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Capitolo 8

Me ne andai di corsa. Ripercorsi la strada dell'andata, consentendo loro di proseguire dalla parte opposta. Affrontare il viaggio insieme dopo le ultime novità non mi sembrava il caso. Ancora non riuscivo a crederci, benché le possibilità della natura dei miei problemi avessero potuto dipendere da loro. Quella cosa ha pure un nome, pensai disgustata. La storia in sé era surreale e se avessero solo avuto voglia di prendersi gioco di me era più che inaccettabile.

Le luci del giorno si erano già spente, tutto in quel parco mi inquietava più di prima. I colori scuri degli alberi, le ombre che formavano, grazie al cielo riuscivo a vedere bene il sentiero. Passare la notte nel cuore di un bosco sarebbe stata la ciliegina sulla torta di questa strana esistenza. Per fortuna i lampioni non mancavano, pronti a illuminare quel poco di terreno. I movimenti nei laghetti mi causarono persino angoscia, anche se si trattava solo di qualche cigno o papera. La mia mente era arrivata a pensare che ci fosse un maniaco nell'acqua, o da qualsiasi altra parte, pronto a saltare fuori.

Camminavo il più veloce possibile, non badando ai jogger serali o ai pochi cani che facevano il loro ultimo giro della giornata. Non mi fidavo di quelle persone, avrebbero potuto essere loro i maniaci, ben visibili al pubblico per non essere sospettati. Come Verena e Mitchell. Se la febbre del giorno prima fosse stata tutta una farsa per incastrarmi? Avrebbero potuto mettersi d'accordo e inventarsi una storia – di cui non avrei mai avuto le prove dell'esistenza – per tenermi a bada, soggiogarmi, o qualsiasi altro motivo avessero in mente.

Dovevo respirare, non lo facevo da qualche secondo.

Cominciai a sentire i rumori della città e a vedere qualche faro di auto provenienti dalla Straße des 17. Juni.

Non avevo ancora capito niente della città, però il nome del mio quartiere era Mitte e la Brandeburger Tür era il mio punto di riferimento. Una volta arrivata lì, probabilmente allungando la strada, imboccai le vie per arrivare a casa mia.

Non gradivo l'idea di passare per viali isolati, mi mettevano più agitazione di quanto avrebbero dovuto. Ancora non avevo familiarità. Cercai di ricordarmi la via di casa e la scrissi su Google Maps.

Non ricordavo fosse così lunga, senza telefono i minuti sembravano più corti. Avrei dovuto dire addio al mio punto di riferimento, mi costava due isolati in più.

Per farla breve, il navigatore mi fece svoltare per Potsdamer Platz. Avrei potuto incamminarmi prima, la riconoscevo per via di tre grattacieli messi in mezzo alla strada. Era già tutto illuminato e pieno di luci, così seguii tranquilla la via lungo il marciapiede.

I nuvoloni non tardarono ad arrivare, l'ultimo mio desiderio era di beccarmi la pioggia. Per fortuna esistevano i portici e mi sarei riparata, in ogni caso.

Oppure per sfortuna.

Poco avanti a me, tre uomini in giacca e cravatta vennero scortati fuori da un locale. Sentivo risate e imprecazioni, non che richieste di perdono. Dio, come si faceva ad essere ubriachi ancor prima di cena? Beh, in realtà ero in ritardo io, ma solo di venti minuti. Rassegnati, i tre signori si accesero un sigaro per uno e cercarono di andarsene sbilanciandosi qua e là. Non erano poi così vecchi, oltre i trent'anni sicuro, ma non riuscivo a definirlo, trasandati e spettinati com'erano. Le giacche erano sgualcite e uno di loro aveva una chiazza rosso scuro sulla camicia.

Come lo sapevo?

Stavano venendo verso di me.

Pian piano riuscivo a capire qualche tratto di più, per esempio un rivolo di sangue sotto il labbro inferiore del terzo.

Avevano fatto una rissa al locale ed erano stati buttati fuori.

Guardai altrove quando furono vicini abbastanza da notare il mio interesse, perciò iniziai a farmi gli affari miei.

Non appena mi oltrepassarono sentii una puzza di alcol da far venire mal di testa, perché non si trattava di un sapore solo, ma erano varie bevande mischiate, come se ognuno avesse preso grandi quantità di alcolici diversi.

L'odore del sigaro non l'avevo mai sopportato, perciò trattenni il respiro lungo tutta la strada che avevano percorso.

Che incontro sgradevole.

Alla prima a destra girai e notai che non era la stessa strada che facevo tutti i giorni. Doveva essere un'alternativa più veloce, o più lenta, scelta da Google, perciò non la riconobbi.

Valutai se tornare indietro e camminare per zone familiari o lasciarmi trasportare da Internet anche a costo di perdermi. Affinché io non abbia sbagliato a scrivere la via di casa mia, come avrebbe potuto il navigatore farmi perdere? Mi fermai per controllare il percorso rimanente e la destinazione era corretta. Mi bastò per farmi proseguire e farmi conoscere nuove facce della città.

Poi un rumore dietro di me mi fece sobbalzare.

«Ehi», biascicò qualcuno.

Non osai voltarmi, feci finta di non accorgermene e aumentai il passo.

