Capitolo 5
All'intervallo non avevo più scuse, li avrei affrontati. La sera precedente avevo chiesto a Dylan un parere su come fare pace con degli idioti che mi avevano trattata male, ma che un tempo reputavo "amici".
«Le persone sono capaci di cose brutte, non devi mai arrenderti Gwen, combatti», mi aveva detto, «sii te stessa, sei forte».
Me lo ripeteva sempre, insieme a:«Non lasciare che il passato ti distrugga, impara dai tuoi errori, c'è tempo», ma era chiaro che il mio tempo era scaduto quel giorno stesso.
Appena sentii la campanella mi catapultai fuori dalla classe, dirigendomi verso il bar. Non ero sicura di riuscire a trovare tutti insieme, ma sicuramente Verena.
Ero una delle poche ad aver preso posto o forse direttamente la prima, ma poco importava. Ordinai il mio caffè e attesi.
A spezzare la mia concentrazione fu la suoneria del mio telefono, per poco non mi macchiai la gonna. Sì, abbigliamento consono, gonna corta e top crop, il tutto rigorosamente nero per celebrare il funerale della mia dignità.
Che cosa mai avrei potuto dire? Non mi ero neanche preparata un discorso e il caffè d'un tratto non sembrò più una buona idea. La risposta ai miei problemi, però, si trovava in borsa, il messaggio era da parte di Dylan.
Cosa dovrei dire adesso?
Ignorai il suo buongiorno e augurio, digitando velocemente un SMS. In quel momento era il telefono a doversela vedere con me, la penna in classe era già stata mangiucchiata.
Grazie, sto bene anche io ahah. Secondo me dovresti calmarti e fare un bel respiro. Non pensare agli altri, vivi in modo sereno, perché nessuno può giudicarti. Sii fiera di te ed esponi ciò che provi.
Nel frattempo era arrivata Verena, puntuale per il suo cappuccino. Non feci in tempo a rispondere a Dylan, perché la rossa si posizionò davanti a me, al mio stesso tavolo.
«Ciao», mi sorrise.
«Ciao?», ripetei incredula.
«Lo so che ti senti evitata, ma non abbiamo molto tempo», mentre parlava sorseggiava e si guardava ripetutamente intorno.
«Che significa?», ottimo, la mia repellenza era voluta.
«Ci sono... dei problemi...», prima parlava veloce, poi faceva pause troppo lunghe. «Non parlare con nessuno, non allontanarti dalla città e non cacciarti nei guai».
Dopodiché si alzò, rapida come la sua parlantina e sparì qualche tavolo più in là. Mi resi conto dopo che Max e Mitch ci stavano guardando dall'entrata e, con passo lento, si riunirono attorno a Verena. Non ero sicura stessero parlando di me, la rossa era di spalle, il biondo evitava il mio sguardo e il moro portava gli occhiali da sole, ma due cose erano certe. La prima, li stavo fissando come un pesce lesso, con occhi e bocca ben aperti, abbastanza immobile da sembrare in catalessi. E secondo, non. ci. stavo. capendo. niente.
Le ore successive furono troppo pesanti per pensare, così riuscii a concentrarmi bene sulla letteratura, ma la mia mente non poté sfuggire ai pensieri una volta varcata la soglia dell'istituto. Erano dei complottisti, senza ombra di dubbio. Facevano sicuramente ricerche sul paranormale e l'uso di qualche strana magia. Forse avrei fatto bene a scappare.
«Gwen», mi sentii chiamare e mi obbligai a non voltarmi.
Continua a camminare.
«Gwen!», no, avanti, non ero io, era un'altra Gwen.
Arriva in fretta al pullman.
«Ginny!», mi bloccai. Non solo la sua voce mi aveva raggiunta, ma anche Max. «Si può sapere dove corri?», aveva un leggero fiatone.
«A casa».
«Certo, ma prima...», si ricompose e dal suo zaino tirò fuori due oggetti che presi singolarmente avrebbero potuto essere innocui, ma insieme risultavano parecchio strani.
