Capitolo 18
Volevo solo tornare a casa. No, c'era qualcos'altro che mi oscurava la mente e nell'agonia balbettai più volte il suo nome.
«M-Mitch, d-dove è Mit-tch?».
Faticavo a tenere gli occhi aperti, avevo perso la sensibilità della pelle, come quando si riempie di formicolii. Ero completamente intorpidita.
«E' ghiacciata», Verena era al mio fianco, forse. Lo sbattere dei miei denti mi faceva percepire il suono in modo diverso.
«La prendo io».
Forse era Max? Mi sentii sollevare da terra e mi irrigidii.
«Va da lui».
Io volevo andare da lui, io dovevo andare da lui. Mi lamentai e cercai di scendere, ma ovviamente era tutto nella mia testa. Nella realtà i muscoli non erano in grado di ubbidirmi. Mugugnai più volte lo stesso nome, stavo delirando.
«Non ora, è successo uno spiacevole inconveniente».
Sentii il petto di Max vibrare, attaccato al mio orecchio. Non tremavo più, il calore del suo essere mi stava aiutando a rimanere con tutte le dita attaccate al corpo.
«No...», mi girai, ma lui mi strinse e mi tenne salda.
«Sta bene, tranquilla».
Era troppo rilassato e se avesse voluto trasmettermi la stessa emozione si sarebbe sbagliato di grosso. Sapevo cos'era successo e non me ne sarei stata tranquilla per nessun motivo.
«Voglio vederlo», mi imposi, nascosta dalla sua felpa.
«No, se vuoi vivere», scherzò.
Idiota, non era stata colpa mia. Ero sì stata l'unica che aveva avuto un briciolo di buon senso per andarlo ad aiutare, ma ero solo un'umana.
Lentamente lo sfinimento se ne andò via. Quella doccia ghiacciata mi aveva risvegliata i sensi e ora sentivo l'adrenalina scorrere in tutto il corpo.
«Fammi scendere!», era come dimenarsi contro una roccia, ero ingabbiata nella sua presa e i suoi occhi mi puntavano come fari.
«Ora torni a casa con me», aveva detto molto lentamente. Cosa diamine aveva intenzione di fare, ipnotizzarmi?
Dietro di noi sentivo dei rumori, ma erano indescrivibili.
«No!», gridai sdegnata. «Perché? Io devo andare con lui!», cercai di guardare oltre il suo braccio, per capire cosa stesse succedendo, ma Max mi bloccò la visuale e aprì la portiera dell'ormai sua auto. «Io lì dentro non ci entro!». Possibile che nessuno mi sentisse? Sì che urlavo e nessuno veniva a liberarmi.
«O dai retta a me o ti faccio addormentare di nuovo da Verena».
No, ancora la ninna nanna angelica no. Cercai di calmarmi, così non avrei risolto nulla.
«Okay, okay, aspetta».
Respirai profondamente per mantenere uno stato di rilassamento emotivo.
«Cos'è successo, di chi era quel braccio e perché non posso scendere?», forse erano troppe domande tutte insieme, ma non mi importava, le avevo espresse con calma e garbo.
«Eri in uno stato ipnotico? Sai bene che cosa hai combinato», mi accusò, utilizzando l'ironia, che non gli dava l'aria di essere arrabbiato.
«Che c'entro io? Ho solo cercato di aiutarlo, niente di più», ancora non vedevo cosa stessero combinando Mitch e Verena, ma sicuramente mi stavano ascoltando.
«Veramente lo hai distratto», mi sorrise.
«Distratto, in che senso?».
«Beh, sarebbe riuscito a prendere il Pugnale, se non ti fossi fatta quasi uccidere».
Mitch non aveva mai badato a me in quel frangente, credevo non si fosse nemmeno accorto del mio arrivo.
«Non ti credo».
Max sbuffò, ma non perse la pazienza. «Perché tu non hai visto, o letto», scosse la testa alludendo ai pensieri.
Già, a parte i poteri psichici non ero riuscita a controllare bene la situazione. Ricordavo solo Mitch che continuava a salire, poi era stato colpito, mi ero buttata ed ero stata colpita io. In tutto ciò lui non aveva perso di vista quella nube nera.
«Ti sbagli».
Mentre rivivevo quel momento Max sovrastò i miei ragionamenti. «Ti ha sentita arrivare e quando hai urlato si è bloccato», si fermò. «Forse non dovrei raccontartelo».
«Dimmelo», lo guardai negli occhi, fregandomene dell'effetto che avevano sulle persone e lo implorai con un'espressione languida.
Espirò rumorosamente. «Il Pugnale non era molto distante da lui, se avesse mantenuto quell'andamento sicuramente lo avrebbe afferrato prima di lei. Entrambi procedevano a spirale e quando ebbero toccato un raggio abbastanza vicino l'un l'altro la marea ti aveva scaraventata a riva. Mitch si accorse allora che avrebbe dovuto fare una scelta. All'inizio non aveva capito che il fulmine non aveva colpito te, quindi si angosciò, ma non era l'unica cosa che lo preoccupava. Quando il suo braccio sbucò dalla nube lui temette che lei ti avrebbe catturata. Per un istante pensò che tutto quello non fosse dovuto a causa dell'Elemento, ma per te. Per colpa di ciò che gli Arcturians avevano detto, Mitch aveva pensato che fossi tu l'oggetto da rubare. Quindi gli venne l'impulso di scendere, ma poi Verena ti aveva riportata a galla e Mitch si pentì subito di aver fatto la scelta sbagliata. La mano afferrò il Pugnale e la nube si dissolse».
