Capitolo 6
Non avrei neanche potuto restare lì ferma per tutto il tempo, qualcosa avrei dovuto pur farla.
Con il cuore in gola, per qualche strano motivo, mi girai. Non avevo idea di cosa dire, la mia mente non riuscì ad elaborare pensieri di senso compiuto una volta che i nostri occhi si guardarono.
Non avevo nemmeno idea di come, nonostante il suo aspetto malaticcio e trasandato, avessi potuto rimanere estasiata dalla sua vista. Già, quel povero ragazzo dall'aria stanca aveva tutti i capelli arruffati e lievi occhiaie. E io che pensavo volesse davvero evitarmi, sono stata una stupida, era semplicemente malato con chissà quante tacche di febbre. Immediatamente ce l'avevo qualcosa da dire, a me stessa. Scema, scema, scema...
Eppure sentii un vortice nello stomaco, per me era comunque bellissimo, anzi, quell'immagine lo rendeva più affascinante. Così pallido, con le iridi più chiare del solito, color blu polvere che si confondevano con lo sfondo bianco della sclera. La pelle lucida manifestava presenza di sudore, non solo sulla fronte, ma sul collo e anche lungo il suo petto scoperto. La camicia a quadri che stava indossando non era abbottonata bene. Non era abbottonata per niente, almeno fino alla vita, quel tanto che bastava per mostrare le ombre degli addominali.
«Non fare la maleducata, potresti anche ricambiare», mi disse a bassa voce.
Cercai di riprendermi e di controllare il mio respiro. «Cosa?», pensavo che queste figuracce fossero finite da un po'!
«Andava bene anche un cenno col capo, se proprio hai perso la voce».
«Che? Cosa? No!», ora era proprio il tono da tenere a bada. E il rossore sulle guance, stavo andando a fuoco.
«Ti ho salutata».
«Ah, ciao».
«Non startene lì al freddo, accomodati», spalancò completamente la porta e con il braccio mi indirizzò verso il suo soggiorno.
«Sei tu quello che non si copre abbastanza», nell'avanzare fissai il pavimento di mattoni scuri.
«E' solo una leggera influenza».
Non sembrava convinto.
«Per via del cambio di stagione? A me succede spesso».
Ero giunta a una conclusione. Se gli davo le spalle riuscivo a parlargli in modo normale e se evitavo di guardarlo capivo anche cosa mi stava dicendo.
«Sì, quello».
Chiusi gli occhi. Dovevo assolutamente convincermi a mantenere il controllo e voltarmi, per comunicare come un usuale essere umano, invece di sembrare il "Viandante sul mare di nebbia", di Friedrich.
Feci un respiro profondo, mentre sentivo Mitchell trafficare con dei mobili, probabilmente delle sedie.
«Vieni», mi invitò.
D'istinto aprii gli occhi, ma non riuscii comunque a vedere niente. Sul soffitto un lampadario a gocce disposto al centro della stanza illuminava ben poco la grande area intorno a noi. Le lampadine emettevano una fioca luce arancio e quelle inattive erano sicuramente rotte. Come avevo sentito, Mitch aveva avvicinato due sedie al camino e stava posizionando grossi rami al suo interno.
«Non aspettavo nessuno, mi dispiace non averlo acceso prima».
Nel momento in cui mi fece notare il gelo ebbi uno spasmo.
Con una fiammata di un accendino i legni iniziarono a bruciare immediatamente. Sbattei le palpebre sia per la sorpresa che per la quantità di luce che si era irradiata. In quel modo potei vedere tutta la sala e rimanere a bocca aperta. Diversi mobili antichi, di legno scuro, erano disposti lungo il perimetro. Alcuni ospitavano libri, altri oggetti impolverati. Anche il pavimento era sporco e non osai pensare alle ragnatele sopra la mia testa. Per fortuna il soffitto era alto. Alla mia destra era presente un lungo tavolo dello stesso materiale, circa da dodici posti e due delle sedie imbottite erano state trascinate fino a me. Dall'altra parte un divano a tre posti era rivolto verso tre poltroncine e insieme formavano un quadrato, che circondava un piccolo tavolino a treppiedi ammuffito. L'unico segno di vitalità nell'arredamento erano le pareti, ognuna aveva una carta da parati uguale, ma con le decorazioni di diverso colore, sempre sui toni del giallo, arancione e rosso.