«Cosa dovrei farci con una candela e un pezzo di carta?», domandai, un po' schifata. Complottisti, chissà per quale rito avevano intenzione di sacrificarmi.
«Stanotte accendi la candela e leggi il biglietto, poi brucialo», lo disse come se fosse una cosa normale. Era rilassato e non sembrava scherzare. Illuminati?
«Seh... a domani, allora», senza indugiare scappai sul pullman, lasciando Max e le sue cose lì dov'erano. Avevo a che fare con dei pazzi fanatici. Appena mi sedetti sospirai e risi dall'isteria. Assurdo. Lanciai una breve occhiata fuori dal finestrino e Max era ancora lì in piedi. Suscitava una certa ansia, così coprii il vetro con la tendina e fissai avanti, in attesa che il mezzo partisse.
Non bastò, mi guardai alle spalle anche quando scesi, ma soprattutto al rientro verso casa. L'ultima cosa che volevo era far sapere dove abitassi. Oh no, Verena lo sapeva, mi aveva accompagnata lei a casa, dopo il concerto dei Dahlia Bites. Ero fregata, mi avrebbero trovata anche di notte. Era il caso di chiamare un agente segreto che mi proteggesse e, in caso, li arrestasse.
Tutto bene, com'è andata?
Sussultai quando ricevetti il messaggio. Fortunatamente era solo Dylan. Resoconto, quelle persone erano probabili psicopatici e fanatici di una strana religione che prevedeva il paranormale al livello:"Usiamo Gwen per i nostri esperimenti". Improvvisamente un fitto pensiero si aggrovigliò nella mia mente, esperimenti, cavia da laboratorio. Avevo l'impressione di aver già fatto questo ragionamento, ma me l'ero come dimenticato.
Bene, non ci parliamo più.
Una volta salita in camera mia ebbi l'occasione di rispondere a Dylan, forse in un modo troppo tragico, ma io non volevo affatto frequentare persone del genere. Ovviamente mi chiese i dettagli e io inventai l'ennesima storia in cui mi avevano fatta sentire così male da non voler più guardare loro in faccia.
Mi dispiaceva troppo mentirgli così, lui era stato sincero e anche io, in un certo verso, ma non volevo coinvolgerlo nella strana avventura che era la mia vita. Volevo mi conoscesse come persona, non entità e mi sarei comportata in modo del tutto normale con lui.
Per cena mia madre ordinò della pizza e io scelsi la Margherita. Le strane vicende mi avevano fatto passare la fame, più precisamente non mangiavo da colazione e ora che il mio stomaco era stato aperto ne volevo un'altra porzione. Mio padre mi cedette la sua, giustificando che a pranzo aveva mangiato troppo con i colleghi. Beh, funghi, carciofi e olive, non mi lamentai.
Ritornata in camera mi cambiai e per la doccia levai la collana. Magari anche quello simboleggiava qualcosa di oscuro e io, come una stupida, l'avevo portata per tutto quel tempo. La nascosi nella trousse, tra cianfrusaglie e trucchi vecchi.
Non avevo nemmeno controllato se per il giorno successivo ci sarebbero stati compiti, quindi aprii la borsa e ravanai in cerca del diario. Avevo scelto di utilizzare una borsa grande al posto dello zaino perché si addiceva di più al mio look. Convinta di aver trovato un pezzo del diario tirai fuori una delle pagine.