Si fermò e io ebbi modo di mettere a fuoco la situazione.
«Ha pensato davvero che fossi in pericolo? Ma tu lo sapevi, perché non sei intervenuto?».
Non riuscivo ancora a sentirmi in colpa, lo avrei rifatto, ma sentivo crescere l'imbarazzo. Se non avesse avuto modo di pensare che stessi morendo sicuramente sarebbe andata nel verso giusto. Forse ero stata troppo impulsiva, ma sicuramente fortunata a non essere colpita e Max lo sapeva. Ribollii di rabbia nei suoi confronti.
«Era troppo tardi».
Che scusa del cazzo, non era vero. Ma io avevo visto tutto distorto. Cominciavo a non capire più cosa fosse successo a me.
Poi la mia attenzione venne catturata da un altro particolare. «Hai detto lei? Lei avrebbe dovuto avere l'intenzione di catturarmi? Chi credete che fosse?».
Max mi adagiò sul sedile e ne fui sollevata, ma così vidi la figura di Mitch in un groviglio di fumo e fiamme. Verena era troppo vicina, l'avrebbe colpita.
«Non guardare», Max si appoggiò alla portiera e oscurò il finestrino con il corpo. Pensai fosse stupido, mi aveva liberata e non aveva chiuso la macchina, sarei potuta correre via. Ma forse lo aveva fatto apposta. Mi aveva permesso di vedere quella scena solo per spaventarmi. E c'era riuscito. Ero terrorizzata dalla paura.
«Cosa gli succede?».
«Sta perdendo la pazienza», semplificò tutto.
Mitch aveva l'aria di non riuscire a controllare tanto la sua forma umana. I rumori che sentivo erano ovattati, come se ci fosse stata una barriera a separarci. Ma avevo visto che il suo corpo era tutto tranne che pelle umana. Si stava trasformando in un Demone vero.
No, non volevo pensarci. Lui non era così, lui non era cattivo, lo aveva ammesso. Quella era una gestione della rabbia demoniacamente modificata.
«Di chi era quel braccio?», tornai ad essere allarmata.
«Pensiamo fosse l'Esiliata».
Max aveva capito che le mie intuizioni erano corrette, quindi valutò che rispondere alle mie domande era una soluzione per non vivere nel terrore.
L'Esiliata, come avevano detto gli Arcturians. Ecco perché avrebbe dovuto cercare me e non l'Elemento.
«Ma è impossibile, io sono ancora qui. Mitch ha detto che gli Arcturians non si sono mai sbagliati. Non era lei!».
Adesso ero totalmente nel panico, sentivo che prima o poi sarebbe arrivato lo stato di shock.
«E' possibile che abbia cambiato i suoi piani», ipotizzò.
«No, che piani, vuole me, sono la Portatrice, ma sto bene. Dillo a Mitch, riportalo qui, non è successo nulla, le coordinate ci diranno dov'è finito il Pugnale e lo recupereremo». Mi stava venendo la tachicardia e dopo tutte le volte che avevo minacciato di farlo, alla fine piansi davvero. Mi accovacciai e singhiozzai sulle mie ginocchia.
«Ginny... ora ti riporto a casa».
No, non volevo andare a casa, volevo far tornare tutto come prima. Stavo bene, lo doveva capire anche lui.
Max posizionò il mio zaino sotto il sedile e si accomodò subito dopo al posto di guida.
Mise in moto.
E partì.
Quando smisi di piangere passai tutto il viaggio in silenzio, a fissare il vuoto, priva di qualsiasi emozione.
Non avevo pensieri per la testa, non provavo niente.
Il nulla.
Max ogni tanto mi lanciava un'occhiata per controllare se stessi bene o se ero ancora viva, perché né il mio corpo né la mia testa si esprimevano.
Non obiettai neanche quando mi mise una mano sul ginocchio, probabilmente per rassicurarmi o passarmi un po' del suo calore.
Non mi importava.
Doveva essere un sollievo per lui non ascoltare più la mia mente.
Per me lo era.
Mi riportò davanti casa ancor prima che avessi potuto constatarlo e mi aiutò a scendere.
«I tuoi sono dentro, stanno dormendo», mi avvertì passandomi lo zaino. Lo presi fissando l'asfalto e lo sollevai su una spalla.
«Mh», annuii una volta.
«Posso accompagnarti?».
«Mh».
Aprii la porta, girando la chiave più volte del necessario e senza accendere le luci superai il soggiorno salendo le scale verso camera mia. Non era difficile evitare di fare qualsiasi rumore, nemmeno il mio respiro si sentiva.
Feci cadere lo zaino davanti al letto e caddi a peso morto sul materasso, costantemente con gli occhi aperti e lo sguardo vacuo.
«Starò nei paraggi, in caso avessi bisogno di aiuto».
La mia voce vibrò di nuovo dal fondo della gola, automaticamente.
«Qualunque cosa dicessi non mi ascolteresti, giusto?».
Stessa risposta.
Non vedevo niente, ma percepivo come se Max fosse ancora lì. Ma come avrei potuto dirlo, era un vampiro, si muoveva nel silenzio. Sbirciai davanti alla porta, dove mi era sembrato si fosse fermato prima. E mi stava guardando.