«Non dovresti stare al freddo nelle tue condizioni», lo rimproverai, ovviamente osservando il muro.
«Hai ragione, ora siediti e scaldati».
Non ero abituata a tutta questa gentilezza da parte sua, la febbre doveva avergli dato alla testa.
Ad ogni modo ubbidii, non era mia intenzione passare la giornata a casa di un quasi sconosciuto senza un apparente motivo. Però, si stava bene davanti al fuoco, seduta su una sedia più comoda di quel che sembrava.
Mitch si spaparanzò al mio fianco ed entrambi guardammo le fiamme volteggiare sopra la legna, senza dire una parola.
In effetti un paio di domande le avevo, ma non sapevo come formularle senza sembrare scortese o fuori di testa.
«Tu...», iniziai e lo guardai in faccia. Lui non ricambiò, con lo sguardo severo e assente continuò a contemplare il camino. Il riflesso del fuoco dava una strana sfumatura ai suoi occhi, facendoli sembrare fiammeggianti e misteriosi. Stava stringendo i denti oppure la sua mascella era naturalmente contratta. Forse stava pensando a qualcosa che lo turbava e il sentimento si rispecchiava sulla sua espressione.
Scossi la testa. Mi concentrai sul muro, dove le ombre del fuoco danzavano sulla parete. «Insomma, di che cosa stavi parlando con Verena?».
Con la coda dell'occhio percepii il suo sguardo gelido puntato su di me. Finalmente avevo catturato la sua attenzione, ma temevo in un rimprovero.
«Di niente».
Alzai gli occhi al cielo. «E perché è scappata via?».
«Impegni», rispose senza neanche pensarci.
Mi ammutolii. Non era possibile, era così determinata a portarmi fin lì e a spiegarmi qualcosa che ancora non capivo. Il modo in cui era stata liquidata non mi sembrava tanto carino e fino a un attimo prima non aveva niente da fare. O forse mi sbagliavo? Forse il suo piano era di lasciarmi qui, di proposito. E perché Mitch ci teneva ad avermi con sé?
«Ah», annuii, sempre più convinta che qualcosa non andasse.
Lui non rispose più, ma man mano che il tempo passava i suoi respiri si fecero più pesanti.
«Devi essere molto frustrato», osservai.
«No, perché?», la sua voce si alleggerì.
«Intuizione».
Provai a guardarlo di nuovo, questa volta partendo dalle braccia e il mio sguardo cadde sulla sua camicia sbottonata. Avrei dovuto distogliere subito gli occhi da lì, ma era più difficile del previsto.
«Anche tu lo sembri».
Avevo la bocca aperta, non me n'ero resa conto finché non osservai la sua muoversi e mi si spalancò di più, facendomi male.
«Ti sbagli», mi schiarii la voce. D'un tratto mi sentii la gola secca. Involontariamente le mie gambe presero a dondolare.
«Vero, non è frustrazione, ma nervosismo o...», lo vidi maneggiare la sua camicia e dalla curiosità sbirciai. Se la stava allacciando correttamente. «Disagio», concluse.
Di certo aveva migliorato la situazione di un minimo.
«Non avevo intenzione di venire».
Probabilmente lo avevo detto in modo brusco, perché Mitch sospirò piano.
«Ma...», continuai, mi sei apparso in sogno e mi cercavi? Il tuo amico mi aveva suggerito di ascoltarti? Verena aveva qualcosa di interessante in serbo per noi due? Come avrei mai potuto dirglielo?
«Capisco, è stata una sorpresa anche per me».
«Spero non brutta».
Emise un risolino acuto, forse ero indesiderata.
«E' meglio che me ne vada».
Le mie gambe avevano smesso di muoversi per conto loro e le avevo convinte a reggermi in piedi, quando la risposta di Mitch per poco non le fece diventare di pasta frolla.
«Non ci pensare».
Mi appoggiai alla canna fumaria per non cadere con la faccia sulla brace e lo guardai stupita. La mia reazione doveva averlo divertito, perché sorrise di sbieco e quasi mi mancò l'aria.
«Pensi che mi diverta a stare rinchiuso in casa tutto il giorno, da solo?», marcò le ultime due parole.
Ora la cosa mi inquietava. E se vivesse in quel luogo isolato apposta per non farsi sentire mentre commetteva reati alle sue vittime? E se fossi finita nel covo di un serial killer?
Ma a cosa stavo pensando!
Beh, Max non era di certo un ragazzo comune e Verena ce la metteva tutta per sembrare normale. Ero capitata nel girone sbagliato, chissà quali e quanti rituali avevano praticato sia in quella villa abbandonata che nel vecchio Luna Park arrugginito.
«Ovviamente no», risposi paralizzata. L'agitazione aveva preso sopravvento sulle mani, le passavo sulle braccia e fra i capelli.
«Hai ancora freddo? Tremi come una foglia».
Freddo, certo. Il suo sguardo mi scrutava attento, il bel sorriso era svanito.
«Sì, forse è il caso che vada o mi ammalerò anche io», poco ci mancava che sbattevo pure i denti. Il punto è che sentivo caldo, troppo. Pensai che allontanarmi dal camino fosse una buona soluzione, ma quando ci provai Mitch si alzò di scatto e mi spaventai.
«Di già?».
«Devo fare i compiti».
La sua espressione cambiò, diventò triste, come se lo avessi ferito. Se davvero ci teneva alla mia compagnia avrebbe dovuto dimostrarlo in un altro modo, perché così non faceva altro che peggiorare.
«Credevo...», mi fissò negli occhi. Perché avevo l'impressione mi stesse supplicando? Era così tenero, sembrava un cane bastonato. Ma non vedevo che aveva bisogno di aiuto? Io e i miei stupidi pensieri, non esistono la magia e il paranormale, dovevo smetterla di dubitare di tutti, soprattutto di lui. Disse quella con problemi di personalità. «Non ti obbligo».
No, cosa stavo facendo? Finalmente avevo l'opportunità di passare del tempo da sola con lui, non potevo andarmene così.
«Va bene, resterò ancora un po'».
Il suo viso si illuminò. Non potevo resistere. Mi concentrai di nuovo sul fuoco, era ancora vivace, come se non avesse consumato nessun ramo.
«Grazie».
Mi aveva ringraziato, di sicuro ero finita in un universo parallelo. Sbuffai, un'altra sciocca teoria.
Mitch fece un passo verso di me.
La situazione si stava scaldando, avevo davvero caldo. Com'era possibile?
«Quanta febbre hai?».
«Non lo so».
«Se devo restare vorrei essere almeno utile, ce l'hai un termometro?», il mio sguardo percorse la stanza, difficilmente avrei trovato qualcosa di utile lì dentro.
«No».
Ottimo. E ora? Avrei dovuto toccargli la fronte con le mani e valutare a occhio e croce?
Una parte di me voleva lanciarsi completamente fra le sue braccia.
Poi c'era la parte cosciente che prese a pugni l'altra.
A mal estremi...
No, non avrei mai potuto farlo.
O forse sì.
«Stai fermo», gli ordinai.
Ero ancora indecisa, ma le mie articolazioni avevano già scelto. Preferii non guardare ciò che stavo facendo.
Lentamente alzai la mano verso il suo viso e iniziai a percepire il suo calore in maniera più accentuata. Sempre di più, finché la mia pelle sfiorò la sua e urlai dal dolore.
Ritrassi la mano velocemente, mentre Mitch faceva un passo indietro. Avevo preso come una scossa, anzi, una forte scarica elettrica. Per di più bruciava, era davvero ustionante. Non avevo mai sentito nessuno con una temperatura simile.
Ci guardammo spaesati.
«Ahia!», sventolai la mano per creare aria fresca, anche se l'ambiente ormai era diventato una sauna.
«Mi dispiace, io...».