«Dico a te, ragazzina».

Merda.

Voltai appena la testa per vedere chi fosse e non potevo crederci. I tre uomini mi avevano seguita.

Continuai a fare finta di niente, se io li avessi ignorati loro avrebbero smesso di attirare la mia attenzione.

Dal momento che erano ubriachi camminavano piano, ma avevano sicuramente recuperato terreno quando mi ero fermata a pensare.

Avrei potuto farcela comunque, continuando per la mia meta e seminandoli.

Svoltai un'altra volta, non mi andava di correre o avrei mostrato la mia paura. Non mancava molto, infondo.

«Non scappare», sentii in lontananza, come se avessero urlato.

Li avrei persi in un minuto, avevo tutto sotto controllo. Tranne le palpitazioni.

«Tranquilli», disse un'altra voce, ma non proveniva da dietro, era più vicina. Mi voltai per guardare e mi accorsi solo in quel momento che i lampioni erano finiti. Riuscii a scorgere solo due sagome sul fondo della strada.

Ma dov'era il terzo?

«Eccoti».

Davanti a me.

«C-come?», dalla sorpresa non riuscii a formulare nessuna frase, ma l'uomo parve capirmi.

«Vie parallele, la città né è piena».

Sembrava meno ubriaco degli altri, se non altro la sua voce non decadeva. Era quello con la giacca sgualcita.

«Lo sapresti se fossi di qui, sapresti anche che non dovresti girare a quest'ora, in luoghi bui, tutta da sola».

Sorrise.

Aveva pianificato lui l'inseguimento? Sicuramente sembrava più sveglio degli altri. A proposito. Sbirciai dietro e li trovai appoggiati a un muro, non più così lontani.

«Potresti incontrare brutta gente».

Falso incantatore.

Ma perché avevo perso la voce?

«Sta alla larga da me», riuscii a dire. Dovevo farmi venire un'idea. Quel tizio mi stava facendo indietreggiare, avrei dovuto smetterla o sarei andata da quei due. «Mi metterò ad urlare!».

«Non te lo permetteremo», il suo tono sembrava molto più minaccioso di prima. «In questa favola non esiste il principe azzurro».

«Non prendo gli ordini da nessuno!», avevo smesso di avere paura, d'un tratto sentivo una forza amichevole risalirmi in corpo.

«Non ti faremo del male», sentii biascicare da dietro.

«Vogliamo solo divertirci un po'».

Avevo il presentimento che si fossero avvicinati entrambi, nella speranza di circondarmi.

«E' stata una brutta serata, ma tu sei così bella», il più sveglio allungò una mano, inizialmente per accarezzarmi il viso. Ma non appena mi spostai mi afferrò il braccio.

«Mollami!», urlai di nuovo, cercando di divincolarmi.

In risposta tutti e tre risero, mentre la presa si stringeva.

Fu allora che sorrisi anche io.

Inclinai la testa e sorrisi mostrando i denti. «Ho detto mollami», affermai in tono più dolce.

L'uomo mi attirò a sé e in quel momento decisi che era ora di usare la violenza.

Gli storsi il braccio, scrocchiandogli le ossa del polso.

Gemette dal dolore e lasciai che si piegasse e si prendesse l'arto con l'altra mano. Non avendone abbastanza gli lanciai un calcio, colpendolo lateralmente e facendolo cadere.

Continuavo a sorridere e i miei occhi trasmettevano odio e malvagità.

«Cosa pensi di fare?», il secondo si buttò da dietro per avvolgermi tra le sue braccia e probabilmente stritolarmi.

Alzai gli occhi al cielo. Appena si agganciò per me fu facile tirargli una gomitata allo stomaco e un pugno al naso. Appena indietreggiò, coprendosi la faccia, gli sferrai un gancio sulla tempia e lo abbassai dalle spalle per infilargli un ginocchio sullo sterno, umido di vino rovesciato.

Lo buttai a terra, ma ancora non mi sentivo soddisfatta.

La mia espressione feroce spaventava il terzo uomo, lo si leggeva in faccia.

«Patetici i tuoi amici», cantilenai.

L'uomo li stava guardando allibito, non osava muoversi. Anche io feci un giro di ispezione e per terra trovai qualcosa che mi fece illuminare gli occhi.

«Parecchio noioso, non trovi?», raccolsi un tubo lungo e nero, di ferro, accanto a me.

Ora era lui paralizzato, senza sapere cosa fare, mentre io gli camminavo davanti e mi avvicinavo sempre di più.

Era più alto di me e per niente in forma. Lo presi dal colletto della camicia e lo sollevai di peso senza fatica.

Si lamentò e scalciò, mentre tentava di strapparmi le mani dal suo collo. «Ti prego!», mi supplicò.

Scoppiai a ridere e digrignando i denti alzai il braccio con cui tenevo il tubo come un'arma.

Feci per colpirlo in testa, quando venni scaraventata a terra.

Qualcuno mi aveva spinta, facendo cadere sia il tubo che l'uomo dalle mie mani. Picchiai il mento sull'asfalto, ma mi sollevai subito, mettendomi a posto i capelli appiccicati al viso.

