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Capitolo 3

Non ero particolarmente convinta che Max sapesse al cento percento cosa io stessi affrontando, ma la curiosità di sentire spiegazioni più dettagliate e soddisfacenti di un'immagine riflessa suonava meglio. Per questo motivo, dopo scuola, uscii di casa coprendomi con il cappotto pesante e percorsi la strada che lui mi aveva mostrato. La via più veloce per arrivare allo Spreepark era tramite bus, partendo dalla Brandeburger Tür. Non avevo la minima idea di cosa fosse e quanto tempo ci avrei impiegato. Lo capii cinquanta minuti, ventidue fermate e chilometri a piedi dopo. Se mi fosse capitato tra le mani prima, quando non ero ancora stanca, lo avrei ucciso. Con che coraggio mi aveva fatta arrivare fin lì, in un parco divertimenti abbandonato e semi distrutto, isolato dai turisti e poco frequentato? Avrebbe potuto benissimo parlarmi anche davanti a casa. Era così silenzioso che riuscivo a sentire la corrente del fiume Spree.

Camminai lungo il perimetro delineato da sbarre ed erbaccia alta e secca. Tra i vari arbusti spiccava la ruota panoramica, ormai rotta e arrugginita. Vidi l'entrata dell'ex parco giochi con un grosso cartello sopra e diceva chiaramente "Vietato Entrare". D'un tratto pensai si fosse trattato di uno scherzo. Probabilmente Max era lì da qualche parte a spiarmi e a ridere, magari con i suoi amici, mentre io facevo la figura della stupida. O forse non si sarebbe neanche presentato, data la distanza. Cosa avrei dovuto fare? Ormai ero lì, da sola, chissà dove, in un luogo tutt'altro che confortevole. Le ringhiere erano piegate, sinonimo che qualcuno aveva già provato ad entrarci. Con mia sorpresa, con una spinta riuscii a creare un'apertura. Che sollievo, l'idea di dover scavalcare mi aveva messo a disagio.

Tutte le attrazioni spente e immobili davano un'aria oscura: la nave pirata aveva il legno ammuffito e il laghetto su cui stava era immobile e aveva bloccato le piccole imbarcazioni a forma di cigno; il carosello, come i muri dei bar e dei locali, era pieno di scritte e graffiti colorati; i dinosauri scolpiti artigianalmente, alti quasi quattro metri, giacevano a terra; il trenino, la ferrovia di legno, tutto ciò che li circondava era senza vita e ricoperto di muschio. Mi venne la pelle d'oca camminare per quei sentieri e avevo ancora il sospetto che Max mi stesse spiando.

Un ponte di legno non molto stabile mi aiutò a superare un fiumicello, finendo dove la vegetazione si faceva più fitta. Sentivo che sarei finita in qualche guaio. Max mi aveva detto di non fermarmi finché non avrei trovato delle vecchie abitazioni. Era assurdo, non c'era niente a parte natura morta. Eppure, a pochi metri da me, si presentava una schiera di case abbandonate colorate di rosa, verde e celeste, con le travi che decoravano le facciate, talvolta ricoperte di graffiti.

«Da questa parte». La voce di Max mi meravigliò, non mi stava affatto prendendo in giro. Lo vidi gesticolare sull'uscio di una baracca rosa, somigliava alla "Casa dei Sogni" di Barbie versione horror, troppo fuori contesto per uno come lui. Mi sorrise smagliante non appena lo raggiunsi e mi abbracciò. Restai ferma per qualche istante. Faceva molto freddo e lui era estremamente caldo. Tenendo conto che era coperto solo da una felpa era ancora più strano. Ormai agli occhiali da sole anche quando era nuvoloso ci avevo fatto l'abitudine. «Non ti sei persa», rise divertito. Io non ci trovavo niente di buffo, mi aveva fatto attraversare la città senza nessuno, con il tempo instabile, in un luogo inquietante e con un mistero da risolvere, era pazzo. «Credevo non saresti più venuta».

«Da quanto mi stai aspettando?», era impossibile, eravamo partiti dalla stessa fermata, anche se avesse preso la linea precedente lo avrei potuto incontrare per strada.

«Non molto, alla fine», vedendo il mio sguardo indagatore decise di fare il serio e mi fece accomodare in quella strana casetta degli orrori. Mi misi a gambe incrociate, per terra, e la cosa non fece che disgustarmi di più. «Ascolta attentamente cosa sto per dirti». Si posizionò davanti a me. Il suo tono e la sua espressione mi spaventarono un po', non lo avevo mai visto così, neanche in infermeria. Annuii vivacemente, era l'ora della verità. «Purtroppo non sarò io a spiegarti la fonte, non spetta a me», aveva l'aria di voler dire altro, ma lo bloccai, urlando.