Ma, non appena realizzai ciò che avevo in mano, i brividi percorsero il mio corpo, facendomi provare tanto freddo. Ciò che avevo in mano era, senza dubbio, il biglietto che aveva cercato di rifilarmi Max. Non capii come aveva fatto a buttarmelo dentro, magari lanciandolo velocemente o facendo un gioco di mani mentre non guardavo. No, me ne sarei accorta. E poi, era solo un pezzo di carta, doveva essere volato. Un senso di panico mi fece andare oltre e, cautamente, misi di nuovo la mano nella borsa e cercai ancora. Sapevo cosa volevo trovare e sapevo anche che non avrei preferito trovarla. La candela, rosso fuoco, toccò le mie dita. La cera fredda mi provocò uno spasmo e rabbrividii un'altra volta. Guardai tra le pareti di camera mia, pensando si fosse nascosto per farmi uno scherzo, allora avrei chiamato direttamente la polizia. Ma ero sola. L'unico momento in cui avrebbe potuto metterli dentro era durante il nostro breve incontro e io non lo avevo neanche sfiorato.
Colta da una nuova curiosità aprii il biglietto. Erano tre strofe da due versi l'uno, scritti a mano e in latino. Sembrava una poesia. Guardai i due oggetti, scettica e spaventata, non avrei mai voluto leggere ad alta voce quelle parole. L'unica scelta razionale che mi venne in mente fu di spezzare la candela e ridurre in cento pezzi il foglietto.
Purtroppo questo pensiero venne offuscato da uno nuovo. Nuovo e involontario, mi convinse ad eseguire gli ordini di Max.
Recuperai un accendino e lasciai che lo stoppino prese fuoco. Non avevo idea di cosa ci fosse scritto, il mio latino era parecchio discreto e probabilmente avrei anche sbagliato le pronunce. Non avevo intenzione di dare un'occhiata alle lettere e non seppi cosa mi prese, ma la mia mente si aprì e le parole uscirono chiare dalla mia bocca.
Volo quintum genitum amare
tantum et solum mea
Volo quaestum et imperium
eius
Cito ascendam ad solium
Si autem me amabit
Ero stata velocissima e avevo dato un'intonazione perfetta. Ascoltando la mia voce avevo capito solo che una persona si sarebbe dovuta innamorare di me. Avevo scorto la parola "potere" e "perdutamente", il resto non lo avevo capito proprio, benché nella lettura fossi stata molto assorta. Comunque, non era successo niente, esattamente come mi sarei immaginata. Probabilmente delle telecamere mi stava riprendendo e sarei diventata virale in un minuto:"La ragazza che sussurrava alla candela". Che pagliacciata e pensare che mi ero realmente spaventata. Però mancava ancora una cosa da fare. Avrei dovuto bruciare il foglio con la fiamma della candela. Lo presi come un modo per disfarmi delle prove in caso qualcuno mi avesse mai colpevolizzata. Trattenni il fiato finché tutta la carta divenne cenere ed espirando spensi anche lo stoppino.
Sembrava non fosse cambiato nulla da prima. Un effetto ottico dovuto forse alla stanchezza mi fece immaginare che il fumo della candela prendesse la forma di un cuore. Ero stata condizionata fin troppo e avevo bisogno di dormire. Anzi, come avrei fatto a chiudere gli occhi dopo un'esperienza del genere?
La sveglia suonò troppe volte, ma l'idea di alzarmi non mi era passata minimamente per la testa. Dopo una nottata come quella, dove il mio sonno si interrompeva in continuazione, ora dopo ora, ero riuscita ad addormentarmi verso le cinque e, se non fosse stato per la suoneria squillante, avrei continuato a tenere gli occhi chiusi.
Non avevo voglia di affrontare quella giornata. Se avessi visto Max mi avrebbe riempita di domande e si sarebbe messo a ridere.
Mi strofinai gli occhi, sbadigliando apertamente. Le coperte erano così calde che mi dispiacque toglierle via. Alzandomi tastai le lenzuola e corrugai la fronte quando le sentii bagnate. Anche il cuscino era umido, quindi o avevo pianto come una fontana o ero grondata di sudore. Purtroppo non ricordai il sogno che feci, sempre se ce ne fosse stato uno.