Chiunque fosse stato l'avrebbe pagata, ma quando guardai dietro di me non vidi nessuno se non l'uomo ubriaco scappare. Cercai di alzarmi, riprendendomi l'arma, quando sentii uno strano rumore sopra di me.

Non riuscii a credere ai miei occhi.

Sbalordita trattenni il fiato, ma venni presa per le spalle e messa con la schiena contro il muro.

Guardai la persona che non mi stava permettendo di appoggiare i piedi al suolo.

Odiavo quello sguardo, mi irritava.

Ero sia sorpresa che scioccata di vederlo.

I suoi occhi azzurro tempesta mi fissavano più seri del solito, la sua bocca carnosa era serrata e i suoi capelli biondi svolazzavano sulle sue spalle.

Da dove era spuntato e come aveva fatto Mitch a trovarmi?

Ero così concentrata sul mio respiro che non mi accorsi della stranezza. Il suo contorno era più scuro, ma una strana luce violacea metteva in risalto quelle che sembravano due ali nere.

Riacquistai lucidità non appena mi resi conto di quel che stavo vedendo. Osservai per terra, i due uomini che avevo pestato, e poi il metallo freddo che tenevo in una mano. Lo lasciai cadere ed emise un suono acuto contro il suolo.

Mi concentrai un'altra volta su Mitch, ma non su di lui, sulle sue ali. Erano grandi tre volte il suo corpo, coperte di piume all'apparenza più soffici di un gatto.

Non seppi il motivo, ma iniziai a lacrimare, come se quello spettacolo fosse troppo per occhi umani. Non riuscivo a parlare e una nuova emozione prese il sopravvento.

Mitch mi posò a terra, allentando la presa ferrea sulle mie spalle.

Mi asciugai gli occhi e distolsi lo sguardo, in colpa con me stessa per ciò che era successo.

«Hai visto cosa stava per succedere? Se non fossi intervenuto avresti ucciso tre uomini!», mi sgridò. Ormai mi ero abituata alla sua freddezza. Ma non riuscivo a credere che avesse un paio di ali. Erano vere, erano lì.

O forse stavo sognando?

I tre uomini mi avevano fatto perdere i sensi, perché io non sapevo niente di combattimento e loro erano in tre. Questa era la verità, probabilmente mi stavo immaginando tutte le storie che Mitch mi aveva raccontato quel pomeriggio, mentre ero priva di sensi sulla strada fredda.

«Non tu, non sei un'assassina, ma Jane sì».

Mi riportò alla realtà, oh no, era tutto vero. Avevo fatto del male ad altre persone, come era sempre capitato a Leinburg e come mi ero promessa di non fare più.

Nuova città, nuova vita.

Ma non ero riuscita a impedirlo, il mio passato mi tormentava ancora, gli stessi errori di allora compiuti ancora una volta.

Stavo per crollare.

«Mi dispiace», singhiozzai.

Avrei voluto darmi un pizzicotto e risvegliarmi, per cominciare quella giornata daccapo. Che incubo.

Riuscivo a distinguere le ali di Mitch per via del fascio viola, erano tese come le orecchie di un cane, alle sue spalle.

Si accorse che le stavo fissando. «Lo so che è presto, non avrei dovuto, però...», le abbassò, come se fossero semplici braccia e non oggetti magici. «Quando Jane si sente in pericolo...».

Lo guardai male.

«Scusa, quando tu ti senti in pericolo compi azioni involontarie, violente, perché è lei che protegge il suo nuovo corpo. Questa volta sembra sia più intenta a tenerti stretta, perché ha capito che ci sono io e farà di tutto per non morire e trasferirsi in un altro umano».

Ora capivo molto di più, non ero io ad essere sbagliata, aggressiva, era solo un meccanismo di autodifesa.

Non andava bene comunque, non sarei riuscita lo stesso a padroneggiarla. Mi asciugai le lacrime, piangere era inutile. «Come hai fatto a trovarmi?».

«Sentivo che lei era qui. Anche a scuola mi era sembrato di percepirla, ma all'inizio non sapevo fossi tu, ho bisogno che sia lei a prendere il controllo per rintracciarla».

«Tu e Verena ci avete pensato su parecchio».

«Puoi biasimarci? Nei nostri panni non avresti fatto la stessa cosa?».

Che odio dover rispondere per forza, certo che sì. «Scusami».

«Perché?».

«Per aver dubitato e avervi scambiato per ogni genere di malfamati: psicopatici, scienziati pazzi, serial killer», mi fermai, mi stava guardando come se quelle cose fossi io.

«Per tua fortuna siamo solo Demoni», chiarì.

Mi sentii in soggezione come in un esame davanti a dieci professori e studenti. Ma in fondo era solo Mitch, secondo nome "Sei imbarazzante" e si riferiva a me.

In questa favola non esiste il principe azzurro, aveva detto l'uomo alla sinistra di Mitch. Che sia lui il principe? Beh, un Demone, quindi l'opposto, anche se non conta l'essere, ma le sue azioni e lui mi aveva salvata. Tecnicamente mi ero salvata da sola, ma lui mi aveva messa in salvo da me stessa.

E se fosse stato Satana a salvarmi lo avrei chiamato lo stesso principe azzurro? No, forse rosso. «Che idiozia!», pensai ad alta voce.