«Cosa!?», evidentemente lo spaventai, «Spero tu stia scherzando! Mi hai fatta venire fin qui per niente, quando avresti potuto raccontarmelo anche a casa!», in quel momento capii perché Max stesse parlando a bassa voce, il suono rimbombava e faceva eco.

«Hai ragione, avrei potuto farlo, ma questo luogo è molto più protetto». Lui non perse le staffe e continuò con il solito ritmo. «Ciò che hai al tuo interno è molto più forte di quel che tu immagini».

«Lo so, ma che cos'è e come fai a saperlo?», cercai di contenermi, ma non ci riuscii. Era la rivelazione che stavo aspettando da tutta la vita, non ce la facevo a restare calma.

«Non posso rivelare certi particolari, ma posso aiutarti a scoprire piano piano cosa c'è che non va». Sembrava parlasse a una bambina, era una questione seria e lui scandiva le sue parole semplici come se stesse bevendo dell'acqua. Gli feci cenno di continuare, impaziente. «E' evidente che nel tuo corpo si celi uno spirito di cadavere e, guarda caso, c'è chi lo conosce molto bene».

A quelle parole altre brividi dolorosi si espansero sulla mia pelle. «Hai detto cadavere?», non gridavo più, mi sentivo persino la voce paralizzata.

«Ho detto cadavere», creava una suspance tale da uccidere per saperne di più. «L'anima che ospita il tuo corpo non è propriamente tua».

«E di chi è?», ero così presa come una bambina piccola davanti alla TV che guarda il suo cartone animato preferito.

«Di un'entità malvagia».

Non mi aveva praticamente detto niente, ma le sue risposte non sembravano così scontate, come se non avessi mai potuto immaginarlo da sola. Avevo bisogno delle sue ovvietà per comprendere.

«Può essere sconfitta», continuò, ed era proprio ciò che volevo sentire. «Dovrai solo fidarti di me».

«Okay».

«Hai capito? Non lo devi rivelare a nessuno».

«Sì, so mantenere un segreto», sbuffai.

«Bene». Poi, dalla tasca della felpa, tirò fuori un ciondolo. Era una pallina piccola, molto fine e delicata, color ametista. Me la porse e la squadrai bene. Dentro sembrava contenesse del liquido, siccome la colorazione viola si muoveva lentamente e aveva dei riflessi argentei. Oppure era tutto frutto di un'illusione ottica creata dalla gemma. Passai sopra il dito e delineai il perimetro di un'incisione. Riconoscevo quel simbolo, era lo stesso che intingevo con il mio sangue, il mio tatuaggio. Non c'erano più dubbi, stava dicendo la verità.

«Cosa dovrei farci?», sollevai lo sguardo dalla collana.

«Metterla», fece un sorriso sghembo dato dalla mia ingenuità. Così lo accontentai. Non successe niente di strano, mi sarei immaginata una scossa oppure la risata malvagia di quell'essere, invece zero.

«Come funziona?».

«Sta già funzionando».

Non stavo capendo, era forse uno scherzo? «E come?».

«Lo scoprirai».

Avrei voluto tanto alzare gli occhi al cielo e lamentarmi di quanto il tutto fosse sconclusionato. «Perciò, ora?».

«Al momento vorrei suggerirti alcune dritte. La prima, dovrai portare quel ciondolo sempre con te, non togliertelo mai. La seconda, ci farebbe piacere che tu uscissi con noi qualche volta».

Giravo la piccola sfera tra le dita, mentre altre domande si affollavano nella mia testa. «Con voi?».

«Io, Mitch e Verena ci conosciamo da tanto tempo e non li avevo mai visti così interessati a una persona», con il dito mi indicò.

«Sono interessati a me?», cominciavo a comprendere perché parlasse piano come a una bambina, facevo domande stupide.

«Sì, parlano continuamente di te, tutto il giorno». Potevo anche credergli per quanto riguardava Verena, ma Mitch, era improbabile. Oppure ne parlava, ma male. L'importante era che lo faceva e subito mi prese una fitta allo stomaco. «Ti piace, non è vero?», assurdo che me lo abbia chiesto, non avevo detto la verità nemmeno a Verena. Ma qual era la verità? «Io posso insegnarti come conquistarlo». Parlava di lui come se fosse il mondo. Un'intera popolazione da dirigere.

«Beh, sei il suo migliore amico, saprai di certo cosa apprezza». L'aria da bambina innocente parve dissolversi, finalmente arrivavo anche io alle questioni sottintese.

«Sì, anche», qualcosa mi diceva che nella sua testa avevo ancora cinque anni. «Oppure, domani, dopo esserci visti, pondererai i suoi comportamenti e deciderò se rivelarti un segreto».