La reazione più normale che avessi potuto avere sarebbe stata quella di cacciarlo via, era inquietante e del tutto fuori luogo.
Ma se se ne fosse andato, sarei riuscita lo stesso a controllare il vuoto che sentivo dentro?
Volevo davvero rimanere sola e rischiare di scatenare una delle mie crisi?
Ma, soprattutto, ero disposta a tollerare persino lui pur di non affogare nell'oblio?
Al sol pensiero di affogare si ripresentarono le immagini della marea e mi svegliai da quello stato di shock.
«E' successo davvero?».
Se ci fosse stata anche solo una possibilità che tutto quello fosse stato frutto della mia immaginazione, perché avevo perso i sensi annegando, quello sarebbe stato il momento esatto per dirlo.
«Sì, è reale».
«Loro dove sono?».
«Non lo so».
Ciò mi provocò altra tristezza e altro panico. Se non fossero riusciti a tornare? Se fosse successo qualcosa di peggiore?
Mi girai su un fianco, dando le spalle a Max, ma lui si trovava già davanti a me. Non mi spaventai per la sua velocità. Continuava ad essere tutto buio e questa era un'arma a doppio taglio.
Da una parte non vedere mi aiutava a rimanere concentrata, dall'altra mi sembrava di essere ancora là.
«So che in questo momento sei fragile», commentò con dolcezza e io roteai gli occhi. Ovviamente lui riusciva a percepire tutto, così piegò le ginocchia e si abbassò, per permettermi di guardarlo. «Ma fidati di me. E' perfetto così, non c'è nulla di sbagliato, nulla che non vada bene. Tornerà tutto come prima, come vuoi tu. Tu e Verena amiche per la pelle, io e te continueremo ad allenarci e tu e Mitch esporrete ciò che provate l'un l'altro. Hai tanta voglia di farlo, non è così? Smettila di pensarci, non serve a nulla se tutto rimane nella tua testa. Non combattere contro il tuo cuore, liberalo, lascialo andare».
I suoi erano buoni propositi, ma fin troppo idilliaci. Non credevo tanto alla loro riuscita, sarebbe stato troppo bello.
«Lo sarà, ti prometto che tutti i tuoi desideri si realizzeranno. Dimmi solo se sei con me. Non dovrai più soffrire così, bambina».
«Non voglio... soffrire», iniziavo ad essere stanca, volevo dormire. Sapevo cosa Max mi stesse facendo, ma non lo fermai. Forse era esattamente ciò che mi sarebbe servito, un'autoinduzione al sonno per far passare quella nottata in tranquillità.
«Esatto, sarai felice per il resto dei tuoi giorni. Te lo prometto».
«Sì», concordai, ad occhi chiusi.
L'ultima cosa che vidi fu il suo sorriso. L'ultima cosa che sentii fu la sua mano sulla mia guancia. E l'ultima cosa che udii fu la sua promessa.
Al mio risveglio fui sola. Mi sentii più riposata di quel che pensassi. Ci misi un attimo a connettere il cervello, verificare che giorno fosse, che ore erano. Non sentii rumori, né chiacchiericci, significava che i miei genitori erano già al lavoro.
Tremai dal freddo e capii che non avrei potuto più giocare con il tempo atmosferico. Avevo addosso la camicia di Mitch, l'avevo tenuta tutta la notte, il suo profumo mi era rimasto impresso nelle narici. Purtroppo, però, non scaldava più come prima. Una doccia calda mi avrebbe rinvigorita, avrei solo dovuto trovare la voglia di camminare. All'ennesima scossa di brividi cedetti e recuperai un maglione nero dall'armadio.
Mi lavai anche i capelli, erano diventati secchi per colpa del sale e non riuscivo a pettinarli nemmeno con il balsamo.
Forse sarebbe stata l'ora di tagliarli.
Erano lunghi fino ai fianchi e non mi erano mai dispiaciuti.
Ma sentivo come se fossero troppi, mi appesantivano.
Era lunedì e i negozi di acconciatura erano chiusi, perciò avrei dovuto resistere ancora un po', prima che avessi avuto modo di cambiare idea.
Con i miei indumenti mi sentivo molto più a mio agio, mi erano mancati gli skinny jeans neri.
Ormai era tardi per fare colazione, era quasi l'ora di pranzo e fischiettando mi preparai delle uova con bratwurst.
Il telefono mi suonò più volte, come se avessi ricevuto dieci notifiche in una volta sola. Andai a controllare lasciando la padella a friggere, sperando di non trovare danni al mio ritorno.
Era quasi scarico, così lo portai in cucina con me e attaccai la presa accanto al fornello.
Una serie di numeri a me sconosciuti mi avevano mandato un invito per una festa, organizzata dal Comitato Studentesco.
Una festa, la ciliegina sulla torta di tutto quel caos.
Non volli leggere oltre, non era esattamente il caso di festeggiare. Non provai nemmeno a pensare ad altro, non in quel momento.
Sarebbe andato tutto bene, non c'era motivo di allarmarsi.
Dannazione, quei messaggi mi avevano ricordato che avrei dovuto fare i compiti e io avevo già perso una settimana di tempo.
Andai a recuperare i libri, avrei iniziato a farli mangiando.