Avevo un aspetto orrendo, il mio riflesso allo specchio mi faceva sembrare malaticcia. Un po' per la stanchezza, un po' perché ero gonfia in faccia, ma bastò lavarmi con acqua ghiacciata e mi ripresi. Purtroppo i miei lunghi capelli neri erano un groviglio e me ne strappai un paio con la spazzola. Ecco, si erano elettrizzati e assomigliavo a una scopa. Era decisamente una giornata no. Decisi di raccoglierli e puntarli sulla nuca, lasciando che qualche ciocca ricadesse sul collo, poi mi truccai. Cercando il mascara, però, finii per mettere le mani nella vecchia trousse in cui avevo nascosto la collana di Max. Ricordare ciò che mi era saltato in mente di fare mi mise una certa nausea e la ricacciai dentro. Oltretutto, avevo bisogno di mangiare, non avrei potuto continuare a camminare come uno zombie assonnato.
Senza perdere tempo presi un maglioncino nero che mostrava l'ombelico e degli skinny jeans a vita alta e scesi le scale. Avevo capito che preparare i vestiti il giorno prima mi faceva risparmiare interi minuti a lanciare abiti in giro per la camera.
«Giorno», salutai i miei genitori. Erano entrambi seduti a tavola, mio padre sempre con il giornale e mia madre con dei pasticcini e salumi di vario genere. Tutto ciò che avrei dovuto evitare era il dolce, così optai per il salato e, quasi cadendo dalla sedia, afferrai una bruschetta al formaggio.
«So io cosa ci vuole per te», incalzò mia madre e mi sporse una grossa tazza di caffè. Ne avrei comunque presa una a scuola, ma quella mattina era meglio esagerare. Poi mi toccò la fronte, con sguardo preoccupato. «Hai la febbre».
Percepivo che qualcosa non andasse, le mie guance a fuoco, per esempio. Non stavo malissimo, avrei solo dovuto riposare.
«Resta a casa», suggerì mio padre.
«Sto bene, non ho l'influenza e poi è venerdì», ovvero l'ultimo giorno in cui avrei potuto fare i conti con il Trio prima del weekend e non avevo voglia di passare il fine settimana con l'ansia. Volevo vedere Max, avevo bisogno di capire cosa diamine fosse quel biglietto. D'un tratto mi interessò più del mio letto. I miei genitori continuavano a guardarmi sperando proseguissi, non capivano il senso di "venerdì". «E' l'ultimo giorno in cui la professoressa di scienze finisce di spiegare il capitolo prima della verifica», mi inventai, sollevando lo sguardo. Scienze l'avevo fatta solo un paio di volte. «E poi posso riposarmi durante ginnastica».
«Va bene, vai pure se ritieni sia una giornata leggera, però sbrigati, hai poco tempo se non vuoi perdere il pullman».
Controllai l'ora e, tra la mancata voglia di alzarmi e l'allungamento della colazione, avrei dovuto correre.
Il cielo era coperto e tirava vento, alcune goccioline di pioggia iniziavano a cadere e sperai di arrivare alla fermata prima di un acquazzone. Meteo perfetto per la mia condizione salutare. Arrivai poco prima che le porte si chiudessero, lasciandomi a piedi. Forse avrei fatto meglio a restare a casa, si stavano presentando davvero tutti i presupposti di una giornata no.
Le ore di disegno passarono in fretta, quando mi trovavo davanti a un foglio perdevo la cognizione del tempo. Non pensavo ad altro se non ai soggetti che dovevo disegnare e le tecniche da utilizzare. Ci impiegavo tanto, seppur rimanevo sempre costante e mediamente veloce. Volevo far le cose per bene, essere al passo degli altri e superarli. Probabilmente avrei finito il liceo a Berlin, senza più spostamenti, quindi avrei dovuto impegnarmi. Fu durante ginnastica che i problemi iniziarono a manifestarsi. Obbligata a stare in piedi e a correre a destra e sinistra le forze iniziarono a cedere. Stavo consumando troppa energia rispetto a quella che avevo, finché non mi sentii strana. Ero in procinto di percorrere una staffetta, quando la pressione iniziò ad abbassarsi. La vista diventava sempre più scura e sfocata, le palpebre risultavano troppo pesanti da tenerle sollevate. Le gambe iniziarono a tremare e cedettero dopo un metro dall'inizio. Non riuscivo a controllare il mio respiro, aumentava persino il battito cardiaco e iniziai a sudare.