«Mi stai dando dell'idiota per aver protetto quattro vite?».

«Non ce l'avevo con te!», mi inventai, mortificata per averlo fatto arrabbiare di nuovo.

Avanzò, dispiegando le ali, e mi guardò negli occhi. Ogni volta il suo sguardo mi intimoriva.

Le prime gocce di pioggia fine bagnarono i nostri volti e il silenzio si interruppe.

«Devi tornare a casa, Gwen».

Me ne ero completamente scordata. Guardai l'ora ed erano le nove passate. Quella era stata una mossa idiota.

«Conosco una scorciatoia», sbuffò, «dopo quanto successo non voglio altri guai», mi stava porgendo una mano, seppur a fatica dovevo dire. Il ribrezzo che provava nei miei confronti era doloroso quanto una pugnalata.

«Non mi fiderò mai più di Google Maps», strinsi la sua mano con la mia. Era ancora caldo, ma non percepii nessuna scossa elettrica.

Lui corrugò la fronte, sapeva almeno cosa fosse Google Maps? Non lo diedi per scontato. «E di loro cosa facciamo?».

Guardai ancora una volta i due uomini a terra, mentre l'altro era sicuramente in giro a delirare e gridare che una ragazza gli aveva fatto il culo. Nessuno avrebbe mai creduto a quella storia, specialmente raccontata da un ubriaco.

«Stanno dormendo, li sposto sotto quella tettoia, così non si inzuppano troppo». Mi lasciò la mano e di peso prese entrambi, dalle giacche, portandoli sotto il tetto sporgente di una casa. Ritornò e questa volta mi porse entrambe le braccia. «Pronta?».

«Aspetta, vuoi che voli con te?». Neanche per sogno, le strade avrebbero potuto essere pericolose, ma si era accorto che pioveva? Non volevo infradiciarmi di più. E poi, da come mi trattava, preferivo fare da sola piuttosto che farmi un giro sulle sue braccia possenti. Mi dispiace, ma per me il volo su EasyMitch era stato cancellato. «Okay». Nonostante i miei pensieri afferrai di nuovo la sua mano.

Inaspettatamente mi sentii prendere in braccio e stringere sulle gambe e sulla schiena. Arrossii involontariamente, mentre gli occhi minacciavano di uscire dalle orbite. Non mi sentivo a mio agio, ma al contempo sì, ero combattuta. Più che altro non ero sicura di voler viaggiare volando, ma tra le braccia di Mitch stavo da Dio, o avrei dovuto dire da Diavolo. Queste battute non fanno più ridere, Ginny.

«Dove abiti?».

«Voxstraße».

«Sarà un viaggio corto, ma comunque rischioso, reggiti forte».

D'istinto appoggiai la testa nell'incavo del suo collo e gli strinsi forte le spalle. «Devo dirti una cosa», parlai prima che fosse troppo tardi. Ma Mitch si era già sollevato da terra e non ero preparata all'impatto con l'aria gelida. Chiusi gli occhi e lo dissi comunque. «Soffro di vertigini».

«Lo avevi già detto», rispose tranquillo.

E' vero, al bar di Alexanderplatz. Quindi aveva ascoltato.

Sentivo il vento soffiarmi contro il viso, non ero pronta a guardare. Sapevo che me ne sarei pentita, però mi sarei odiata di più se non avessi visto le sue ali all'opera. Dopotutto, non potevo sapere se si fosse ripetuto ancora. Dovevo aprirli e ricordare bene ciò che stava succedendo. Lentamente sollevai le palpebre e gli occhi mi diventarono lucidi. La pioggia si stava abbattendo contro il mio viso in un modo fastidioso. Non riuscivo a vedere granché, se non altro avevo capito che non c'era niente da temere. Volavamo basso, per dire, sopra il tetto di alte palazzine a schiera. Mitch faceva attenzione a non sfiorare la strada, in caso qualcuno avesse alzato lo sguardo vedendoci. Era una sensazione bellissima, di assoluta libertà. Non mi ero mai sentita così leggera e il cielo non era mai stato così vicino. Senza le protezioni di un aereo.

Allentai la presa dalle spalle di Mitch, volevo toccare l'aria che volava con me. Mi sentivo come su una nuvola.

«Non ti ci abituare», s'intromise Mitch.

Gli sorrisi e, per la prima volta, vidi sorridere anche lui. Avrei potuto benissimo abituarmi a tutto questo. Le sue ali battevano delicatamente contro l'aria, a ritmo regolare.

«Dove ti devo lasciare?».

Non avrei voluto scendere, ma casa mia era lì nei paraggi e quando la vidi gli indicai una delle ville costruita per conto proprio.

Atterrò davanti all'ingresso, facendomi venire le vertigini. Controvoglia scesi dalla sua presa e l'uso delle gambe mi sembrò così superfluo.

«Grazie, per avermi accompagnata e il resto», dovevo ammettere che aveva ragione, punto.

«Spero che d'ora in poi tu stia più attenta», con un piccolo slancio tornò in volo, mantenendo il contatto visivo.