Erano di più di quel che avessi voluto.
Dopo un po' il telefono non smetteva di squillare, era diventato insopportabile. Lo presi per silenziarlo, quando una frase catturò la mia attenzione. Non erano riusciti ad ingaggiare nessun DJ per la festa. Mancavano ancora un paio di settimane, ma le loro opzioni erano impegnate.
Scrissi loro che ci avrei pensato io, probabilmente con troppo entusiasmo. Mollai i compiti per un secondo e feci una chiamata.
«Pronto?».
«Ciao Dylan, scusa il disturbo, hai un momento?», l'entusiasmo per la mia idea non era ancora calato, ma se fosse stato possibile sarei saltata dalla gioia.
«Ciao Ginny, ma certo, come stai?», anche lui era di buon umore.
«Tutto bene, ho una proposta da farti», camminavo avanti e indietro per la cucina.
«Spara».
«Suoneresti con la band per la festa di Halloween organizzata dalla mia scuola?», domandai tutto d'un fiato.
«Anche Ced me ne sta parlando», si mise a ridere.
Io ero arrivata fino in sala e stavo piroettando attorno al divano.
«Puoi proporlo ai ragazzi? Altrimenti non avremmo la musica dal vivo», supplicai.
«Va bene, ci provo!».
«Grazie!», era già un passo.
«Di niente. Sei già tornata dalla vacanza?».
«Sì», mi sdraiai sul divano e rotolai a pancia in giù.
«Potremmo uscire qualche volta, se ti va», propose.
Io restai in silenzio più del dovuto. Eravamo amici, era una cosa che avevamo già fatto, era inutile che mi scioccavo così tanto.
«Certo», tornai in cucina per finire le uova.
«Ottimo, allora ci sentiamo più tardi».
«A dopo», sorrisi e riattaccai.
Se i Dahlia avessero suonato avrei potuto prendere in considerazione l'idea di andare a quella festa. Se non altro, sarei stata sicura che mi sarei divertita.
Finii quasi tutti gli scritti, mancavano delle tavole da disegno e da studiare. Solo in quel modo ero cotta.
Mi strofinai gli occhi, decisa di fare una pausa, magari accendendo la TV. Non riuscivo a credere che mi sarei potuta rilassare.
E mi suonò il campanello.
A passo di lumaca andai alla porta, maledicendo chiunque fosse. Quando la aprii rimasi di stucco e poi l'abbracciai.
«Verena! Lo sapevo!», sapevo che sarebbe andato tutto bene. Quando mi staccai la sua espressione era mortificata.
«Lui dov'è?», ero ancora su di giri, fin troppo, ma non ricevetti una risposta immediata e ciò mi riportò per terra. «No... ti prego».
«E' qui», si affrettò a dire, per non farmi pensare male.
«Ma?».
Qual era il problema, perché non rispondeva?
«E' fuori di sé».
«Voglio vederlo», mi imposi. Volevo spiegargli ogni cosa, rassicurarlo se fosse stato necessario. L'immagine che mi ero lasciata dietro di lui in fiamme non mi piaceva. C'erano molte cose che non mi piacevano e le avrei affrontate, una alla volta.
«Forse, quando starà meglio».
No, non sarebbe riuscita a tenermelo lontano. Non glielo avrei permesso.
«E' a casa sua?», il mio tono cambiò e si fece più duro.
«No».
Sapevo stesse mentendo, dove altro sarebbe potuto andare?
«Ho bisogno di parlargli».
«Verrà lui, quando sarà pronto», replicò piano.
«Sei venuta per dirmi questo?», non seppi per quale motivo ce l'avessi con lei. Forse perché ci stava tenendo separati.
«Sì, volevo avvisarti», era tanto seria, quasi volesse fronteggiarmi, così si addolcì. «Come stai?».
«Alla grande», mentii, ma era quasi la verità. Mitch sarebbe passato a trovarmi.
«Bene, ti lascio riflettere», con un sorriso triste si voltò lentamente. Forse sperava la fermassi, invece la guardai percorrere il mio cortile e continuare sulla strada.
Non avevo bisogno di riflettere, sapevo già cosa avrei dovuto dirgli. Non aveva spiegato quando sarebbe arrivato, ma sentivo sarebbe stato quel giorno. Fortunatamente mi ero già fatta la doccia, ma ritornai in bagno per lavarmi la faccia e i denti e poi mi truccai.
Volevo cambiare vestiti.
Gli skinny jeans li avrei tenuti, era il maglione che non mi convinceva più. Avevo ancora troppo freddo per mettere un top, però forse con una camicetta me la sarei cavata.
Le scarpe, non sarei rimasta scalza. Gli stivaletti avrebbero dovuti essere asciutti.
Mi fermai un attimo.
Ma cosa stavo facendo? Non mi stavo accorgendo delle assurdità che mi erano passate per la testa? Rimisi gli stivali da dove li avevo presi e mi guardai allo specchio.
Cosa avevo combinato? Non c'era niente di cui essere felice, tutta questa preparazione era fuori luogo, ma che stupida. Mi presi il viso tra le mani non appena mi resi conto di aver trattato malamente Verena. Sperai non se la fosse presa.
Il telefono squillò un'altra volta e minacciai di buttarlo fuori dalla finestra.
«Sì?», sbuffai, esasperata.