«Leggera influenza? Devi correre subito al pronto soccorso!», non mi capacitavo ancora come facesse a restare vigile e stabile con una temperatura del genere. Io, per esempio, se avessi avuto una febbre come la sua non sarei riuscita neanche a sbattere le palpebre.
«Non è necessario».
«Hai almeno dei medicinali?».
Scosse la testa.
«Come fai ad essere ancora vivo?».
Faceva un caldo insopportabile, mi spostai da lì, allontanandomi verso il divano e la zona più umida. Mi tolsi la giacca. A quella distanza le mie funzioni vitali si ristabilirono. Tutta la pressione che avevo standogli vicino sparì.
«Non sono poi così caldo», ribatté per difendersi, «sono le tue mani ad essere congelate».
Questa poi, il mio corpo si era scaldato a sufficienza in quei minuti e mi stava sudando persino la pancia.
«Come vuoi», alzai le mani, che pensasse ciò che volesse, finché si reggeva in piedi e stava apparentemente bene non erano fatti miei.
Non erano fatti miei a prescindere.
Mitch si strinse i pugni.
«D'accordo», sussurrai, incrociando le braccia, «cosa proponi di fare?».
«Vuoi sederti?», questa volta indicò il divano.
Aveva l'aria sciupata ed il colore giallo ocra era così sbiadito che mi chiesi se quella non fosse solo polvere. Almeno eravamo lontani dal fuoco.
«Okay».
Non appena mi accomodai mi immaginai di essere sovrastata da un polverone secolare, invece era sbiadito veramente. Il tutto mi fece meno schifo, a parte il tavolino ammuffito.
Credei che Mitch scegliesse una delle poltroncine davanti a me, invece preferì occupare il secondo posto del sofà, senza distanziarsi troppo da dove ero io.
Che imbarazzo.
Restai con la schiena dritta e le braccia fermamente appoggiate sulle gambe, rigida come un baccalà e quella volta mi concentrai sul mobile-libreria.
«Ti piace l'antiquariato».
«Era già tutto qui quando sono arrivato».
Corrugai la fronte e lui se ne accorse, mi stava osservando.
«Intendo dire che questa casa apparteneva ai miei genitori».
«Non sei cresciuto con loro?».
«Non abbastanza».
Sentivo che qualcosa era andato storto e iniziai a provare un senso di colpa, non avrei dovuto fare quella domanda. Mi dispiaceva, qualsiasi avvenimento fosse accaduto.
Rimasi in silenzio. Se avesse avuto altro da dire lo avrebbe fatto da solo, in fondo lui era il ragazzo face-to-face.
«Non ho molto da offrire, se hai sete ho del tè».
Questo suo cambio di discorso diceva che quella conversazione era finita. Meglio così, l'atmosfera si era già rattristita troppo.
«Volentieri».
Però non si alzò.
Nemmeno io avevo voglia di andare in cucina a prepararlo.
Non credevo fosse per via del divano, non era poi così comodo.
No, c'era qualcosa nell'aria che ci impediva di dividerci. Al mio fianco sentivo un'attrazione pari a quella delle calamite. Che io e Mitch fossimo due poli opposti era chiaro, anche se parte di me si sentiva come lui, tormentata, frustrata, diversa.
Ero certa che la stessa sensazione la stava provando anche lui, le gambe e le braccia gli tremavano delicatamente e puntavano verso di me, proprio come le mie erano indirizzate verso di lui.
Non potei fare a meno di guardarlo, non era il solito Mitchell scorbutico che mi evitava, era uno nuovo e mi incuriosiva. Volevo capire cosa fosse successo, volevo ringraziare quell'evento che lo aveva cambiato, anzi, migliorato.
E i suoi occhi li sentivo persi nei miei.
Era possibile che quella sua nuova versione fosse più tollerante nei miei confronti? Era persino difficile fare finta che non mi piacesse. Non mi interessava più dimostrare a me stessa che lui non era niente per me. Ammettere che provavo qualcosa non mi risultò più complicato.
