele. La ignoro e abbraccio il mio fratellone, mentre il suo profumo mi avvolge come un guanto. Questo non l'ha cambiato, usa ancora l'Armani che gli ho regalato per il compleanno. Sa di casa.
In fondo mi fa piacere rivederlo.
"Il tuo grande eroe è qui, Zack!" trilla la fata, prendendosi palesemente gioco di me.
"Dici che vedendoti insieme a lui, Seb potrebbe capire qual è il fratello sfigato e quello si meriterebbe davvero attenzioni? Voglio dire, Paul è piuttosto bello, inoltre è sempre riuscito a metterti in ombra, sarebbe facile per lui-"
Zitta!
Scaccio questi brutti pensieri accennando un sorriso poco convinto.
Va tutto bene.
Mi dico.
«Mi sei mancato, peste.» sussurro e lui ride fra i miei capelli.
«Mamma mi aveva detto che ti eri fatto viola, ma non pensavo così viola.» ribatte.
«Beh, sono molto meglio del canarino morto che hai in testa.» sogghigno.
«Non dimenticare che una volta ce li avevi anche tu così.»
Quando ci stacchiamo, Seb si fa avanti allungando una mano, però Paul la rifiuta per dargli uno dei suoi abbracci da orso. In effetti ha sempre odiato le formalità.
"Non ti disturba che lo stia toccando?"
Smettila, ti scongiuro.
«Gli amici di Zacchino sono anche miei!» esclama.
«Puoi evitare di chiamarmi così, sai?»
Lui mi ignora. I suoi occhi verde prato si illuminano quando vede che il cameriere sta già tornando con l'ordinazione. Il ragazzo appoggia le birre, già aperte, sul tavolino e ci chiede gentilmente se può fare altro per noi.
«Avete le noccioline?» domando e lui annuisce e ci lascia, tornando al bancone per riferire la richiesta.
Forse qui non è male come credevo.
"Anche l'Inferno è piacevole, se sei in buona compagnia." mi fa eco la fata, mentre ci mettiamo seduti.
«Faccio le presentazioni.» propongo.
«Seb, lui è mio fratello Paul.» lo indico e Sebastian accenna a un ciao poco convinto. Sarà ancora scombussolato per l'affetto improvviso.
«Paul, lui è-»
«Il tuo fidanzato?» mi interrompe, facendogli praticamente una lastra con lo sguardo. Senza darmi il tempo di ribattere alza il pollice, come se volesse darmi la sua approvazione.
«Ottima scelta.»
«Paul!» sbotto, ma Seb deve trovarlo divertente perché lo sento ridacchiare.
Arrivano le noccioline e ne prendo una manciata, per poi ficcarmele in bocca.
«Scusalo, Sebastian.» dico, una volta ingoiato.
«Purtroppo non conosce le buone maniere.»
«Non voglio sentimerlo dire da uno che mangia così.» sentenzia, disgustato.
Il suo sguardo si sposta ancora una volta su Seb. Aggrotta le sopracciglia, lo guarda, confuso.
«Ho la sensazione di averti già visto da qualche parte.» mormora.
«Frequenti la Columbia?» fa Seb.
«Nah, ho scelto il college più lontano possibile da questa gabbia di matti.» scherza indicandomi, ma si becca comunque un calcio sotto il tavolo.
«Zack, devi fare qualcosa per i tuoi scatti d'ira.» mi dice.
«Ti verranno le rughe se continuerai così e a trent'anni assomiglierai a nonna.»
«Ah-ah, che simpatico.» commento, fingendo una risata.
Paul torna con gli occhi sul mio amico, perdendosi fra i suoi pensieri. A un tratto un coro di no cattura la nostra attenzione. Alla televisione, un giocatore si è appena infortunato e il giornalista sportivo commenta la vicenda con una battuta: «Non c'era in ballo un contratto con i Giants? Speriamo che non debba dire addio a quel patrimonio da Richie Rich per una sola azione sbagliata!»
Questo fa scattare Paul, che si alza in piedi per la seconda volta nell'arco di pochi minuti. Lo fisso, stranito, ma il suo sguardo è rivolto a Sebastian.
«Sei mai stato a Coney Island?» gli domanda.
Una strana tensione prende possesso del mio corpo quando mi volto verso Seb. Ha gli occhi sbarrati, quasi gli avessero appena dato un forte spintone.
«Da piccolo.» ribatte infatti, a bassa voce.
Paul pare entusiasta, non l'ho mai visto tanto contento e io non capisco cosa stia succedendo. Sebastian invece è raggelato, immobilizzandosi quasi. Stringe i pugni, credo che abbia perfino smesso di respirare in modo regolare.
«Tu sei quel bambino! Richie Rich!» esclama Paul, indicandolo.
«Vi conoscete?» intervengo, perché Sebastian non da cenno di rispondere.
«Conoscerci? Giocavamo insieme da piccoli.» si rimette seduto, lasciandosi sprofondare nella poltrona-guanto.
«Tu non lo ricordi, Zack, ma è a lui che portavo i tuoi libri. Ci divertiamo un sacco a leggerli.» sogghigna.
«Voglio dire, erano parecchio assurdi!» continua, ma non lo sto più ascoltando.
Seb è così scuro in viso che mi preoccupa. Ha gli occhi spenti. Mi lancia un'occhiata, apre la bocca come se volesse dirmi qualcosa, ma non esce alcun suono da quelle labbra piene.
Gli prendo la mano sotto al tavolo, sperando che questo piccolo gesto riesca a calmarlo quanto tranquillizza me, ma lui si scosta di colpo, come se non volesse neanche toccarmi.
Si alza di scatto, borbotta qualcosa sul dovere andare e scappa fuori.
Avverto una stretta al petto.
Sbaglio o mi ha appena rifiutato?
«Che tipo!» commenta Paul, sorseggiando la sua birra.
«Non è cambiato per niente.»
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