«I ragazzi ci stanno, suoneremo a quella festa», Dylan era l'unica persona che aveva mantenuto la lucidità quella giornata.
«Fantastico, lo vado a dire al Comitato», ero sollevata. Era andato qualcosa in porto, alla fine.
«Lo ha già fatto Ced, non preoccuparti. Quindi ci sarai?».
Non lo sapevo, dopotutto non sarebbe stata una buona idea. Non avrei fatto la fine del concerto scorso, assolutamente no, ma non era il caso con tutti i problemi che si erano creati. «Presumo».
«Vedrai, ci divertiremo».
Non ne dubitavo, loro si sarebbero divertiti, io non ne ero più così sicura. Prima avrei dovuto risolvere una faccenda più grave, che solo in quel momento non mi trasmetteva più l'eccitazione di prima. Tutt'altro, mi erano venuti i crampi alla pancia.
«Ci conto».
«Anche io».
«Vado a fare i compiti, ci sentiamo», improvvisai. Strano da dire, ma non avevo voglia di parlare nemmeno con lui.
«Ciao, Ginny», lo sentii allegro e notai che aveva impiegato un po' prima di riattaccare. Pensava lo avessi fatto io per prima, ma ero già nella fase zen che precedeva la tempesta.
Mi sdraiai sul letto, contemplando il soffitto.
Max mi aveva promesso sarebbe andato tutto bene, ma come facevo ad esserne certa? Verena aveva detto invece di essere cauti e pazienti. Non sapevo più a chi credere.
Mitch non si presentò quel giorno e nemmeno il successivo. Iniziavo a dubitare della positività che mi imponevo di manifestare. Lo aspettavo con ansia, tra un compito e un altro. Non immaginavo gli fossero servite così tante ore. Avevamo ancora il libro, avremmo ritrovato il Pugnale. Senza tenere conto che il secondo Elemento non era ancora stato minimamente calcolato.
Arrivai a pensare che se ne fosse tornato all'Inferno, ma Verena me lo avrebbe detto, giusto?
Fissavo il cielo attaccata alla finestra, soprattutto di notte, aspettando di trovarmelo davanti da un momento all'altro.
Momento che non arrivò.
Verena non rispondeva al cellulare, le avevo scritto un messaggio che diceva che se non mi avessero aggiornata sarei andata nel bosco a cercare casa sua.
Poi ricordai un dettaglio, Mitch mi aveva detto che aveva preso lui il telefono di Verena, in macchina. Quindi tutti i miei squilli li stava ricevendo lui, ma siccome non mi voleva parlare non rispondeva.
All'inizio mi ero rifiutata di prendere i contatti di Max, dunque non avevo modo di mettermi in contatto con lui, a parte gridare nella mia testa per farmi sentire, ma dubitavo avesse costantemente le antenne puntate sulla mia stazione.
Pioggia, pioggia, pioggia.
La settimana stava finendo, presto sarebbe ricominciata la scuola e l'istinto mi diceva che non lo avrei visto nemmeno lì.
Si stava facendo desiderare un po' troppo.
No, in realtà ero molto preoccupata. Delle notizie, qualsiasi, avrebbero anche aiutato il mio sonno.
Invece no, ero costretta a immaginare tutto ciò che la mia fantasia più crudele avesse potuto dare.
Un pomeriggio ero indecisa se uscire di casa e fare una passeggiata per il Tiergarten o continuare a stare dentro ad aspettare. Se fossi uscita proprio quando lui avrebbe potuto presentarsi? No, troppo rischioso.
Il pavimento si era surriscaldato, se possibile, a causa della mia schiena che lo copriva. Le gambe le tenevo sopra al letto e così sarebbe stato finché non mi fossi annoiata. O addormentata.
Probabilmente così fu, per un po', avvolta da pensieri che non mi lasciavano in pace.
Poi sentii dei colpi alla porta.
Con la grazia di un elefante mi rimisi in piedi e corsi giù a controllare. Cercai anche di spazzolarmi i capelli con le dita e mi rimasero impigliate prima delle punte. Basta, li avrei tagliati.
Aprii la porta e giurai che se fosse stato il postino gli avrei urlato in faccia.
Ma non era il postino.
Era un viso angelico tormentato dal dolore. Erano due occhi bui e tempestosi che mi fissavano irati. Era una mascella contratta, come il resto del corpo a pochi passi dal mio.
«Gwen, fammi entrare», sbottò.
Mi risvegliai. «Sì, certo», poi mi scansai, permettendo a Mitch di entrare in casa.
«Non voglio essere disturbato, indicami una stanza tranquilla», mi dava ancora le spalle.
«Sì», provai una sorta di imbarazzo. Avevo provato più volte a immaginarlo in casa mia, ancora mi sembrava irreale. Lo superai e lo condussi in camera e poi chiusi la porta. Se i miei fossero arrivati mentre lui fosse ancora qui non avrei destato sospetti e lo avrei nascosto da qualche parte, tipo nell'armadio.
Ah, che pensiero sciocco, ma era colpa del nervoso.
Okay, Mitch era lì, ancora umano o così sembrava.
Cosa mi sarebbe aspettato, adesso?
Mi voltai per guardarlo, con cautela, e mille erano le cose che avrei voluto fare e dire.