Quando riaprii gli occhi l'ultima cosa che ricordai era di essere svenuta a terra. Il mal di testa, la nausea e la stanchezza erano sparite. La vista ritornò stabile ed ebbi come un deja vù. Ero già stata in quella stanza, pareti bianche, poster del corpo umano, l'infermeria. L'unica differenza era che non ero legata, testai subito la mobilità delle articolazioni e provai a tirare su la schiena.
Sussultai dallo spavento. Davanti a me, immobile come una statua, si trovava Mitchell. Era inespressivo, dritto come un soldato. I lisci capelli biondi gli solleticavano le spalle, i suoi occhi azzurro tempesta erano vuoti e sembrava guardassero me. Mi sentii subito in imbarazzo e potei giurare che il rossore in viso non era dato dalla febbre.
«Mi hai spaventata!», tentai in una conversazione. Non parlavamo quasi mai, era il più incline ad evitarmi e ci riusciva benissimo. Dunque, perché si trovava lì?
«Puoi parlare, se vuoi, non ti vedrà nessuno», ironizzai, roteando gli occhi, ma lui non rispose. Iniziava a mettermi una certa inquietudine.
«Senti, mi dici che ci fai qui?», mi stavo stancando, così mi misi a sedere ed aspettai in un suo commento.
Poi parlò.
«Vieni a casa mia».
La sua voce suonava robotica, non aveva minimamente cambiato espressione e continuava a fissarmi immobile. Non sbatteva neanche le palpebre.
«Perché, se vuoi parlarmi sono qui». Sexy o no mi aveva stufata pure lui. Non poteva farmi impazzire e poi sparire, per poi ricomparire sul mio letto di Procuste (mi sentivo schiacciata a terra, ma anche tormentata da quella situazione difficile).
«Vieni a casa mia», ripeté, come se io non avessi detto nulla.
Lo guardai male. «Non so dove abiti, genio».
Non rispose più, continuammo a fissarci e provai irrequietezza, mi sentivo come se fossi stata bastonata dal suo sguardo per aver commesso un atroce crimine.
Ma cosa aveva da guardare così a lungo?
Poi qualcosa successe, i suoi lineamenti divennero più duri, la mascella gli si contrasse, come le sopracciglia si piegarono all'ingiù. Mancavano solo i denti aguzzi e avrebbe somigliato a un lupo feroce. Ero intimidita più che mai, sentivo che se non fossi scappata mi avrebbe attaccato.
In un lampo prese fuoco e svanì.
Mi svegliai urlando, alzando il busto nella stessa posizione in cui ero... nel mio sogno? A parte Mitch, tutto sembrava normale, l'infermeria era la stessa, come nella mia mente; io stavo bene, come nella mia mente. Da qualche giorno non ero più in grado di distinguere fantasia da realtà e non capivo perché.
Come mi ero già accertata, stavo bene, le sensazioni provate in palestra non c'erano più, quindi pensai solo a un calo di zuccheri. La mia fronte non scottava più.
«Devi smetterla di svegliarti in questo modo, fa male alla salute». Dietro di me, appoggiato al muro accanto alla finestra, Max stava mangiando una mela. Il mio cuore perse un battito.
«Devi smetterla di entrare di soppiatto!», era già la seconda volta che aspettava il mio risveglio in infermeria.
«In effetti è già la seconda volta che ti sento urlare in questo luogo», ecco, appunto.
«Cosa c'è?», mi alzai dal letto, non avevo più voglia di stare lì e magicamente tutte le forze ritornarono in me.
«Vedo che hai usato il mio regalino», disse tra una masticata e l'altra.
«Come lo sai?», mi aveva spiato, oppure aveva davvero messo le telecamere. «Cosa te lo fa credere?», mi corressi.
«Hai appena visto Mitch», rispose sorridente e con tranquillità, come se gli avessi chiesto la tabellina del due.
Rimasi accigliata.
«Ti ha detto di andare a casa sua, vero?», continuò.
«Forse».
«Hai usato il mio regalo», concluse realizzato, alzando la mela come se fosse un calice con cui fare brindisi.
«Come hai fatto a mettermelo in borsa?», intanto che parlavo indietreggiavo verso l'uscita, non mi sentivo al sicuro con lui.
Max, invece, continuava a mangiare il suo frutto appoggiato disinvolto al davanzale della finestra.
«Conosci la Genesi? Dovresti averla studiata bene da bambina», deviò la mia domanda con una che non aveva alcun senso. Poi recitò:«Dei frutti degli alberi del giardino non possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete. Versetto 3,2-3».
Lo guardai senza capire.
«Continua, avanti, che successe dopo?».
Si stava riferendo ad Adamo e Eva, quando lei invece di seguire gli ordini di Dio ascoltò il serpente e mangiò una mela nel giardino dell'Eden. Non c'entrava niente con la nostra conversazione e solo perché il suo pranzo era proprio una mela non mi sembrava il caso di essere così teatrali.
«Eva mangia la mela, istigata dal serpente».
Max annuì. «Il signore Dio disse alla donna: Che hai fatto? Rispose la donna: Il serpente mi ha ingannata e io ho mangiato. Versetto 3,13», poi addentò un altro pezzo.
«Tutto questo che importanza ha?».
«Volevo capire quanto fossi istruita».
Si mise dritto e avanzò con il torsolo in mano. D'istinto mi spostai, lasciando che uscisse senza neanche potermi sfiorare.
A quanto pareva avevo perso le ore restanti di lezione, nonostante il mio sogno sembrò durare qualche minuto. Spostandomi tra i corridoi tutti gli studenti si dirigevano all'uscita e c'era un caos infernale. Dalla parte opposta in cui stavo andando io Verena mi chiamò.
«Ho sentito che sei stata male, tutto bene?».
O Max le aveva riferito qualcosa o i miei compagni di classe avevano iniziato con il gossip.
«Sì, tutto bene», adesso si preoccupava per me. Beh, sempre meglio una tripletta. «Dov'è Mitchell?».
«Non si è presentato oggi», il mio sguardo era perso tra le tante facce che mi passavano davanti, ma appena Verena mi rispose mi concentrai su di lei.
«Vuoi dire che è a casa sua?».
«Probabile».
Gli occhi mi uscirono dalle orbite, panico.
«Hai bisogno di dirgli qualcosa?», sorrise la rossa e chissà a cosa stava pensando.
«Sì... no», in realtà no. Non sarei di certo potuta andare a casa sua solo perché la sua figura astrale mi aveva detto di farlo.
«Ti ci accompagno», si offrì.
«Sei pazza? Non si irrompe nelle abitazioni private!», assurdo, da quando i sogni si interpretano alla lettera?
«Non è irruzione, io ho il permesso», alzò il mento compiaciuta, guardandomi dall'alto.
«Io no, è sbagliato», che diavolo, non volevo andarci. «Poi mi odia, pur di evitarmi è rimasto assente», che comportamento bambinesco.
«A proposito di questo...», iniziò e poi si interruppe.
Le feci il gesto di proseguire.
«Non penso sia a causa tua. Mitch non si comporta in questo modo quando vuole evitare qualcuno, è più un ragazzo face-to-face, capisci cosa intendo?».
Scossi la testa per negare.
«E' molto schietto, dice sempre le cose in faccia e se avesse avuto problemi specifici te ne avrebbe parlato. Certo, magari si allontana, ma non al punto di ritirarsi da scuola».
«Si è ritirato?», sbottai, bene, è così che stavano le cose.
«No, no! Non ho detto questo!».
«Allora siate più sinceri, perché a me, in faccia o in lontananza, non ha mai detto una parola». Mi stavo alterando, percepivo di nuovo quella sensazione di voler battermi con qualcuno, emozione che non sentivo da qualche giorno. Avrei dovuto calmarmi o mi sarei fatta dominare da essa e le conseguenze sarebbero state tragiche.
«Hai ragione», ammise Verena con delicatezza. «Vieni».
Mi prese per mano e mi trascinò fuori dalla scuola con passo deciso. Non opposi resistenza, nonostante mi stessi preoccupando del suo atteggiamento.
Provai ad indovinare la strada che Verena mi stava obbligando a percorrere, ma non l'avevo mai fatta. E poi mi sembrava tutto così uguale: alberi, alberi e alberi. Dopo qualche minuto mi arresi e provai in una nuova conversazione.
«Dove stiamo andando?».
«Lo sai».
«No, ti ho detto che non voglio!», avrei dovuto ribellarmi prima, in quel momento non seppi dove scappare per tornare in Centro. Retrocedere per la via dell'andata sarebbe stato inutile, buttai un'occhiata dietro di me e mi accorsi di non essere su nessun sentiero. I rami bassi degli arbusti creavano una specie di rete, come se fossimo state intrappolate nel bosco, ma che, un attimo prima, non c'erano e ci avevano dato libero passaggio. Mi arresi anche all'idea di usare Google Maps, Verena mi avrebbe trovata in poco tempo, in quanto conosceva bene quel posto.
«Invece devi sapere, odio torturarti così, ma i ragazzi...», sbuffò, «E' ora di cambiare le regole».
Quelle parole non fecero altro che peggiorare il mio umore.
«Di cosa stai parlando?», tutte le mie teorie mi rimbombavano in testa, comprese le assurdità che aveva detto Max.
E se Verena si stesse riferendo proprio a quelle?
Il mio corpo venne scosso da brividi freddi, avevo paura.
La fine della boscaglia mi distrasse, portandomi su una stradina sterrata, alternata da ciottoli. Non fu proprio quello a farmi perdere la concentrazione, bensì ciò che si presentava dopo.
Ci fermammo di fronte a un enorme cancello arrugginito, chiuso con catena e lucchetto e guardai oltre.
Aveva l'aria di essere una villa abbandonata, d'epoca vittoriana. Quasi tutta la superficie bianca e sporca era invasa dall'edera rigogliosa. In alto spuntavano delle finestre quadrate, alcune senza vetro. La porta, collocata sotto un timpano triangolare, era di un rosso molto intenso, da far invidia ai capelli di Verena. Da entrambi i lati dell'ingresso si ergevano due colonne doriche lineari e, sullo stesso piano, la casa era decorata con bovindi. Era tutto così palladiano.
Verena estrasse una chiave dalla sua borsa e fece scattare il lucchetto. Il cancello si aprì con un cigolio sinistro.
«Non avere paura», mi rassicurò Verena.
Avanzammo, ma, come detto prima, la strada non sembrava essere cambiata. Calpestai le migliaia di foglie secche cadute dai tanti alberi smistati sul grande giardino. La disposizione delle piante, tanto alte quanto secolari, creavano un viale che portava dritto all'ingresso. Tra un tronco e l'altro, inoltre, apparivano delle statue angeliche, dall'espressione sofferente, la maggior parte mutilata o rovinata.
Da vicino, la casa aveva l'aria di stare in piedi solo per grazia divina e mi ricordava tantissimo una di quelle infestate. Non osai dire una parola.
Verena picchiò forte il batacchio ad anello sulla porta e attese.
La mia pelle d'oca non era scomparsa, mi sentivo come pietrificata, con vitalità pari a quella delle statue.
Mitchell doveva odiare tanto le persone, al punto di vivere in una zona introvabile, dentro una catapecchia che, secoli fa, avrebbe potuto appartenere a dei nobili. Era tutto così spettrale e Mitch non accennava ad aprirci.