Perché non poteva dirmi tutto e basta? Troppe frasi lasciate in sospeso, troppi concetti non spiegati. Mi sentivo come al punto di partenza, anche se avevo guadagnato una collana nuova e la consapevolezza di essere pensata da Mitch.

«Va' a casa ora, hai molto su cui riflettere». Si sollevò da terra e indietreggiò, lasciandomi spazio. Io non me ne volevo andare, avevo il desiderio, la necessità di conoscere altro. Non mi mossi di un millimetro.

«Non abbiamo finito», incrociai le braccia e lo guardai con il broncio. Lui scosse la testa, nuovamente divertito dai miei comportamenti infantili. Poi si avvicinò e mi tese una mano. Smisi di comportarmi come se andassi ancora all'asilo e l'afferrai. Non appena la strinsi mi sentii sollevare di peso.

«Ehi, aspetta!», non avevo nemmeno puntato i piedi che ero già in posizione eretta. Mi aveva completamente alzata dal terreno con una mano. «Come sei forte», osservai, confusa.

Max fletté le braccia, mostrando i muscoli da sotto la felpa. «Palestra».

Annuii distrattamente.

«E' tardi, i tuoi saranno in pensiero».

Questo non avrebbe potuto essere vero, ero partita nel primo pomeriggio e, a parte l'oretta di viaggio, non erano passati così tanti minuti dall'incontro con Max. «Non è tardi, saranno a malapena le sei», nel frattempo guardai l'orario dalla schermata del telefono e sbiancai. «Accidenti!», erano le sette passate. Non avevo lasciato messaggi e niente ai miei genitori e sicuramente erano già rincasati per la cena. Infatti, le notifiche segnavano tre chiamate perse e cinque messaggi, mandati ad un tempo distanziato l'un l'altro. «Faccio una telefonata, ti dispiace?».

«Fai con comodo e stai attenta, Berlin non è un bel posto di sera», poi aggiunse un'altra cosa, ma non lo sentii per via del beep del telefono e la lontananza.

Dopo aver raccontato ai miei di una visita escursionistica con Verena e aver detto loro di star arrivando ritornai nella casa rosa per salutare Max. Non c'era più. Lo chiamai più volte e lo cercai nelle altre abitazioni, ma sembrava se ne fosse già andato. E da dove era passato se sull'unico viale c'ero io? E poi avremmo potuto prendere il bus insieme, siccome scendevamo alla stessa fermata. Dopo cinque minuti a girare a zonzo per quell'erba alta non mi importò più, ero in ritardo e Max era grande abbastanza da potersi arrangiare da solo. Così, corsi fino all'uscita, sperando di non incontrare nessuno. Feci i chilometri a piedi correndo, sperando di arrivare in tempo per il prossimo mezzo. A quell'ora il bus era vuoto e non si fermò neanche così tante volte come all'andata, facendomi guadagnare mezz'ora.

«Ti è piaciuta la città?», mia madre stava servendo la cena, una specialità di Berlin chiamata "Königsberger Klopse", anche se le sue origini erano prussiane. Si trattava di polpette di macinato di carne di vitello, condito con acciughe e una crema a base di vino e limone. Come contorno mi servii le patate al forno e mi sentii subito riscaldata.

«Sì», supposi. «Molto pulita», e deserta, abbandonata, arrugginita, per non parlare del muschio. Tanto muschio e erba alta.

«Che cos'hai visto?», mio padre era già al secondo piatto e sembrava curioso di sapere con specificità se l'idea del trasferimento fosse stata buona. A Leinburg non mi ero opposta più di tanto, l'alternativa sarebbe stata vivere da sola o a casa delle mie amiche, ma percepii il disagio che si sarebbe creato.

«Ahm, Alexanderplatz», non sapevo nemmeno dove fosse, solo che era vicino, «il Parlamento, la Cupola del Parlamento, il Muro, il Duomo, il Memoriale dell'Olocausto...», contai sulle dita tutte le mie ricerche fatte su internet la settimana prima.

«Ti stai ambientando?», era difficile da dire, non ne avevo la minima idea, non avevo fatto nessuna visita e le uniche missioni del giorno erano state sopravvivere e non essere rapita mentre attraversavo la città.

«Con calma».

«Tra poco ti dimenticherai di Leinburg», osservò mio padre, mentre mia madre annuiva.

«Io non voglio dimenticare», obiettai. Non più ora che stavo per conoscere la verità, che potevo battere la mia paura più grande. Non valeva più la pena fingere e mi sarei fatta aiutare.

Aspettai di finire il piatto e salii in bagno per farmi una doccia.

Max aveva detto di tenere la collana in ogni momento, ma non volevo rovinarla, quindi la tolsi con cautela. Non l'avrei mai tenuta né per lavarmi né per dormire, che male avrebbe potuto farmi?

L'acqua calda mi sciolse i nervi e mi rilassò. Forse era solo una mia impressione, ma senza quel ciondolo mi sentivo più leggera. Ancora non avevo capito a cosa servisse, né cosa Max avesse fatto su quella gemma per renderla ciò che era, al di fuori di una semplice collana. Dovevo fidarmi di lui, ma lo volevo davvero? Non mi sentivo particolarmente a mio agio con lui, preferivo la compagnia di Verena. Anzi, mi sarei dovuta scusare per essere sparita così. Ora che ci stavo pensando, Max e Verena erano amici da tanto tempo, lo aveva detto lui stesso. Quindi era altrettanto probabile che anche lei sapesse qualcosa riguardo a quello spirito di cadavere.

Pensarlo mi dava i brividi comunque.

Avevo deciso, il giorno dopo le avrei parlato del mio segreto. Durante l'uscita, con Mitch. Che disastro! In sua presenza non sarei riuscita nemmeno ad ascoltare. Buttai la testa all'indietro, dimenticandomi per un momento di essere sotto l'acqua bollente e prendendomi tutto il getto in faccia. Lanciai un urlo e chiusi il flusso. Beh, avevo riflettuto abbastanza, almeno quanto bastava per andare a dormire con il cervello spento.

Anche quella mattina riuscii ad alzarmi, meno difficilmente del previsto. Andare a letto presto aiutava molto. Nonostante ciò i ripetuti sbadigli suggerivano che avrei preferito ritornare a dormire, se non fosse stato un giorno importante. La prima cosa che feci, ancor prima di vestirmi, fu indossare la collana. Non sentivo differenza tra il metterla e toglierla, però andava portata e, in più, era carina. Dopo aver messo un abito nero a maniche lunghe e delle calze scure sotto, scesi in cucina per la colazione.

«La promozione ha aumentato lo stipendio, sarà più facile Franziska». I miei genitori erano impegnati in una conversazione davanti al caffè, ma non appena mi videro si bloccarono e fecero finta di niente. Non riuscivo a capire perché dovessero censurare le questioni da adulti davanti a me, facevo anche io parte della famiglia.

«Sei molto elegante», osservò mia madre con il sorriso.

«Dopo scuola mi vedrò con i miei amici», non era stato particolarmente complicato pronunciare la parola amici. Si avrebbe potuto presumere che lo fossero già, più o meno tutti. La mia mente iniziò a fantasticare su Mitch. Scossi la testa, mi sarei sforzata al fine di risultare più sveglia e attenta.

«Ci vediamo stasera», salutai, mettendomi il cappotto e raccogliendo lo zaino dal pavimento.

«Aspetta, non mangi niente?», mia madre si alzò, guardando poi oltre me. «Jorg, i documenti!», anche mio padre stava uscendo di fretta, dimenticandosi della ventiquattrore, motivo per il quale lei lo stava raggiungendo con la valigetta in mano.

«Ah, sì», la prese e uscì prima di me.

Non volendo ritornare sull'argomento colazione – meglio non avessi mangiato niente, alla prima fitta allo stomaco avrei rimesso tutto – alzai le spalle e lo seguii. «Comprerò qualcosa al bar», e, prima che mia madre avesse avuto l'occasione di ribattere, chiusi la porta alle mie spalle.

Indossai le cuffie e scelsi di ascoltare qualcosa di pesante, che mi avrebbe distratta, mentre mi avviavo verso la fermata dell'autobus. Optai per l'album dei Dahlia, mi erano piaciuti fin da subito e durante il tragitto verso scuola chiusi gli occhi e ripensai al concerto. Nello specifico ai ragazzi che suonavano con passione, facendo scatenare una folla di cento persone. Poi mi ricordai quando ci provai anche io e se non fosse stato per Max avrei rovinato tutto.

«Posso sedermi qui?», una voce sovrastò la musica, ma era come se provenisse ugualmente dalle cuffie. Aprii gli occhi per guardare e realizzai che la stessa persona che stava cantando era in piedi davanti a me.

«Dylan! Certo», spostai lo zaino dal sedile di fianco al mio e lo appoggiai tra le mie gambe. Nel frattempo avevo tolto un auricolare e la musica si diffondeva vicino a me.

«Sono contento che ti piaccia», mi sorrise, era palese che si fosse riconosciuto, non mi ero curata di spegnere. Stessi per farlo, ma lui mi fermò la mano con la sua. Al tocco strabuzzai gli occhi. «Lasciala, ti prego». Lo osservai con attenzione, ancora una volta i suoi capelli castani e leggermente lunghi erano legati in una coda bassa, con il ciuffo che gli accarezzava la fronte e la guancia destra. Non mi ero resa conto che i suoi occhi fossero verde scuro.

Girai la testa, puntando al telefono.

«Credevo fossi più grande di un liceale», ero sorpresa di vederlo sul pullman di scuola.

«E' così infatti, ma il preside della St. Gesine vorrebbe parlare con me per il rendimento di mio fratello, un'altra volta». Era esasperato, dava l'impressione si trattasse di routine.

«Hai un fratello? Anche io vado alla St. Gesine».

«Davvero? Allora sicuramente lo conoscerai, è un gran scorbutico, molto sgarbato, scontroso quasi con tutti. E' un tipo da evitare, non ha niente a che vedere con te».

Davvero una brutta persona, avrei potuto farmi un'idea su chi fosse, ma la ritenevo impensabile.

«Non mi conosci ancora, non puoi dirlo».

«Hai ragione, però, se Cedric continuerà ad avere problemi a scuola ne avremo di tempo per parlare», fece un risolino.

«Quel Cedric?», bingo, avevo in mente proprio lui. Valutai se rivelargli il piccolo scontro avuto il mio primo giorno di scuola.

«Indovinato», il suo sorriso si allargò e scosse la testa, divertito.

«Che c'è?».

«Qualche giorno fa è tornato a casa con un livido in faccia, ha detto che è stata una ragazza», la sua risata divenne più sonora e io mi feci più piccola, contro il finestrino.

«Ah, mi dispiace», probabilmente gli aveva detto di me.

«Non devi, se l'è meritato», a quelle parole raddrizzai la schiena e tolsi l'espressione triste dal volto. «Chiunque sia stata la stimo». Non lo sapeva. In un certo senso era meglio così, almeno sarei risultata normale ai suoi occhi e non mi avrebbe chiesto lo svolgimento dei fatti nei dettagli.

«Aggiornami, sono curiosa di sapere come andrà a finire», se lo avessero sospeso o bocciato me lo sarei tolta dalla classe.

«So dove contattarti». Evviva internet e i suoi social network.

Il pullman era entrato nei cancelli della scuola e Dylan si alzò per farmi passare. Lo salutai con la mano e lui mi fece l'occhiolino. Un viaggio più spensierato del previsto, ancora meglio.

La prima ora avevo storia, la Seconda Guerra Mondiale non era uno dei miei argomenti preferiti, ma abitare nel luogo in cui era morto il dittatore più temuto della Germania suscitava un certo impatto. Purtroppo, o forse per fortuna, il mio percorso scolastico era la Gesamtschule, ovvero avrei dovuto studiare le materie comuni come tutti e solo dopo specializzarmi in un mestiere più definito. Ancora tre anni e avrei preso il diploma Abitur, che mi avrebbe permesso di frequentare l'Università. Fortunatamente questo percorso era più breve rispetto a quello di Leinburg, in cui avrei dovuto studiare la stessa cosa per dieci anni. Tutto ciò rendeva il trasferimento più piacevole e con meno compiti da fare.

Nemmeno inglese riuscì a farmi pensare ad altro, temevo di fare disastri durante l'uscita. Non avrei avuto scuse, lezioni o test per andarmene. Saremmo rimasti insieme tutto il giorno. Cominciavo a sentire le prime farfalle e mi congratulai per non aver fatto colazione. O forse era solo il mio stomaco brontolante che aveva fame. Dopo matematica, in cui la testa prese a scoppiarmi e a farmi male per il calo di zuccheri, decisi di prendere da mangiare.

Il bar della mensa offriva dolci e pasticcini durante l'intervallo, come avrei potuto resistere a una torta al formaggio? Ne ordinai una fetta e scrutai la sala per trovare un posto tranquillo, lontano da tutti. Focalizzai gli ultimi tavolini messi all'angolo, nessuno era seduto nelle vicinanze, eccetto una ragazza dai capelli rosso fuoco e un berretto in testa che mi stava salutando. Con il vassoio in mano andai da Verena, con il sorriso sulle labbra. Avevo bisogno di lei, avevo bisogno di parlarle e chiederle per dopo.

«Ti vedo in forma», esordì. Inarcai le sopracciglia mentre prendevo posto, non mi sembrava di essere piena di vitalità.

«Per niente, sono in ansia», le confessai. Avevo una mezza idea di guardarmi intorno per scorgere la figura di Mitch, ma sarebbe stata una mossa stupida. Non volevo capisse che non aspettavo altro di vederlo quel pomeriggio.

«Come mai?», intanto che lei sorseggiava un cappuccino, io iniziavo a gustarmi la mia merenda.

«Beh, per dopo», gesticolai.

«Cosa succederà?», era molto confusa.

«Dobbiamo uscire. Io, te, Max e Mitch. Lui non te lo ha detto?», ora quella confusa ero io. Possibile che si sia dimenticato di una cosa così importante? E poi era stato lui a dirmi che tutti e tre ne parlavano in continuazione.

«No, ma sarebbe bello».

Rimasi spiazzata. Probabilmente Max aveva dato per scontato che avrei invitato tutti io e se così fosse stato avrei dovuto parlare con Mitch. Oh no. Sarebbe stato imbarazzante.

«E' nuova quella collana?», mi chiese, risvegliandomi dalle ridicole scene che il mio cervello aveva creato durante un'eventuale conversazione con il biondo.

«L'hai notata? Me l'ha regalata...», un momento, che stavo facendo? Max mi aveva fatto promettere di non dirlo a nessuno. Ma Verena era sua amica, contava comunque? E se lei non avesse la minima idea di ciò che Max mi aveva raccontato? Forse per questo mi aveva raccomandato di stare zitta, non era al corrente di quel lato del suo amico. «Mia madre», decisi.

«Molto singolare», detto da lei era un vero complimento. «Allora per te non è un problema ritrovarci tutti al parco?».

Spalancai gli occhi, non avevo intenzione di ritornare in quel Luna Park abbandonato. Mi vennero i brividi solo a pensarci.

«Perché non in un posto più vicino?», chiesi impacciata. Per qualche motivo Verena si mise a ridere.

«Gwen, è praticamente in Centro!».

Riflettei un attimo, immobile, poi compresi. Stava parlando del Tiergarten, non dello Spree. Sollevata, mi corressi. «Sì, certo, quel parco».

Mi fissò con uno sguardo indagatore, poi la campanella suonò. Mi sorpresi di come il tempo era volato e finii velocemente il mio dolce.

Non sapevo se effettivamente Verena ne era al corrente o no, ma in un modo o nell'altro avrei estirpato qualche informazione anche da lei, solo per capire. Così, dopo le ore di laboratorio le chiesi di accompagnarmi fin là.

Sul pullman occupammo i sedili infondo. Buttai un occhio tra tutte le persone presenti, per verificare se Dylan fosse salito, ma non c'era. In venti minuti di pausa non ero riuscita ad andare neanche nei pressi della presidenza per incontrarlo. Ma, probabilmente, aveva fatto più in fretta di quel che immaginassi. Tornando a guardare Verena, sembrava sorpresa, come se non avesse mai visto un autobus in vita sua. «E' così diverso», la sentii bisbigliare. Poi il mezzo fece manovra e, sballottandoci un attimo, la rossa si aggrappò al mio braccio per non perdere l'equilibrio. Gemetti, aveva stretto troppo forte sulla mia ultima ferita.

«Scusami!», mi lasciò, «Non mi sono ancora abituata, dopo secoli solo Mitch ha preso gusto con i motori». Stava ridendo, ma io no. «E' una battuta», spiegò.

No, non l'avevo ancora capita. Okay. Mi guardai il braccio e notai un piccolo alone scuro sulla manica. Lo toccai ed era umido. Non era possibile, la sua presa fin troppo ferrea aveva fatto saltare le piccole croste e ora il sangue si era appiccicato. Mi spaventai e iniziai a respirare profondamente. Non sarebbe dovuto succedere, non lì, non con tante persone. Se lei si fosse manifestata in quel momento per me sarebbe stata la fine. Chissà cosa avrebbe fatto, non solo a me, ma a tutti. Non avrei più ragionato e avrei iniziato a pensare con la sua testa, ad agire con le sue mani. Stavo respirando così velocemente che temevo in un altro attacco di panico o quel che era. Me n'ero accorta, sentivo le persone bisbigliare alle mie spalle, nei corridoi. Ero quella pazza, psicopatica o addirittura malata. Non volevo accadesse di nuovo, non volevo dare spiegazioni, non volevo uccidere.

Le mani di Verena mi riportarono alla realtà. Quel tocco mi fece calmare e prendere di nuovo il controllo del mio corpo. Non era successo niente. Nessuno mi stava guardando, nessun ferito. Io stavo bene, il cuore rallentò e ripresi a respirare normalmente.

«Cosa ti è successo?».

Guardai Verena nel panico più totale, d'un tratto non mi sentivo più così calma. Lei non sembrava stranita, né spaventata, solo curiosa.

«Domani ho la mia prima verifica, oggi devo studiare», mi inventai. Il mio tono non convinceva neanche il mio cervello.

«Che materia?», stava diventando troppo insistente, le avrei... Non le avrei fatto niente.

«Storia», avrei dovuto essere più convincente «Seconda Guerra Mondiale», fresca di quella mattina.

«Oh, è stata particolarmente terribile, esplosioni ad ogni ora del giorno, irrequietudine quando non si sentiva nulla. L'intero mondo sembrava in soggezione, aspettando il prossimo colpo». Parlava come se l'avesse vissuta. «La città è piena di storia, ti aiuto io». Il suo sorriso tornò, facendomi venir voglia di rimangiarmi tutto.

«Non c'è bisogno, il professore ha detto che posso ancora aspettare. Sono qui solo da qualche giorno».

«D'accordo».

Si alzò in piedi e non capii perché, finché non riconobbi la mia fermata. La seguii a passo svelto e una volta scese il suo sorriso svanì. «Basta bugie».

Mi sentii debole. Mi aveva scoperta e le mie guance stavano diventando rosse. Cosa avrei dovuto fare, continuare a mentire o trovare finalmente il modo di capire? Lei non era una psicologa, una dottoressa o il capo di un manicomio, era un'amica. Sarei riuscita a parlarle in un modo che Sarah e Larysa si sarebbero sognate?

«Prima il concerto, poi la crisi in mensa e poco fa sul pullman», continuò. Avevo l'impressione non si fosse bevuta la teoria dell'attacco epilettico. Suonava strano pure a me. E il concerto, tutt'altro che adrenalina.

«Va bene».

L'entrata del parco Tiergarten era a ovest dal Centro, a confine con la strada principale che porta a Brandenburger Tür. L'avevo percorsa la prima volta in cui ero venuta. Per quanto avessi potuto vedere da terra, l'area era enorme, un insieme di vegetazione fitta e monumenti. A fianco di Verena percorsi un lungo sentiero in mezzo al bosco, ben curato e caratterizzato da piccole staccionate in ferro battuto che lo delimitavano. Ogni tanto scorgevo dei laghetti e il panorama era spettacolare: il terreno era coperto di foglie giallastre, come quelle ancora rimaste sugli alberi ormai spogli. Il cielo sereno, con diverse nuvole opache davano un'atmosfera di pace. Persino il suono del traffico era diminuito e ciò mi fece chiedere quanto in profondità stessimo andando.

D'un tratto Verena si fermò, sedendosi su una delle panchine posizionate ogni decina di metri da quando eravamo partite.

«Qui non saremo disturbate», tentò di apparire cortese, ma notai comunque una leggera fretta nello sguardo, come se stesse aspettando qualcosa di importante dopo tanto tempo. «Coraggio», vista la mia espressione sorrise e fece segno di accomodarmi con lei.

«Va bene», era la mia occasione, così la colsi. La raggiunsi e mi strinsi nelle spalle, pensando.

Non avrei parlato di Max, ma in qualche modo avrei iniziato. Mi sollevai la manica del vestito, facendo attenzione a non strappare troppo dolorosamente il sangue secco che univa il tessuto alla pelle. Non appena Verena vide il taglio e le vecchie cicatrici si allarmò.

«Gwen, che diavolo!».

«No! Perdio, no!», ricoprii il braccio, non avrei dovuto cominciare così, si stava già facendo un'idea sbagliata. «Non è come sembra!».

«Spiegati meglio, per favore», si passò le dita sugli occhi, facendo attenzione a non struccarsi. Forse il sangue le faceva impressione. Pensai con criterio cosa dire, ma non mi veniva in mente niente, era tutto così assurdo, non conoscevo nemmeno i particolari. Sbuffai, non mi restava altro che descrivere tutto.

Presi un bel respiro.

«Sento una voce, dentro me, mi impone cosa fare, cosa pensare, ma è molto di più». No, con la storia delle voci mi sarei solo guadagnata un posto in psichiatria. «Non è una voce, credo sia...», cosa aveva detto Max a proposito dei cadaveri? «Uno spirito». Finalmente notai una reazione da parte di Verena e non era assolutamente ciò che mi sarei aspettata. Non era sconvolta, impaurita, scioccata o incredula, bensì colpita positivamente. Sul serio, stava sorridendo come non mai e lei sorrideva sempre.

«Dimmi di più», ora era lei a spaventarmi.

«Questi tagli non sono comuni, ha bisogno del mio sangue per manifestarsi o di qualsiasi altro comportamento aggressivo da parte degli altri. Quando non è me è qui», mi indicai la tempia. «Non sai quanto sia frustrante vivere a seconda del volere di un altro, non hai mai propriamente il controllo di te stessa. Pensavo di migliorare, di cambiare una volta trasferita, ma lei è qui, è sempre qui e non c'è modo di separarmi. Sono vittima di una doppia personalità avanzata», l'ultima frase la dissi ridendo, non pensai nemmeno esistesse quella cosa. Era così difficile parlarne, ma estremamente appagante. Ero concentrata sulle mie parole da non accorgermi dell'interesse di Verena.

«Che aspetto ha?», era rimasta sull'attenti, contentissima di aver ascoltato ogni singola frase della mia storia.

«Nessuno, credo. Il mio, mi parla attraverso lo specchio», escludendo quella macabra visione delle mie braccia d'un tratto grigiastre e raggrinzite e gli artigli neri.

«Cosa ti dice?», mancava poco e si sarebbe messa a prendere appunti.

«Beh, dipende, anche se esiste un discorso frequente», mi avvicinai di più quando dei passanti con il cane ci oltrepassarono. Ma non eravamo indisturbate? Strinsi gli occhi a fessura mentre incrociai quelli di lei. Mi bisbigliò delle scuse. Mi accertai che il viavai fosse finito e continuai. «Molte volte impazzisce, nel vero senso della parola, diventa isterica, perché non possiede certi elementi. Mi chiede di trovarli e di ricomporla, ma...».

«No!», mi interruppe. «Cioè, è frutto del tuo subconscio, come puoi ricomporla?».

«Già, l'ho creata io», diventai più triste. Era l'alternativa peggiore, escludendo il sovrannaturale, che io fossi nata con tutte le rotelle fuori posto. Non ero normale. «E' l'insieme di tutte le mie paure e incapacità. Non sono una persona così cattiva».

«Non pensarlo minimamente», mi cinse le spalle con il braccio e mi sentii più libera, oltre che riscaldata. Avevo sperato Verena mi avesse dato qualche risposta in più, ma una piccola percentuale di me sapeva che non c'entrava niente con tutto ciò e aveva vinto questa. Non avrei ottenuto niente da lei, se non un'amichevole comprensione. Almeno non era scappata a gambe levate e questo mi fece sentire meglio.

«Non dirlo in giro, è già imbarazzante così».

Lei scosse solo la testa, sempre con quell'aria felice.

«Hai paura di lei?».

«No».

Strabuzzò gli occhi.

«Non ho paura del mio riflesso, ma di ciò che potrebbe fare», mi corressi, «di ciò che io potrei fare».

«Cosa intendi?».

«Nella vecchia scuola episodi come quello successo qualche giorno fa erano molto frequenti. Mi capitava, o meglio, mi capita di pensare di agire in modo violento contro le persone. Non importa chi siano, anche ai miei genitori ho immaginato di fare cose brutte e intendo proprio fino alla morte. E' grazie all'autocontrollo che mi impongo di avere se ancora non ho ucciso nessuno. Talvolta questo sparisce quando sono gli altri a iniziare. Mi sale il nervoso, una rabbia repressa che mi offusca la ragione, senza motivo e, così, agisco, come al concerto».

Verena annuì, stava iniziando a collegare i pezzi.

«Lo hai mai detto a qualcuno?».

Max era pur sempre qualcuno, ma non gliel'ho proprio detto e nemmeno Sarah e Larysa ne erano al corrente, perciò:«No».

La mia risposta la fece sollevare, pensai anche io che altri non avrebbero capito.

«Ora devo farti una domanda, ne avevamo già parlato, ma ora devi essere sincera».

A quel punto non avevo più scuse, ma avevamo parlato di tante cose, musica, vestiti, scuola, trasferimenti...

«Ti piace Mitchell?».

Non mi era minimamente passato per la testa. Ero stata occupata tutto il giorno a pensarlo che questa conversazione lo aveva spazzato via. E stavo bene, fino a quel momento. L'ansia di rivederlo tornò e iniziai a non capire più niente.

«Io non lo so, no».

«Ginny, è importante».

Mi stava supplicando di dire di sì, anche se fosse stata una bugia non voleva sentire altro.

«Non si degnerà mai di una come me. Stranezze a parte, non riesco a parlargli in modo decente e, da quanto sembri, mi odia», o ero io a odiare lui. Tutte le cattiverie che uscivano dalla mia bocca in sua presenza avrebbero potuto essere un segnale involontario che suggeriva il mio disprezzo. Non si poteva dire la stessa cosa dei miei pensieri, fortemente in contrasto con quanto detto prima. Era come se non riuscissi a concentrarmi su altro che non lui, dimenticandomi persino di essere in compagnia.

«Chi ti ha detto una cosa simile?».

La mia immaginazione. In effetti, anche Max aveva affermato io suscitassi interesse nel gruppo. Certo, se poi mi avessero ritenuta uno scherzo della natura ero tutt'altro che felice di essere pensata.

«Nessuno».

«Appunto, voglio che oggi tu sia più espansiva con lui».

La sua proposta mi fece venire i brividi sulle braccia. «Come pensi che sia capace?».

«Che ne dici con:"pensa prima di parlare"?», si mise a ridere. Come poteva prendere tutto così alla leggera? O forse ero io a ingigantire sempre le cose. 

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