«Non ci sono parole per descrivere ciò che hai fatto», dalla sua voce trapelava acidità. Sentii che quella non sarebbe stata la solita ramanzina, era fin troppo controllata, pacata. E allora capii che se si fosse arrabbiato davvero sarebbe scoppiato di nuovo tra le fiamme.
«Io stavo cercando di salvarti», mi difesi. Non volevo alimentare quel suo stato esplosivo, perciò mantenni la calma anche io.
«Tu dovevi fare una cosa sola, niente».
Si allontanò di un passo, aumentando la distanza, e come una calamita lo seguii, bloccandomi poi.
«Avevo paura fossi in pericolo».
Emise una risata sprezzante, portandosi le mani sui fianchi.
Continuai. «Che tu lo creda o no avevo paura quei fulmini ti colpissero», ero stata sincera, lo avevo detto anche a Max.
«Era tutto sottocontrollo!», mi puntò il dito contro e alzò la voce. Quando si accorse che stava iniziando ad esagerare si ritrasse nuovamente.
«Non è quello che avevo visto».
«Non importa cosa tu abbia visto, non avresti dovuto intrometterti!», stava iniziando ad alterarsi, non volevo scoppiasse.
«So cos'hai pensato. Credevi che quella in pericolo fossi io e hai smesso di inseguire il Pugnale», e di colpo realizzai. «Tu hai messo me al primo posto».
Dirlo ad alta voce mi aveva provocato dei brividi su tutto il corpo. Ma la sua reazione mi lasciò più interdetta.
«No», sbiancò nel momento esatto in cui si accorse che avevo ragione e poi la sua espressione sorpresa si indurì. «Tu. Tu non fai mai ciò che ti dico, sei testarda e agisci come ti pare e piace, non prendi in considerazione i rischi e ti butti ad occhi chiusi!», si avvicinò di un passo e feci altrettanto.
«Proprio come te!», ancora non si rendeva conto. «Avresti fatto la stessa cosa». Presi fiato per valutare la sua reazione e assomigliava allo sdegno. «Credi che seguire l'Anima di una persona per tutta la Terra non sia rischioso?», mi avvicinai di un passo. «Credi che rincorrerla per millenni non sia da testardi? Credi che manifestarsi a Giulia non fosse stato come buttarsi? Sì, Verena mi ha raccontato come è andata. Avresti intrapreso questa missione se non avessi fatto di testa tua?», ormai eravamo a un passo di distanza e sentivo il suo calore. O forse ero io che iniziavo a ribollire di rabbia.
«Non osare».
«Cosa? Dire le cose come stanno. Perché?».
«Tu non sai niente».
Mi puntava come se avesse voluto incenerirmi sul posto.
«Non è vero, ormai so tutto, so perché ti comporti così, so perché hai così tanto rancore e so perché ti ostini a cercare quegli Elementi!», alzai il collo per non permettergli di guardarmi dall'alto verso il basso.
«Che tu mi hai fatto perdere!».
«Hai il libro, lo si ricerca, ci saranno nuove coordinate!».
«E' arrivato allo zero, non cambierà più!».
Questo non lo sapevo. Avevo presupposto che essendo un libro magico avrebbe localizzato il Pugnale ovunque fosse. Nessuno mi aveva mai detto che dopo lo zero si sarebbe bloccato.
Non dissi più niente.
«Questa è la differenza tra me e te, io non sono affatto incosciente nelle mie scelte!».
Avrei avuto da ridire, per esempio sul fatto che se non fosse riuscito a sconfiggere Jane non avrebbe più riavuto il suo trono. Ma sarebbe stata colpa mia anche quella, no?
«Vuoi sapere qual era il mio piano?», chiese retorico. «Ti ho portata con me solo perché avevo intenzione di strapparti l'Anima non appena ci fossimo appropriati del Pugnale. Buffo, è stato proprio quello il primo Elemento trovato e tu eri lì. E lo avrei fatto, mi sarei sbarazzato di te se non mi fosse stato sottratto in quell'esatto momento».
Credevo mentisse, lo volevo con tutta me stessa, ma niente di lui mi diceva che avevo ragione io.
Non riuscii a controllarmi e iniziai a piangere in silenzio.
Lui mi guardò come se fossi la persona più debole di questo mondo.
Beh, non lo ero.
Feci per lanciargli una sberla, ma con estrema facilità mi bloccò il polso. Lo strinse con forza, furioso per averlo sfidato.
Non avrei voluto fargli del male, ma avrei dovuto trattenere quella rabbia che mi avrebbe obbligata a sfogarmi. Strinsi il pugno così forte che le unghie appuntite mi crearono quattro solchi nel palmo.
Il nostro contatto visivo non cessò, finché Mitch posò lo sguardo sulla mia mano.
Dei rivoli di sangue erano colati sulle sue dita che ancora mi afferravano il polso.
«O questo o ti avrei picchiato», gli dissi, ignorando quel bruciore che si stava diffondendo e pulsava.
«Ridicolo», commentò.
Strinsi gli occhi a fessura e poi aprii la mano, controllando il danno. Non era grave, era tutto arrossato e solo da un solco era sceso del sangue, i restati erano viola.
D'istinto mi venne da ridere, che scema, tutto lì? Credevo fossi affondata di più con le unghie. Quasi rimasi delusa, mi ero fatta altre aspettative. Però era doloroso e pizzicava e il mio risolino si trasformò in un singhiozzo.
No, era ancora una risata.