«Sei sicura che viva qui?», chiesi per sdrammatizzare.
«Certo», il suo tono esprimeva ovvietà.
Scusami se la gente normale preferisce ambienti confortevoli.
Sentimmo dei rumori provenire dall'altra parte della soglia e stessimo all'erta.
Era la maniglia della porta che stava girando e, lentamente, si formò un piccolo valico.
Avevo il cuore a mille, all'interno era tutto buio e sembrava che nessuno stesse al di là di noi.
«Non ti aspettavo».
Una voce, palesemente quella di Mitch, si stava riferendo a noi. O a una di noi. Avrei fatto meglio a svignarmela finché ero in tempo, non mi aveva ancora vista e avrei raggiunto il cancello spostandomi tra gli alberi.
«Vogliamo solo parlare», dichiarò Verena.
La guardai male, addio al tentativo di fuga.
«Vogliamo?», ripeté lui.
Alzai gli occhi al cielo.
«Possiamo entrare?», continuò la rossa, senza annunciarmi. Forse ero ancora in tempo per scappare.
«No, andate via».
Se quella non era una dichiarazione d'odio detta più o meno faccia a faccia non avrei saputo come definirla. Avevo sbagliato a seguire Verena, di nuovo. Se il primo giorno di scuola avessi fatto gli affari miei...
«Ti prego!», cercò di supplicarlo. «Gwen e io vogliamo finirla con...».
«Gwen?», la interruppe, anche se avrei gradito ascoltare tutte le sue parole. «Credevo fossi con Max».
Era parecchio sorpreso – o schifato – ma avevo capito il concetto.
«Okay, è troppo», parlai alla porta semi aperta. «Addio e grazie di niente».
Feci per voltarmi e tornare a casa anche a costo di perdermi, quando la sua voce si rivolse a me.
«No, rimani».
Il suo tono non era più freddo, ma quasi vellutato e lieve. Bastò per inchiodarmi per terra e non muovermi più. Mi aveva detto di restare? Non me lo ero immaginata? I miei occhi spalancati fissavano ancora il cancello lontano, ma il mio corpo non ne voleva sapere niente di spostarsi.
Sentii di nuovo i cardini della porta cigolare e pensai che Mitch si fosse mostrato.
Verena trasalì e ciò mi terrorizzò.
«Vattene», gli sentii dire dopo.
Ce l'aveva con me? Prima mi invitava a rimanere e poi mi cacciava via, che razza di problemi mentali lo affliggevano?
Strinsi i pugni e gli risposi.
«Sei uno...».
«Sai che non posso».
Verena sovrastò la mia voce e sussultai. Non si stava riferendo a me, voleva che lei se ne andasse. Per restare da solo con me.
«Non mi interessa». Aveva l'aria di essere arrabbiato, ma non riuscivo ancora a girarmi per guardarlo in faccia.
«Ti interesserà fra qualche giorno!».
Di cosa stavano parlando? Avevo il forte desiderio di intromettermi, ma qualcosa mi diceva che avrebbero smesso di parlare nello specifico e avrebbero deviato il discorso. Fare invece come se fossi invisibile avrebbe anche potuto confonderli, dimenticandosi della mia presenza.
«La mia non era una richiesta, ma un ordine», replicò, tutt'altro che vellutato e lieve. «Vattene».
«Te ne pentirai».
Furiosa quanto lui, Verena girò i tacchi e mi superò di gran passo.
«Non sappiamo se è stata lei!», le urlò dietro Mitch.
Lei? A chi stava alludendo?
Mitchell ebbe l'ultima parola, osservai Verena uscire dal cancello e sparire oltre il bosco, senza ribattere. La paura di vedere il biondo fu superata dall'idea di tornare a casa senza nessuna guida.
«Entra, non stare lì al freddo».
La sua cordialità mi stava intimorendo.
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