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trentuno - 𝚕𝚒𝚗𝚍𝚊

𝚒𝚜𝚊𝚊𝚌 𝚜𝚙𝚒𝚍𝚎𝚛

Limone e disinfettante.
Penso, grattandomi il naso.

"Quando si dice che certe cose non cambiano!" mi fa eco la fatina, sdraiandosi sulla scrivania in legno d'acero, posta poco più in là.

La ignoro; preferisco osservare il profumatore per ambienti posizionato strategicamente nella parte più alta dello scaffale, alle spalle della mia psichiatra.

«È da molto che non ci vediamo.» mi dice Linda, sedendosi sulla sua poltroncina.

«Avevi sempre la lista piena.» le faccio notare, facendo spallucce.

Di fronte a noi, un tavolino di vetro ospita fogli bianchi, penne colorate, metà delle cose presenti in una cartoleria e una scatola di fazzoletti quasi vuota.
Le persone piangono spesso qui.

«Cos'è successo? Pazienti più problematici?» le domando, ma non la sto guardando in viso. La mia attenzione viene richiamata da altro.

Un dipinto olio su tela.

«Sai che non mi è permesso diffondere informazioni personali.» sorride, ma non calorosamente.
«Come sai che questo è un posto sicuro, in cui puoi parlarmi di tutto.»

Il suo è un ghigno bonario, ma professionale. Non mostra alcuna emozione, solo il freddo approccio di Freud. La apprezzo anche per questo: non mi tratta come se fossi stupido, rivolgendomi falso affetto.

"Peccato che tu sia stupido."

Zitta.

«È un bel modo per dirmi di farmi i cazzi miei.» ribatto, sprofondando nel mio posto.

«Mi sembri sulla difensiva, Isaac.» mi parla Linda, con la sua voce calma, rassicurante.
Piatta.

"Che noia."

Torno con lo sguardo alla cornice, anche per cancellare dalla testa quell'odiosa fata.
Linda adora adornare il suo ufficio con quadri di ogni tipo, ma li sostituisce spesso. Una volta mi ha confidato che lo fa perché rompono la monotonia della vita, qualsiasi cosa voglia dire.

«So che ti rifiuti ancora di prendere i farmaci.» continua lei, vedendo che non intendo risponderle.
Sapevo che sarebbe arrivato questo momento.
«Lo sai che sono fondamentali per la terapia.»

Cazzo.
Odio le paternali.

«Non voglio nessun farmaco!» mi impunto.
«Mi fanno sentire malato.» le lancio un'occhiataccia.

La psichiatra appunta qualcosa sul tablet, poi si sistema gli occhiali sul naso alla francese, portandoseli indietro con un dito. Le treccine che le incorniciano il viso asciutto seguono ogni movimento del capo, un gesto quasi ipnotico.

«Forse è ora di accettare la tua malattia.» parte cauta, ma i suoi occhi affilati, color cioccolato, mi inchiodano. Mi fulminano, benché non siano particolarmente espressivi. Senso di colpa?

Ritorno al dipinto. Faccio un respiro.

«Vorrei solo essere come chiunque altro.» mi apro.

Il ticchettio dell'orologio d'un tratto diventa insopportabile. Succede ogni volta che provo a parlarle di me, ma non perché lei non mi metta a mio agio. Credo di essere agitato, però a farmi effetto è più l'argomento che il mio interlocutore.

«Non esiste una sola persona uguale a un'altra, Isaac.» mi rincuora, a modo suo.

Inizio a giocherellare con le dita: acchiappo il medio con il pollice e l'indice, lo libero, mi aggrappo al mignolo. Così facendo, mi sfogo, prendo coraggio.

«Ho paura di diventare apatico...» sussurro, però penso che lei mi abbia sentito, perché digita qualcosa sulla tastiera.
«Non voglio smettere di provare sentimenti, voglio arrabbiarmi, Linda.» le confesso.
«Voglio piangere e anche...» mi fermo, credo di aver detto troppo. La fatina mi lincia, ha le braccia conserte. Guardo il dipinto.

«Amare?» Linda termina per me la frase, dopodiché, forse notando la mia persistenza nel fissare quelle chiazze di vernice, mi domanda: «Ci vedi qualcosa di speciale?»

«Cosa?» ribatto, preso in contropiede.

«È da quando sei entrato che fissi quel quadro.»
Ha ragione.

«No.» mento.

In realtà le linee curve che creano i due amanti, abbracciati in quella posa malinconica e con gli occhi in giù, mi fa stringere il petto. Lei piange, lui prova a sorreggerla e tutto quel blu urla disperazione; eppure non riesco a trovarlo brutto, sarà che lui la avvolge come se fosse ceramica preziosa o magari è perché lei ha evidenti ferite sul petto. Il suo cuore è lacerato, il sangue scarlatto che esce dal povero corpo si mescola con la pioggia fredda e pura della notte, ma lei pare così innamorata che non gliene importa. Lui è lì, al suo fianco, il resto non conta.

«Volevo dire ridere.» mi correggo, forzandomi a distogliere lo sguardo da quella tragedia.
«Voglio ridere, qualche volta.»

Linda scrive qualcosa.

«Nulla ti impedisce di farlo.» mi dice.
«La terapia ti darebbe una gran mano in questo senso.» aggiunge, notando il mio scetticismo.

Sì, posso ridere.

"Per ora." sottolinea la fatina con voce grave, poi però fa una giravolta su se stessa, mi sorride dolce e mi domanda con tono zuccheroso: "Quando chiami Seb?"

Assurdo.

Forse Linda legge nel pensiero, o magari percepisce la tensione che provo, perché mi ricorda: «Non è detto che svilupperai tutti i sintomi.»

«Le visioni ce le ho però.» sbuffo, stringendo i pugni.

«Le allucinazioni sono comuni.» si appunta qualcosa sul tablet.
«Dimmi, sono peggiorate?»

«La vedo ogni giorno, ogni momento quasi.»
Non ho motivo di raccontarle balle.

«Capisco...» mormora tra sé e sé.
«Ti va di dirmi cosa vedi di preciso?»

«Lo sai. La fata del dentifricio.»

Finalmente Linda molla il tablet, posandolo sul tavolino, prende la sua tazza di caffè e se la porta alle labbra. È una cosa che di solito evita di fare durante una seduta, perché non è chissà quanto professionale fare pausa-snack di fronte a un paziente, però da quando le ho detto che il profumo del caffè mi rilassa, complice il locale dei miei, ha cominciato a berlo in mia presenza.

Dubito che ammetterà mai che lo faccia per me. Lei sostiene che le piace da impazzire, il che non regge molto perché ogni volta che prova a mandarne giù un sorso, il suo viso si accartoccia in una smorfia disgustata, cosa che sta succedendo proprio ora, e poi non lo tocca più per tutto l'incontro.

«La vedi anche in questo momento?» chiede.

Annuisco.
«È dietro di te e sta facendo le boccacce.»

Penso che l'abbia scelta come nuova vittima: ha spalancato le enormi fauci, le fa la linguaccia con le labbra piegate all'insù.

«Nessuna visione spaventosa?» mi guarda di sottecchi, riprende il tablet.

Deglutisco.

«No, non direi.» bugia. Non so nemmeno perché mi sia venuto spontaneo tacere sulla faccenda. Forse è perché la mamma mi sta troppo addosso e non voglio che inizi anche lei.
«Però ogni tanto mi insulta.» provo a mettere una pezza.
«Mi dice che sono un idiota perché non mi faccio avanti con Seb o perché mi illudo di avere qualche chance con lui.»

Linda smette di digitare, alza gli occhi dallo schermo.

«Seb?» chiede.

In effetti, penso di non aver mai detto nulla su di lui durante le nostre sessioni. Magari non l'ho nemmeno nominato. Di solito mi lamento dei miei o di Isabel che continua a fregarmi la play. Qualunque cosa, pur di non parlare di ciò che è importante, della cosa che mi sta succhiando via la vita dalle vene.

«Un amico.» sorrido.
«Il mio migliore amico.»

«Non mi avevi mai parlato di lui.»
È il suo modo per dirmi di andare a ruota libera, di buttare fuori tutto ciò che mi passa per la testa.

«L'ho conosciuto qualche mese fa. È bello, molto.» le dico e, come ogni volta che penso a lui, il mio sorriso si allarga.
«Di recente ha fatto a botte per me, ero arrabbiato, ma si è fatto perdonare subito.» aggiungo, ridacchiando, nervoso.
«Però ora ha una stupida ragazza.» concludo, grattandomi la nuca, un gesto che Sebastian fa spesso e che deve avermi trasmesso.

«E questo ti causa turbamento emotivo?»

Perché alla fine l'argomento principale è sempre un "turbamento emotivo"?
Mi lamento, ma non oso dare sfogo ai miei pensieri, anche se non riesco a trattenere uno sbuffo. Mi muovo, stressato, sulla poltrona, lei se ne accorge.

«Se mi stai chiedendo se voglio sbattergli la testa contro il marciapiede, la risposta è sì.» aggrotto le sopracciglia, poi mi rendo conto che Linda tende a prendermi troppo sul serio, quindi correggo il tiro, notando il suo viso scurirsi.
«Metaforicamente parlando. Santo cielo, non gli farei mai del male!» esclamo.
«È l'unico che mi capisce davvero in questo schifo di mondo.»

Il guizzo che per un attimo le illumina gli occhi mi fa capire che ha appena deciso su cosa dovremmo concentrarci per questa seduta. Sempre che io glielo permetta.

«Perché pensi che il mondo faccia schifo?» fa la domanda più difficile.

Ci penso per un attimo. Mi concentro nuovamente sul quadro, quella macabra, contorta e romantica storia. I visi dei due giovani non hanno nulla di dritto, sono pure bruttini da un certo punto di vista, però le loro espressioni tristi restano meravigliose.

«Hai mai la sensazione di annegare?» le chiedo d'un tratto.

Vedo, con la coda dell'occhio, che mi fissa, aspettando che vada avanti.

«Io ce l'ho costantemente.» borbotto, mordendomi poi l'interno della guancia.

Aspetto qualche secondo, Linda non mi fa pressione e sta al mio ritmo, in religioso silenzio. Le sono grato.

«A volte mi sembra che niente sia reale, di essere l'unico davvero vivo in mezzo a centinaia di manichini. Altre, è l'opposto. Mi sento praticamente morto.» le confesso.
«Sebastian però mi fa sentire vivo e so che è reale. È come se fosse la mia unica certezza.» concludo e, solo dopo averle pronunciate, mi rendo conto di quanto le mie parole siano sincere, di quanto Seb significhi davvero per me.

La cosa mi spaventa un po'.

«Lui è molto speciale per te?» mi guarda incuriosita, è la prima volta che affrontiamo questo tabù insieme.

Inspira. Espira.
Mi obbligo.

«Ne sono innamorato.»
Da morire.
«Ma non penso di meritarmelo.»

«Perché dici questo?» alza un sopracciglio, assumendo uno sguardo intelligente quanto tagliente.

Allora non resisto più e, come una diga in piena fa con il suo fiume, io riverso su di lei tutti i pensieri intrusivi che mi stanno avvelenando l'anima.

«Sono rotto, Linda, e i miei cocci lacerano chiunque.» sbotto.
«Lo sai anche tu.» inizio a tamburellare sul pavimento con il piede.
«Paul ride molto, ma non è più lo stesso da quando...» mi ammutolisco.

Strizzo le palpebre, rivedo quell'onda enorme che inghiotte il sole.

«Da quel giorno.» sussurro, il sapore del sale mi pizzica la lingua.

Mi allungo verso il tavolino, aprendo appena gli occhi. Linda mi passa un bicchiere d'acqua fresca. La bevo, avido. Non so da dove l'abbia tirata fuori, ma sono felice che sia comparsa.

«Isabel e Georgie invece mi prendono sempre con le pinze. Non importa cosa faccia, non litighiamo mai.» concludo, dopo l'ultimo sorso.

«E credi che questo sia un problema?»

«I fratelli dovrebbero farlo ogni tanto, no? Battibeccare, urlarsi contro o che ne so...» poso il bicchiere sul tavolino, è vetro contro vetro e produce un suono irritante.
«Ma loro mi giustificherebbero anche se ammazzassi qualcuno. Non è normale. Mi fanno sentire sbagliato.» mi impunto.

So che è assurdo, me ne rendo conto, ma odio essere trattato come se fossi fatto di cristallo. Non voglio essere protetto, desidero solo che mi comprendano.

«Sebastian non mi fa mai sentite così, noi litighiamo a volte.» sorrido amaramente.

«Litigi importanti?»

«No, più che altro per sciocchezze.» ridacchio.
«Una volta abbiamo discusso per l'ultima patatina rimasta nel pacchetto.» è un ricordo dolce, quello.
«Ero così felice che ho quasi pianto.»

«Isaac, forse avresti più momenti così se-»

«Non mi dire di prendere le medicine.» la interrompo.
«Non lo farò.»

Linda rimane in silenzio, cerca di soppesare le parole, di non farmi scoppiare.
Era esattamente questo ciò di cui parlavo. Sebastian mi avrebbe dato dell'idiota e mi avrebbe ficcato le pastiglie in gola, al posto suo.
Mi dico, per poi rendermi conto di quanto sia stupido questo pensiero.

Ho evitato di informarlo sui farmaci proprio per non fargli capire quanto in realtà io sia problematico. Non voglio che cominci a trattarmi come un pazzo che non sa prendersi cura di se stesso.

Mi gratto il polso. Sono agitato.

«Seb sa di questa tua decisione?» domanda Linda all'improvviso, pungendomi sul vivo.
È troppo acuta, a volte.

«No.» ammetto.

«E del tuo problema?» continua lei.

«Sì.» bisbiglio.
«Lo sa. Gliel'ho detto, ma ne abbiamo parlato davvero una sola volta.»

E allora comincio a spiegarle di quel discorso di almeno due mesi prima, poi dell'incidente in bagno di qualche settimana fa, del bacio che ci siamo scambiati subito dopo.

Ogni sillaba diventa lieve, non riesco a smettere di parlare. È questo l'effetto che mi fa questa donna.
Ogni volta che esco di qui, dopo tutti i drammi e le crisi isteriche, mi sento un po' meglio e allora comincio a blaterare e non mi fermo. Sono nervoso, sì, ma ho la lingua sciolta e più vado avanti, più il cuore mi si alleggerisce.

«Credevo che mi avrebbe allontanato, come tutti.» concludo.
«Ma è rimasto con me.»

«Cosa ti ha detto?» mi domanda, pensierosa.

«Che io ero io.» sorrido.
«Qualunque cosa accadesse.»

«Sembra una brava persona.»

Lo so.
«È il migliore.»

«Se è così, perché avevi il dubbio che ti lasciasse?»

«Seb è fantastico.» puntualizzo e mi sembra già una risposta, però a Linda non basta.
«Che se ne fa di un peso inutile?»

«Tu non lo sei.»

«Non prendiamoci in giro.» rido, ma senza alcuna nota allegra. La mia è rassegnazione.
«Certo che lo sono.» mi indico. Fa per aprir bocca, però sono tempestivo e la blocco immediatamente.
«Non sprecare tempo. Non cambierò idea e abbiamo meno di venti minuti ormai.»

«Va bene, possiamo smettere di parlarne se non ti va.» cede subito.
Ecco un'altra cosa che mi piace di lei: non è insistente.

«Non mi va.»

«Allora torniamo a Sebastian.» mi dice.
«Devo chiedertelo, gli hai raccontato della tua condizione perché speravi che ti allontanasse?»

«Forse.» faccio spallucce.
«Io sono rotto dopotutto.»

«Isaac, avere la schizofrenia non vuol dire essere rotti.» il suo tono rimane calmo, ma è il mio cuore a diventare pesante d'un tratto.

Quella parola mi toglie il fiato. L'abbiamo evitata come la peste. Non volevo affrontarla, non ero pronto. Distolgo lo sguardo.

«Non lo dire.» la prego.
«Non mi piace chiamarla per nome.»

«Bisogna dare un nome alle cose per non averne paura.» prova a incoraggiarmi, ma non ce la faccio.

«A me lo Slenderman ha sempre fatto paura e so che si chiama Slenderman.» ribatto, cocciuto.

«Isaac...» fa lei. Ci va con i piedi di piombo, però aiuta poco.

«No, non usare quel tono con me!» sbotto. Di solito non alzo la voce, ma ora mi sento tradito. È stato così improvviso che mi ha fulminato e adesso non riesco a fare a meno di pensarci. Ho una malattia. Una di quelle un cazzo di nome. Una di quelle gravi. Merda.
«Non voglio essere biasimato.» mi porto la testa fra le mani, trattengo un singhiozzo.

Mi sono fatto un bel pianto. Una volta uscito dall'edificio, comincio a camminare verso casa.
Ho gli occhi rossi, ma il cuore un po' più leggero grazie allo sfogo.

Anche se sono andato fuori di testa per qualche istante, ho già preso appuntamento per la prossima settimana. Passare del tempo con Linda in fondo mi ha aiutato. Abbiamo fatto chiarezza su alcune cose. Sul mio rapporto con Seb, in primo luogo.

Alla fine le ho fatto promettere di non usare più quella parola, almeno per altre due sedute. Lei ha digitato qualcosa sul suo tablet, poi mi ha sorriso con il suo solito ghigno. Per gli ultimi dieci minuti abbiamo parlato di Akiko.

Ieri sera è stato un vero inferno, a cena. Non voglio nemmeno pensarci. Ero così felice dopo quello che è successo con Sebastian, ma quel pasto indigesto mi ha guastato totalmente l'umore.

Ma perché la mia vita è così complicata?
Mi domando.

Un tipo mi scansa con una spallata, non mi chiede scusa e prosegue per la sua strada. Mi massaggio la zona, guardando male quella schiena che si allontana.

Ci sono diverse persone in giro, ma nessuno fa caso a me, questo mi rassicura in parte, perché si vede benissimo che ho pianto a fiumi. Forse anche per non spezzare questo equilibrio, decido di lasciar perdere.

Faccio un respiro profondo, provo inutilmente a calmarmi.

Poi una canzone. Sobbalzo.

Il telefono squilla. Suoneria personalizzata. Accetto subito la chiamata.

«Ehilà, Sebby.» lo saluto. Anche se sono stanco morto, non posso non sorridere. Lui arriva sempre al momento giusto, come i supereroi.

«Ehi, piccolo. Sei impegnato?» mi chiede.

Faccio di no con la testa, anche se non può vedermi.
«Totalmente libero.»

Lui esita un secondo.
«Hai voglia di un secondo round?» soffia infine, facendomi venire i brividi giusti. Non serve che si spieghi oltre, sono già diventato un fuoco.

«E me lo chiedi?» bisbiglio, aumentando il passo.
«Cos'hai in mente?» lo provoco.

«Beh, mi sono già lavato dappertutto.» sghignazza.

«Ma pensa, io voglio baciarti dappertutto.» lo dico a bassa voce, ma il clacson di una macchina ci assorda entrambi e sono costretto a ripeterlo con un tono un po' più alto. Ho il cuore a mille.

«Già, quello che pensavo.» ride. Allora mi aveva sentito. Che stronzo.
«Ti aspetto a casa mia.»

«Quella da ricconi?» lo prendo in giro.

«Sbrigati, idiota.»

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