Iniziai a ridere forte, senza nessun apparente motivo. L'istinto di continuare mi cresceva da dentro, nient'altro lo aveva scatenato, se non la mia poca sanità mentale.
Mitch, sconvolto, mi lasciò andare il polso.
Che bravo ragazzo, ghignai di nuovo, ma gli accarezzai una guancia. Lo avevo sporcato leggermente e ciò mi fece ridere ancora di più, ne avevo il bisogno. Era così debole.
Pochi secondi dopo il contatto avvertii una scossa ustionante e mi risvegliò.
No.
Mi allontanai da lui, spaventata. Non riuscivo a capacitarmi di quanto successo.
Mi toccai la collana, era ancora al mio collo.
Ero terrorizzata a causa della mia reazione e lacrimai, questa volta consapevolmente.
«Lei è qui», dissi a Mitch, in caso non lo avesse capito.
Cercai di calmarmi. Respirai profondamente e nessuno si mosse.
Mi guardai la mano e la avvicinai alla bocca. Leccai il sangue rimanente. «Mh, dolce Gwen». Mi strofinai il palmo sulla guancia e sulle labbra, continuando a ridere dalla gioia. Mi sentivo in uno stato di beatitudine totale, se non fosse per quell'atteggiamento da pazza che stavo assumendo.
«No!», mi bloccai. Non ero io, era Jane. Com'era possibile, l'incantesimo avrebbe dovuto tenerla lontana. Non volevo tornasse, avrei lottato contro me stessa pur di impedirlo. No, lei non era lì. Non poteva, non doveva. Ma quanto successo non proveniva da me. Non c'erano altre spiegazioni, stava cercando di riacquistare il controllo sul mio corpo. «Aiutami», implorai a Mitch.
Lui era confuso, probabilmente destabilizzato quanto me e non trovai posto più sicuro che tra le sue braccia. Non mi vergognai più, giunta a quel punto avevo raggiunto il picco massimo e piangere sulla sua maglietta non era la cosa peggiore che stava accadendo.
Con mia sorpresa Mitch raggiunse il bagno, trascinandomi dentro. Avevo iniziato a barcollare. Le manifestazioni dopo i tagli erano diverse, o vomitavo, o svenivo, mi si abbassava la pressione e perdevo i sensi, oppure se il sangue era troppo cadevo a terra. Sperai non fosse successo niente del genere, non con Mitch davanti, ma uno dei sintomi, lo sbilanciamento, era già in atto.
Il Demone aveva aperto l'acqua del rubinetto e mi aveva immerso la mano. «Non glielo permetto», aveva bisbigliato, ma forse avevo capito male, il rumore del getto era più forte.
Quando la sua pelle toccò di nuovo la mia si formò una scintilla. Mitch strinse i denti e io diedi una controllata allo specchio, per vedere quanto fossi mal ridotta e quanto sangue avevo in faccia, quando li vidi.
Due occhi vuoti e un'espressione di pura malvagità si era riflessa dall'altra parte.
Urlai, girandomi di scatto e affondando il viso sul petto di Mitch. Non volevo guardare, non riuscivo a crederci. «Jane...», riuscii a dire, gemendo di nuovo.
Lui chiuse il rubinetto e mi portò via.
Avevo mantenuto la stessa posizione e mi sorpresi quando sentii le braccia del Demone avvolgermi la schiena.
Dopo ciò che mi aveva detto non lo ritenni possibile.
«Lei non c'è più».
Le sue parole furono la goccia di troppo e mi lasciai cadere priva di forze.
«Gwen!».
Mi sentii sollevare e poi adagiare su qualcosa di morbido.
Aprii di poco gli occhi e capii di trovarmi a letto.
Mitch era in ginocchio, che mi guardava. I suoi gomiti erano appoggiati al materasso, accanto a me.
Sorrisi e non mi pentii di ciò che feci dopo.
Presi la testa di Mitch e la appoggiai a me.
Li lisciai i capelli e cercai di tranquillizzarlo. «Non la sento più», mi accertai. «Se n'è andata».
In risposta trasse un lungo e pesante sospiro che mi riscaldò lo sterno oltre i vestiti.
Volevo ritornare al discorso di prima, morente com'ero non avrei rischiato di fare danni.
«Ho capito perché mi hai sempre trattata male e con distacco. Non voglio più giudicarti per questo. Sento proprio che ti sto per perdonare. E mi dispiace anche per come sono andate le cose».
Affrontarlo così, completamente vulnerabile, mi stava dando la possibilità di esprimermi nel più dolce dei modi. Era ciò che gli sarebbe servito, l'unica questione era esternarlo.
Alzò la testa e mi guardò confuso. Sbirciai appena il colore dei suoi occhi – limpidi – e poi spostai lo sguardo in alto.
«Non avrai più motivi per allontanarmi, avrò la pazienza necessaria per seguirti e se ciò che vuoi è andarci piano, per me va bene, non è questo l'importante. Io non ho intenzione di andarmene o di scappare o di lasciarti ricominciare da zero, altrove. Questa energia che c'è tra di noi verrà bilanciata, eviteremo tutti i picchi di rabbia o altri che ci fanno star male. So anche perché succede».
«E' la manifestazione di Jane», si affrettò a dire.
Sorrisi, sapevo l'avrebbe detto, ma non mi stavo riferendo a quello. Scossi la testa e lo guardai. Aveva corrugato la fronte.