Il respiro che mi sembrò essere mancato per tutto quel tempo ritornò di botto e realizzai che il suo volto era a un soffio dal mio. Chi era stato ad avvicinarsi? A me sembrava di essere stata immobile. Cosa dovevo fare? Spostarmi e tornare alla realtà. Ma cosa volevo fare veramente? Non avevo più molto tempo, qualche secondo e probabilmente ci saremmo baciati. Uno... il suo naso sfiorò la punta del mio e la sensazione di calore si fece risentire. Due... la sua bocca aperta emetteva un caldo respiro contro la mia. Tre...
Quando le nostre labbra si toccarono ci ustionammo di nuovo e fummo costretti a spostarci. Io finii contro il bracciolo del divano e iniziai a respirare affannosamente. Non era stato come prima, era una scossa diversa, che mi aveva elettrizzato anche lo stomaco.
Cosa diavolo era successo?
Mi misi le mani sulle guance e mi resi conto di scottare più di Mitch. Azzardai a guardarlo.
Era chino, con le mani sulla fronte, più o meno nella mia stessa posizione e sembrava stesse imprecando. Non riuscivo a capire cosa stesse dicendo, nessuna delle parole assomigliava al tedesco.
Oh mio Dio, mi si era fulminato il cervello.
Non potevo crederci che ci stavamo per baciare!
La sensazione di vertigine era passata, iniziavo a calmarmi.
E invece no, non riuscivo a capacitarmi delle sue azioni.
«Vado a farti il tè».
Si alzò velocemente, per poco non lo vidi correre via.
Oh no. E se avessi sbagliato qualcosa io? Forse il mio alito o il mio modo di pormi. Avevo già baciato un ragazzo in precedenza, al primo anno e non mi sembrava di essere stata inefficiente. Era passato un po' di tempo, ma non si dimentica come si fa.
Odiavo quel dubbio, dovevo sapere cosa fosse accaduto.
Provai di nuovo a sollevarmi dal divano e ci riuscì tranquillamente. Non avevo idea di dove andare, mi limitai a seguire la strada lungo il corridoio. In effetti trovai la cucina.
Siccome era buio usai la torcia del telefono e la puntai al centro. Anch'essa era scura e si estendeva su tutta la stanza, mentre al centro era collocata un'isola con fornelli e lavabo. Al di sopra di questa erano appese decine di pentole di rame a testa in giù e qualche mestolo. Ma di Mitch non c'era traccia.
Mi girai, sempre facendo luce, quando la figura del ragazzo mi apparve davanti dal nulla.
Urlai dalla paura e lasciai cadere a terra il cellulare.
«Credo di aver finito il tè».
Non appena il mio cuore ebbe finito di martellarmi nelle orecchie potei sentire la sua voce. Era stanca e nella penombra lui sembrava sfinito. Stava barcollando e il suo sguardo era perso per aria.
«C-cosa ti succede?», balbettai.
«Io...», si sbilanciò contro il muro e cadde a terra.
Lo guardai spaventata e mi avvicinai. Non sapevo come prenderlo, se lo avessi toccato mi avrebbe dato una scossa un'altra volta.
Non avevo scelta, avrei dovuto portarlo almeno alla luce.
Lo presi da sotto le braccia, accertandomi di toccare solo la camicia, e lo trascinai per tutto il corridoio, fino alle sedie, davanti al camino perfettamente acceso.
Gli appoggiai la testa sulla seduta imbottita di una sedia.
Era privo di forze, respirava a fatica e stava sudando. Forse lasciarlo vicino al fuoco non era stata una buona idea.
Teneva gli occhi chiusi, poi li apriva leggermente, mentre muoveva la testa a destra e a sinistra.
Mi venne in mente di chiamare un'ambulanza, ma come spiegavo la collocazione? Gli unici a conoscenza erano il proprietario, decrepito, e Verena.
Chiamai lei.
Non appena rispose spiegai brevemente ciò che era successo e le raccontai della salute di Mitch.
«Cazzo», fu la prima cosa che disse, poi proseguì con le imprecazioni. «Quell'imbecille, glielo avevo detto di non farlo! Stupido idiota che non è altro!».
Non avevo capito nient'altro, stava borbottando e correndo, le sentivo il fiatone mentre gridava insulti.
«Fare che cosa!?», anziché calmarmi mi stava facendo salire l'ansia. Ero più preoccupata di prima, come se non fosse stata la febbre a ridurlo così.
«Arrivo tra due minuti, tienilo lontano da fonti di calore!», e mise giù.
Grandioso e io che lo avevo posizionato vicino al fuoco.
«Come lo sposto?», ragionai ad alta voce. Mi dispiacque trascinarlo sul pavimento un'altra volta, ma era troppo pesante da sollevare e lui a peso morto non aiutava.
Gli misi la testa sulla seduta del divano, mettendo via il tavolino per lasciargli spazio. Non era migliorato, però mi venne un'idea.
Andai in cucina e riempii una pentola con l'acqua fredda, presi il primo straccio che vidi e cercai di correre senza far rovesciare nulla.
Mi inginocchiai al suo fianco e immersi il panno nell'acqua, passandoglielo poi sul viso.
«Ora sembri uno che ha l'influenza. Se mi avessi ascoltata e avessi preso le medicine», provai rabbia, ma non mi sembrava il caso di discutere con un cadavere ambulante.
La mia soluzione sembrò funzionare, se non altro aveva aperto gli occhi.
Vederlo così indifeso mi fece venir voglia di parlare di cose un po' più private, senza che mi avesse aggredito o altro e poi volevo sapere.
«Allora non mi odi. Ho sempre creduto il contrario».
Le sue labbra si sollevarono impercettibilmente.
«Ho viaggiato...», sussurrò poi.
«Ti sei drogato!?», rimasi allibita.
«No... tempo fa, ho girato tutto il mondo... per questo non sono rimasto con... i miei genitori».
Sospirai dal sollievo.
«Hai avuto una bella idea, che cosa hai visto?», mi sentivo più tranquilla e anche il suo colorito si era stabilizzato.
«Ogni cosa».
«Come mai hai deciso di farlo?».
Abbassò lo straccio e mi guardò negli occhi. Erano così lucidi, trasmettevano sincerità e innocenza.
«Perché ti stavo cercan...».
Prima che avesse potuto concludere la frase la porta si spalancò e una Verena furente entrò in casa.
«Dove sei, stupido rimbambito!», si fiondò verso di noi e quando lo vide tutta la cattiveria svanì.
«Non sto poi così male», osò dire lui con un filo di voce.
«Quando imparerai ad ascoltare anche gli altri?», anche Verena aveva gli occhi lucidi, così mi alzai e le permisi di avvicinarsi.
«Sto bene».
«C'è mancato poco».
Lo straccio gocciolante mi stava bagnando il braccio. Continuavo a non capire cosa ci fosse fra i due, di che cosa stessero parlando.
«Scemenze, so badare a me stesso».
Verena rise dal nervoso. O forse stava piangendo, era di spalle.
«Portala via, Max», disse poi e capii che si stava riferendo a me.
Alle mie spalle, silenzioso come un gatto, spuntò Max che mi prese delicatamente per il braccio.
«Non è un bello spettacolo, andiamo», lo disse gentilmente, ma qualcosa nel suo tono mi fece capire che aveva fretta. Mi tolse il panno dalla mano e lo gettò nella pentola. Schizzò lievemente Verena, che si girò appena per sorridermi.
«Scusa, tesoro», mi disse.
Aveva pianto.
Sentendomi di troppo presi la mia giacca e permisi a Max di scortarmi fuori.
Non dissi una parola per quasi tutto il viaggio, non badavo neanche a dove camminavo.
«Brava», si congratulò Max e non sembrava sarcasmo.
«Per aver fatto cosa? Che cosa è successo?», mi sentivo la testa esplodere. Era colpa mia? Non avrei dovuto fare qualcosa in particolare, come prendere le scosse o fargli accendere il camino?
«D'ora in poi le cose cambieranno, te lo prometto».
Al contrario di Verena, Max sembrava felice. Era contento di come si erano svolti i fatti e sorrideva allegramente.
Io ero sconvolta.
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