«Aspetta», prima che fosse tardi lo fermai, a un'altezza tale in cui mi avrebbe ancora sentita. Dentro di me ci avevo pensato, subito dopo che Mitch mi schiantò contro al muro per impedirmi di uccidere qualcuno. «Anche Jane aveva le ali?».

«Sì».

«E sono come le tue?».

Non rispose, ma continuava a fissarmi.

«Buonanotte, Gwen».

Continuò ad alzarsi in volo e sparì tra la pioggia. Restai a guardarlo, anche se era diventato tutto nero, ma la scia viola delle ali lo metteva in risalto contro il cielo buio.

Ancora non riuscivo a connettere. Avevo passato il resto della serata a chiedermi se non avessi sognato tutto. Ciò che mi circondava non aveva importanza, percepivo solo un sottofondo di urla, voci familiari, probabilmente quelle dei miei genitori che mi sgridavano per l'orario. Non m'importava, annuivo ogni tanto con lo sguardo perso e in silenzio me ne andai in camera. Ero troppo scioccata per prestare attenzione alla monotonia, non ne avevo bisogno, i miei movimenti meccanici fecero sì che andassi a dormire lavata e profumata senza che me ne accorgessi.

Non ricordai di sognare nient'altro che gli avvenimenti vissuti, con la leggera piega degli eventi successivi: casa mia era diventata l'Inferno e Mitch si era fermato per il dessert.

Anche in quel momento avevo la testa per aria, ricordavo a malapena di aver preso il pullman per andare a scuola. Ma non era domenica? Avevo saltato un giorno e non me ne ero resa conto?

I compiti, avevo fatto i compiti, non ero uscita di casa e avevo passato la giornata chiusa in camera.

Beh, poco contava, ero talmente assorta, per non dire di peggio, da non avere nessun controllo delle mie azioni. Avevo in mano una matita che da parecchi minuti stava pasticciando su un foglio.

Stavo disegnando il corpo perfetto di Mitch con le sue ali nere che lo contornavano. Ero stata molto precisa, volevo copiarle perfettamente e morivo dalla voglia di sapere se fossero state morbide come me lo ero immaginato. Attorno alla loro sagoma sfumai quell'energia viola che sprigionavano, poi la cancellai a tratti, volevo si capisse che fosse libera e volava via. Cercai di colorare l'interno con una matita più spessa, accentuandone la cupezza.

Nessuno può immaginare come mi sia sentita, nemmeno tu. L'espressione di Mitch trasmetteva la solita tensione che provava mentre ero con lui, sapevo mi avrebbe guardata con quegli occhi per sempre. Sembrava un Dio greco, anche se non era il modo corretto di definirlo, a quanto pareva era l'opposto, ma sempre bellissimo. Si era preso cura di me, non l'avrebbe mai ammesso, ma era successo davvero. Ottimi gusti, cara Jane.

Scossi la testa, mi ero messa a fare complimenti a un Demone che stava cercando di ucciderci tutti? Mi venne da ridere.

Il mio ghigno mi risvegliò dai miei pensieri quel che bastava per sentire un brusio, la lezione di chimica avrebbe già dovuto iniziare da un po'. Presi il mio tempo per schiarirmi le ultime idee, guardando fuori dalla finestra, ma mi accorsi che il panorama era cambiato. Corrugai la fronte. L'aula di chimica non si affacciava al giardino, che strano.

Mi sentii chiamare, ma non volevo ascoltare, Mitch era più importante. Rassegnata, girai piano la testa, con gli occhi ancora incantati, e mi ritrovai davanti la faccia di un uomo che mi stava guardando.

«Signorina Schäfer, vuole concentrarsi sulla lezione?».

Sembrava arrabbiato, chissà cosa gli era capitato. Non capendo sbattei le palpebre più volte, mi ci volle un po' per mettere a fuoco la situazione.

«La le-lezione, sì!», balbettai, drizzando la schiena.

«Risponda alla mia domanda».

Ero stata fin troppo sulle nuvole – letteralmente – per finire così. Mi alzai dalla sedia, timidamente.

«Può ripeterla?», azzardai. Ah, chissà quante volte lo aveva fatto.

«Si limiti a citare le mie ultime parole».

Era un no, molto bene. Le ultime parole. Non avevo ascoltato neanche le prime, o forse sì. Sì, perché stava parlando di energia e di chimica e quindi avevo collegato subito all'affinità che avevo con Mitch. Ecco, avrei solo dovuto cambiare qualche parola.

«L'affinità elettronica è l'energia che un atomo libera quando cattura un elettrone diventando ione negativo...», come il mio presentimento. Era una frase troppo lontana dalle ultime citate?

Improvvisamente la classe si ammutolii, mentre il professore stava diventando del colore della sua cravatta, porpora.

Qualcosa non andava, eppure la professoressa aveva detto... la professoressa. Oh oh.

«Signorina Schäfer, si dia il caso che io insegni storia dell'arte! Non ha capito niente di quello che ho spiegato in mezz'ora?».

Accidenti, la lezione di chimica era passata. Ecco perché fuori dalla finestra tutto sembrava diverso. Non mi ero neanche accorta di aver cambiato aula, era possibile? Volevo sprofondare.

«Mi dispiace», che stupida.

Basta pensare a lui.

Mi ero meritata un castigo di dieci pagine su Albrecht Dürer, così disse il professor Müller.

Mi andava benissimo, avrei occupato la mente diversamente. Certo, sempre se non fosse andata come il giorno prima.

Alzai gli occhi al cielo.

Finalmente c'era la pausa, avrei potuto fare gli affari miei senza essere interrotta.

«Gwen!».

O forse.

«Gwen!».

Mi girai e vidi Verena correre sui suoi tacchi verso di me.

«Santo cielo, stai bene?».

Per poco non mi buttò a terra, le sue mani mi avevano afferrato le spalle.

«Certo, se escludiamo il mio deficit di attenzione», risposi con calma, mentre lei era ancora tutta agitata.

«Perché ieri non hai risposto alle mie chiamate?».

Avevo tralasciato molti dettagli, quali bisogni fisiologici e apparato uditivo.

«Avevo il telefono in modalità silenzioso, non ho visto».

Fece un bel respiro e parve calmarsi.

«Mitch mi ha raccontato cos'è successo».

Mi incupii, avevo completamente dimenticato la mia trasformazione in un'assassina, mi ero focalizzata solo sul viaggio di ritorno.

«Oh Cristo», di colpo mi sentii debole e mi portai una mano sulla fronte. «Non sto per niente bene, non può continuare così. Mi ero ripromessa di farla smettere, ma non ci riesco, è impossibile!».

La disperazione iniziò ad offuscarmi i pensieri.

Lo stomaco mi brontolò, quand'era stata l'ultima volta che avevo mangiato? Non lo ricordavo. Non ricordavo neanche tutta questa stanchezza. «Sono esausta».

«Ho una buona notizia e una cattiva».

Aprii gli occhi per guardarla. «La buona?».

«Possiamo sconfiggere Jane».

«E la cattiva?».

«Sei uno straccio, hai bisogno di mangiare».

A quelle parole lo stomaco rispose. Presi per un braccio Verena e la trascinai in mensa. Avevo bisogno di chiarire questa faccenda, sentivo che c'era dell'altro e le parole "questo è solo l'inizio" non avrebbero più dovuto esistere. Volevo sapere tutto, ormai ero convinta non mi stessero prendendo in giro. E siccome la faccenda era peggiorata avremmo fatto meglio a sbrigarci.

Scendemmo le scale e seguimmo altri studenti diretti a mangiare.

La Kantinen quel giorno offriva salmone d'Alaska, Schnitzel con patate fritte, cappelletti al pesto, lasagne e pizza.

«Che cosa intendevi con "sconfiggere Jane"?», presi un vassoio e feci la fila per il cibo, avrei mangiato tutto, ma sapevo cosa scegliere.

«Significa che la dobbiamo liberare e poi distruggere».

Valutai bene le sue parole, mentre lo Schnitzel con contorno finiva nel mio piatto.

«Come pensate di fare?». Presi una bottiglietta di acqua frizzante e occupai un tavolino in disparte. Non volevo sembrare acida, ma avrei preferito che si muovessero.

«Esiste un contro rituale, ma non tutti sono in grado di praticarlo. Fortunatamente abbiamo un Demone che discende da Satana stesso pronto ad aiutarci».

Verena era l'unica a mangiare il pesto senza sporcarsi i denti di verde. Se ci fosse stato un rituale anche per quello avrei voluto saperlo.

«Bene, qual è?», sorrisi.

Lei fece una smorfia, come per scusarsi. «Preferirei ci fosse anche Mitch prima di divulgare certe informazioni».

Come?

Non si fidava di me?

Io ho rischiato la pazzia, dubitando di loro ogni giorno, e lei non voleva dirmi come mettere fine alla mia sofferenza per mancanza di fiducia? La mia espressione rifletteva completamente il mio pensiero. Ero sconcertata, davvero, non avevo parole.

«Ottimo, perché non lo chiami? Fallo venire qui a proteggere le mie orecchie da oscuri segreti», sputai offesa.

Incrociai le braccia, mettendo il broncio.

«Ginny, non è per te», allungò il braccio per prendermi la mano. «Vogliamo essere sicuri che lei non rovini tutto, non deve saperlo. E poi Mitch non c'è».

«Dov'è?», scattai in avanti allarmata e le strinsi la mano poggiata sul tavolo.

«Lo vorrei sapere anche io, ieri non ho sentito neanche lui». Era preoccupata, non lo nascondeva e ciò turbò anche me.

«Pensi sia il caso di andare a controllare?», cercai di nascondere l'entusiasmo, mischiandolo con la paura e uscì qualcosa di strano.

«Se non ti dispiace», inarcò le sopracciglia.

Dispiacermi, e perché mai? Non vedevo l'ora di abbracciarlo di nuovo. Anche se, probabilmente, lui non si sarebbe fatto avvicinare.

Le ore successive di storia parvero pesanti da seguire, ma cercai di sforzarmi. Avrei dovuto interessarmi a questi argomenti, se non altro potevo fantasticare sul fatto che Mitch li avesse vissuti di persona e immaginare che Theodore Heuss, Cancelliere della Repubblica Federale di Germania, fosse stato lui sotto copertura. Lo trovai un modo per seguire meglio le vicende e capire meglio la lezione.

Ovviamente io mi immedesimai in sua moglie Elly Heuss-Knapp e vivemmo per sempre felici e contenti con nostro figlio Ernst.

Improvvisamente la campanella suonò.

Mi ero persa di nuovo fra i miei pensieri, abbandonando la lezione poco dopo che Heuss chiese a Hitler dei testi legislativi.

Sbuffai, stendendo il busto sul banco. Come avrei affrontato la giornata di questo passo?

Malamente, siccome sarei dovuta andare di nuovo in quella Villa abbandonata. A questo pensiero mi sollevai di scatto, superando tutti e dirigendomi all'uscita.

Verena mi stava aspettando davanti ai cancelli, non avremmo preso il pullman.

Di nuovo quella camminata in mezzo ai boschi mi intimorì, ma non come la prima volta. Ora sapevo a cosa andavo in contro e persino la strada senza sentiero mi sembrava più innocua. Niente più arbusti minacciosi e rami con forme strane.

Anche la Villa mi fece un altro effetto, come se avessi tralasciato qualche particolare rispetto all'ultima volta. Avevo capito a cosa si riferissero le statue degli angeli, la loro sofferenza, ma ricordavo qualche volto in più. Invece a lungo andare avevano la testa mozzata. La casa sembrava cadere a pezzi, non avrebbe resistito ancora a lungo, Mitch avrebbe fatto meglio a trovarsi una nuova dimora. Una che avesse avuto almeno tutte le finestre intatte.

Sì, come se avesse patito il freddo.

Verena batté il batacchio sulla porta rossa, avevo dimenticato la forma dell'oggetto. Non mi ero accorta fosse una capra, ma questo concludeva il tutto.

Nell'attesa pensai a qualcosa di saggio da dire, evitando di comportarmi come mio solito.

Ma nessuno venne ad aprire.

Verena provò di nuovo a bussare.

Niente, nessuna risposta.

«Dimmi che hai anche le chiavi di casa», sperai.

«No, purtroppo quelle no».

Si allontanò di un passo dalla porta e squadrò l'ingresso.

«Entriamo dalla finestra, fortunatamente si è rotta anche questa», indicò i bovindi sulla destra. Guardai i vetri sparsi per terra e sembrava come se qualcun altro avesse avuto la stessa idea. Risi all'idea di Mitch che dimenticava le chiavi da qualche parte ed era costretto a irrompere in casa sua.

«Attenta a non farti male», Verena aveva già scavalcato mezza architettura, così la imitai.

Dentro non si vedeva niente, c'era solo uno strano odore, abbastanza pesante.

«Dove credi che sia?», le chiesi, camminando piano.

«Non lo so, ma è strano».

Una fioca luce giallastra si accese, illuminando di poco la stanza.

O quel che bastava per farci urlare.

Era tutto sottosopra. I mobili e il tavolo lungo con le sedie erano completamente distrutti, il divano e le poltrone ribaltati. I muri erano tutti crepati e persino il lampadario penzolava.

«Ma qui è passato un uragano!», sbottai, andando a controllare oltre il corridoio, dove c'era la cucina. A mia sorpresa era più intatta di quel che mi aspettassi, seppur con le pentole e gli utensili tutti per terra. Corsi da Verena, non aveva ancora detto niente e ciò mi preoccupò. La vidi nei pressi del caminetto, con lo sguardo per terra. «Mitch!», urlai, sperando fosse in casa da qualche parte, ma così non fu.

Le andai vicino, cercando di capire cosa stesse guardando. Ai suoi piedi c'era un mucchietto di polvere nera, sembravano dei granellini di sabbia. «Cos'è quello?».

Appena glielo chiesi Verena trasalì.

«E'... non ne sono sicura». Sembrava spaventata, i suoi occhi si fecero lucidi.

«Dimmi che cos'è», ribadii in modo schietto.

Temevo si mettesse a piangere da un momento all'altro.

«Quando i Demoni muoiono diventano cenere», parlò velocemente, così tanto che non ero sicura di ciò che avevo capito.

«Non può essere Mitch», mi rifiutavo di pensarlo. Non era possibile, lui non poteva essere morto. Doveva esserci un'altra spiegazione. «Sei sicura di ciò che stai dicendo?».

Non rispose, scosse solo la testa. No, non era sicura, stavamo mettendo in dubbio tutto il loro Mondo pur di non realizzare quello.

Non ce la facevo a restare ferma. Ricontrollai in cucina e proseguii lungo il corridoio. Aprii l'ultima porta e piombai dentro la stanza. Si trattava del bagno. Mi affascinò la vasca, non era interrata o incollata al muro, ma poggiava su quattro piedini. Ormai era fuori uso, come tutto lì dentro, ma almeno era intatta, così come il piccolo lavandino decorato in ottone. Il bagno non era spazioso, ma avrebbe dovuto essere molto bello ai suoi tempi d'oro, soprattutto la grande vetrata colorata, ora distrutta. Esattamente lì per terra, sopra le piastrelle bianche, notai le stesse ceneri nere.

«Verena», chiamai, ma non ricevendo risposta la raggiunsi io.

Era ancora ferma davanti al camino e la sentivo blaterare.

«Ma non ne ho le prove», parlava da sola o con qualche entità invisibile di cui non ero a conoscenza. «Solo lui abitava qui», poi alzò la testa di scatto, come se avesse ricevuto una risposta invisibile. «Non può essere morto da solo». Si allontanò a passo svelto tra i mobili e librerie distrutti. Raccolse un oggetto da terra. «No, qui è successo qualcosa di molto grave».

Non sapevo se interromperla e dire ciò che avevo visto o lasciar continuare i suoi sussurri.

«Non è il solo», approfittai del silenzio e parlai.

«Fammi vedere».

La portai in bagno ed ebbe una reazione molto simile al:"Lo sapevo, era esattamente ciò che pensavo", però rimase zitta.

«Cosa consigli di fare?», non avevo più fiato, sicuramente non perché facevo avanti e indietro senza fermarmi.

Verena mi prese per un braccio, trascinandomi in cucina. Cercò qualcosa tra i cassetti e alla fine estrasse una busta trasparente.

«Aiutami a metterlo nel sacchetto», ritornate in salotto le era venuto in mente di trasferire le ceneri davanti al camino dentro quel pacchetto. Non capivo il motivo, ma la aiutai.

O ci provai.

«Sono pesanti!», mi lamentai. Non solo, erano calde e puzzavano di zolfo, la consistenza non era la stessa di ceneri normali. Questo mi fece capire che non appartenevano a della legna bruciata.

Legammo il sacchetto e lo appoggiammo sul lungo tavolo da dodici.

«Forse non è lui», realizzò fissando le ceneri. «Perlustriamo le altre stanze e sbarazziamoci di quello che troveremo».

Annuii e mentre io mi dirigevo in bagno lei sparì sopra le scale, a lato del corridoio. Era sicuro dividerci?

Sbuffai, ormai.

«Aspetta, come faccio?», avrei dovuto impacchettare anche quelle? Se le avessi buttate nella spazzatura si sarebbe arrabbiata? Perché Verena non rispondeva mai?

D'accordo, avrei dovuto ingegnarmi, sbarazzare significa sbarazzare. Avevo a disposizione un lavandino, un piccolo gabinetto e una vasca enorme. Credei di aver avuto l'ispirazione giusta, quindi tentai di trasportare le ceneri dentro la vasca.

Poche per volta, facendo attenzione a non rompere la fragile ghisa, o qualunque materiale si trattasse, una volta adagiate. Quando ebbi terminato aprii l'acqua per farle scivolare lungo il tubo di scarico, invece le tubature erano rotte chissà da quanto e mi schizzò ovunque. Urlai, fu peggio di un idrante.

«Cazzo», chiusi il getto, ormai bagnata fradicia. Feci un verso gutturale e maledissi Mitch per non avere chiamato l'idraulico. Sì, come se a lui fosse servito. Mi raddrizzai e strizzai sia la maglia che la gonna, facendo colare l'acqua sulle ceneri. Si erano sparpagliate per la vasca, ma facevano fatica a scivolare via. Ciò che avrei dovuto evitare fu di renderle ancora più pesanti.

Con le mani le spinsi verso il troppopieno e pregai perché non intasassero le tubature.

Non può essere morto, pensai ancora. C'erano ancora tante cose che non capivo e solo lui avrebbe potuto spiegarmele dettagliatamente. Avevo ancora bisogno di lui, ci stavamo appena conoscendo, ma sentivo che ci sarebbe stato dell'altro, almeno da parte mia. Non volevo finisse così, non vedere più le sue ali, non poter più volare tra le sue braccia, era ingiusto.

Non avvertii subito le lacrime, né di essere finita sul pavimento. Mi stavano fuggendo troppe cose, la mia vita per esempio. E ora questo. Mi costrinsi ad alzarmi, mentre presi un asciugamano. Mi guardai allo specchio, avevo un aspetto orribile, occhi gonfi e rossi, viso bagnato, naso gocciolante, facevo pietà.

Mi lavai la faccia e tolsi i vestiti, l'aria fuori li avrebbe sicuramente asciugati. Mi avvolsi in un asciugamano più grande e uscii dal bagno.

«V-Verena?», urlai sulle scale, ma ancora non rispose. Aveva problemi di udito o ero io a bisbigliare?

Di colpo la porta sbatté.

Mi spaventai e mi feci quatta quatta sulla parete.

Camminai piano fino all'entrata del salotto, cercando di controllare il respiro. Dov'era finita Verena, perché non arrivava? Avrebbe anche potuto essere lei, ma era senza chiavi e non avrebbe mai sbattuto la porta in quel modo.

Forse erano altri Demoni, volevano portare a termine il lavoro che gli Ormai-cenere avevano già fatto.

Decisi di sbirciare e spalancai gli occhi quando capii che Verena era già lì, davanti all'entrata.

E allora perché non parlava?

Mi sporsi di più. «Hai trovato qualco...», ma non riuscii a finire la frase. Provai stupore, gioia e anche spavento, ma soprattutto imbarazzo. «Sei vivo», bisbigliai, ma lui mi sentì lo stesso.

Mitch si scostò i capelli dal volto e i suoi occhi si annebbiarono.        

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