«Non pensare a lei, pensa a te stesso e ragiona. Ti comporti così perché hai paura. Zitto, non ribattere», lo fermai prima che avesse potuto negare e lo stava per fare. «Tu non hai paura di niente, come fai ad averne, sei un Demone, il Quintogenito di Satana», qui lo presi involontariamente in giro e se ne accorse, alzando gli occhi al cielo. «Ma una cosa la temi più di tutte ed è quella che ti fa agire».
«Perdere il controllo?», suggerì.
«Più grave», sorrisi di nuovo.
Era come se la manifestazione di Jane gli avesse resettato tutte le emozioni negative che provava prima. Mi aveva vista in pericolo, di nuovo, e aveva messo da parte la sua missione per salvarmi, ancora. Questo mi diede ulteriori conferme di ciò che stavo per dire.
«Non c'è nient'altro», palesò.
«Hai paura di innamorarti».
Il suo viso prese un colorito rossastro, ma non il tipico fiammeggiante, più quello che assumevo io quando ero in imbarazzo.
«Non parli più?», lo sfidai.
«Io, non...», per la prima volta non sapeva cosa dire. Il suo potere era crollato, perché in quel momento ero io ad avere il controllo.
«Non vergognartene», lo rassicurai. «Con questo non intendo dire che lascerai l'idea di stare con Jane per qualcun'altra».
Provai di nuovo a guardarlo. Il suo viso si era indurito di nuovo e fu lui ad abbassare lo sguardo. Lo sapevo già, non avrebbe mai rinunciato a lei, ma non era quello il punto.
«Vorrei solo chiarire questo particolare. Tu sai cosa provo per te o, almeno, lo immagini. Ti chiedo solo di non respingermi, a maggior ragione se anche tu dovessi provare qualcosa del genere. Non c'è motivo».
Sollevò di nuovo lo sguardo e quando incrociai i suoi occhi mi diedero l'aria di essere indifesi.
«Sarò più clemente, se è questo che vuoi».
«No, non devi farlo perché lo voglio io, devi farlo perché lo desideri tu».
Quelle parole lo incuriosirono. Non desiderava altro che portare a termine la sua missione, ma non avrebbe potuto utilizzarla come scusa con me. Come aveva detto Verena, io ero l'unica eccezione.
«C'è qualcosa che vorresti fare in questo preciso momento?».
«Sì, continuare la ricerca degli Elementi».
Feci roteare gli occhi. «Non ti smentisci mai».
Parve non capire.
«Okay», continuai, «mi permetterai di venire con te?».
«Devi».
«Anche se ciò non comprende lo sbarazzarsi di me?».
«Già, io...», fece un respiro profondo, come tutte le volte in cui doveva prendersi del tempo per parlare. O in questo caso, per avere coraggio. «Mi dispiace se ho detto quelle cose», guardò oltre il letto, verso la finestra. «Ero molto arrabbiato».
«Ti ho già perdonato», gli sorrisi, anche se non mi stava guardando. «Per prima cosa recupereremo lo Scrigno, poi penseremo a come riprenderci il Pugnale. So che pensiate sia l'Esiliata la ladra».
Catturai la sua attenzione. Mi stava decifrando, scrutando la mia espressione nel dettaglio. Oppure si era perso tra i suoi pensieri e si era dimenticato lo sguardo su di me.
«Vorrei... niente», conclusi. Quanto avrei voluto alleggerirgli la testa. Se ci fosse stato un modo lo avrei già messo in atto.
«Sì, probabilmente è stata lei. Tempo fa ho dovuto uccidere Demoni che appartenevano a me, che erano sotto il mio comando, ma in realtà avevano riposto la loro lealtà altrove, chissà da quanto. Credo ci sia lei dietro questo. E con il fatto che lei voglia anche te, non credo sia per ucciderti. Lo pensavamo, finché non si è appropriata del Pugnale. Vorrei solo capire il motivo», era davvero immerso nella sua frustrazione e quel problema non gli si era mai presentato prima. Un'altra cosa da aggiungere alla lista delle fatiche.
«Anche lei vuole riportare in vita Jane?».
«Immagino di sì, ma perché?», si stava alterando.
«Non lo so. Mi dirai mai chi è l'Esiliata?».
«Non ora», decise.
«Allora lo farai alla festa di Halloween?», mi guardò spaesato. Forse loro non festeggiavano come noi, neanche la celebrazione più macabra della storia. «Ci verresti con me?», proposi.
«No».
«D'accordo», mi rattristii, ma come avevo spiegato prima, non mi arrabbiai, andava bene. Forse per lui significava correre troppo, farsi vedere accompagnato da me. «Ti chiedo ancora, cosa desidereresti fare in questo momento, con me?», specificai.
Questa volta capì le mie parole e sapeva non mi stavo riferendo a nessun Elemento o faccende dell'Inferno. Abbassò le spalle e cercò di rilassarsi. Nei suoi occhi vidi lo stesso principio di impazienza che provava dei confronti del tempo. Come se avesse voluto fare tutto di fretta, ma le condizioni umane lo bloccassero.
Lentamente, come se stesse rivalutando più volte la sua decisione, si sporse verso di me. Io non mi mossi, ma il cuore mi salì in gola quando mi sfiorò l'orecchio con le labbra. «Proteggerti».
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro