Capitolo 15
Saltai atterrando su rametti che vidi benissimo, compresi gli enormi arbusti che ci circondavano. Il terreno era coperto da centinaia di foglie secche che continuavo a pestare, guardando per aria, incapacitata di stabilire un orario. Il sole era sorto da un po', lo vedevo debole, ma alto. Sentivo il rumore dell'acqua che scorreva, dietro di noi fluiva un torrente dell'Haidelbach. Se Max non fosse stato attento ci saremmo finiti dentro. Faceva un sacco freddo, la temperatura era calata notevolmente, anche se era palese.
«Davvero ci abbiamo impiegato una notte?», tremai.
Tutti e tre erano alle prese con il libro, scrutandolo e toccandolo come se fosse stato di diamanti.
«Ehi?», cercai di attirare la loro attenzione, scaldandomi come meglio potevo e barcollando a destra e a sinistra.
Niente, avevano iniziato a sfogliarlo prestando la massima cura, cercando ciò che serviva a loro. Immaginavo sarebbe andata così. Ma essere ignorata totalmente sembrava esagerato. Dai, ho freddo.
Max con nonchalance, sempre con gli occhi fissi sulle pagine, fece roteare una mano e piccole fiamme vennero lanciate contro dei rami ai miei piedi, creando così un piccolo falò. Non c'era molto da bruciare, ma il fuoco era molto ardente e alto tanto quanto me. Restai accigliata, ma almeno mi scaldai.
Volevo controllare il telefono, ma dovevo averlo lasciato in auto e non avevo idea di dove fosse parcheggiata, da quella postazione. Certo, se fossi scappata a controllare nessuno se ne sarebbe accorto, a parte lo scoppiettio del fuoco, il ruscello e il rumore delle pagine che venivano girate, l'unica fonte di distrazione erano i suoi del bosco. Persino chi sapeva leggere nella mente non si sarebbe accorto della mia fuga.
Figuriamoci, non sarei andata da nessuna parte, non avevo il giusto senso di orientamento e soprattutto stavo bene al calduccio.
Però iniziavo ad annoiarmi.
Anche io ero curiosa di leggere quel libro e così mi unii al gruppo, sbirciando sulle pagine che vedevo al contrario. Ero davanti a Mitch, ovviamente era lui a tenerlo ben saldo nelle sue mani, con Max e Verena ai rispettivi lati.
Riuscii a vedere bene cosa c'era scritto, erano magnifici simboli dipinti in oro brillante. Ma non sapevo affatto come decifrarli, sembravano geroglifici.
«Sapete tradurli?», provai a comunicare, troppo vicina per essere ignorata. Con mia sorpresa, anche a un passo da loro non venivo calcolata. Va bene, va bene. Ritornai davanti al mio fuocherello personale, almeno le sue fiamme mi davano soddisfazione.
«Trovato!», urlò Verena, facendomi spaventare.
Mi accalcai a loro e fissai il punto che lei indicava, ma tanto erano geroglifici anche quelli e non riuscivo a leggere niente.
Max si mise a sghignazzare.
«Che c'è?», chiesi e questa volta mi rispose.
«Prima la bella o la brutta notizia?», sempre esibendo quel suo sorriso sghembo.
«La bella».
«Abbiamo le coordinate di ciascun Elemento».
Bene, era un ottima notizia, esattamente ciò che serviva, perfetto.
«Quindi la brutta?», erano distrutti? Inaccessibili? All'Inferno?
«Avremo bisogno di te ancora una volta», questo non lo avevo calcolato.
«Entschuldigung?», come, scusa?
«Sarà l'anima dentro di te a indicarci la strada», mi spiegò Verena, mentre leggeva frettolosamente. «E' l'unico modo per trovarli».
«Già, altrimenti non usciranno allo scoperto. Ah, che fessi quelli del Consiglio, hanno aggiunto questa clausola puntando al fatto che non avremmo mai trovato l'anima di Jane!», Max non aveva abbandonato quell'aria vispa e beffarda.
Mitch non parlava, di solito era piacevole il suo silenzio, ma in quel caso metteva ansia.
«Adesso sono diventata un radar?».
«Tenerti in vita sarà molto più difficile», bisbigliò Max con una sorta di ironia. Io lo sentii comunque e il fatto che Mitch non si espresse neanche in quel momento non era normale.
«E dove sono ubicati?».
«Uno sembrerebbe molto vicino, il che è a nostro favore. L'altro invece è fin troppo lontano, ma lo sapremo meglio con un'applicazione del telefono. Ah, che bella la tecnologia!», Max si tastò la felpa nera e cercò nelle tasche dei pantaloni, a quanto pareva a nessuno era venuta in mente l'idea di portare il cellulare. «Tra qualche istante». Guardò Verena, ma scosse la testa. Mitch non aveva nemmeno l'aria di possedere un telefono.
«Torniamo alle macchine, quindi?», chiesi trionfante.
Max mi squadrò per un momento e mi puntò il dito contro. «Sì».
Lasciai che i Demoni facessero strada e poi non ebbi più paura. Era quasi rilassante passeggiare per il bosco, escludendo tutti i pensieri terrificanti della gita del secolo. Ritornare viva a Leinburg mi aveva dato speranza e una nuova sensazione. Avrei potuto farcela, non era stato difficile. Vivere non era mai stato così piacevole.
Mi brontolò lo stomaco sonoramente.
«Ahm, ragazzi, so che a voi non serve, ma io necessito di soddisfare i miei bisogni fisiologici».
Mitch girò appena la testa per regalarmi uno sguardo imbronciato. Scusa se ho fame. Gli feci la linguaccia, brutto insopportabile antipatico.
«Non biasimarla, sono giorni che non mangia, il suo corpo ne ha bisogno per proseguire», Verena aveva un tono leggermente esasperato. Aveva detto giorni?
«Già, immaginate che sopravviva agli attacchi nemici, ma che muoia qui con noi per digiuno», Max aveva fatto una battuta. Perché sì, era una battuta, per favore.
«D'accordo», questo bastò per scatenare i sensi di colpa a Mitch.
Ma anche i miei. «Non importa, dai, alla fine ieri ho mangiato tanto», prima di rimettere tutto.
«Forse non ti è chiaro che il tempo non esiste», continuò Max.
«Eh?».
«E' un'illusione», spiegò Verena con molta calma, «ieri, se così vogliamo definirlo, è stato infinito. Non è passato un secondo, ma nel tuo Mondo fatto di dualità questa avventura è durata sette giorni». Sorrise, come se fosse la cosa più normale.
«E' passata una settimana da ieri!?», urlai. La mia voce fece spaventare qualche uccello che volò via, provocando rumori tra i rami.
«Sì, voi percepite tutto in modo diverso».
E ne avevo avuta la prova. Non stavano mentendo, arrivati all'auto di Mitch, sempre parcheggiata tra i primi arbusti della boscaglia, recuperai subito il mio telefono nello zaino. O si era verificato un bug oppure era veramente l'11 ottobre. E avevo il 10% di batteria. Staccai l'adattatore dal cavo e lo infilai nella presa USB dell'Audi.
«Mitch?», se non avesse acceso il motore non si sarebbe caricato, ma era inutile che mi guardava male, avrebbe dovuto comunque far partire l'auto. Chiusi la portiera e mi allacciai la cintura, consapevole delle manovre spericolate del Demone persino nei posti meno indicati. «Ora che si fa?».
«Si ritorna a Berlino».
Con una retromarcia degna di montagne russe e diverse giravolte in cui venni sbattuta a destra e a sinistra, il caro sovrano ebbe l'idea più meravigliosa di sempre: prendere la strada asfaltata. Attraversammo i campi per imboccare Nürnberg Straße.
Avrei tanto voluto salutare Sarah e Larysa e dire che stavo bene, che probabilmente ci saremmo riviste ancora, e rassicurare i miei genitori, ma sicuramente non era nei piani.
Stavamo rientrando in paese, ad una velocità che non mi permetteva di distinguere il verde dei prati al susseguirsi di case. Io sapevo che infondo alla via ci sarebbe stato un incrocio, cui avremmo dovuto dare precedenza, ma il guidatore non ne era tanto convinto. Mitch svoltò ad una precisione terribile verso sinistra, passando per Hauptstraße. Finché non avremmo preso l'autostrada io sarei stata in pericolo. Avevo anche ricevuto un messaggio, ma preferii non leggerlo per il momento. Scorsi velocemente il nome di Dylan e basta. Chissà se aveva provato a chiamarmi o a interessarsi alla mia pseudo vacanza. Con lui non avrei mai dovuto preoccuparmi di dire la frase sbagliata o toccare un argomento sbagliato. Era così facile, mi faceva dimenticare l'incubo in cui ero finita.
C'era una rotonda davanti a noi, ma Mitch non la vedeva. Tutta questa sua sicurezza al volante mi tranquillizzava solo dal momento che la strada era deserta. Ormai eravamo sulla St2240, avevamo passato anche Diepersdorf. Ancora una rotonda e qualche curva e saremmo entrati sulla A9, dove avremmo passato le restanti 3 ore e mezzo, forse la metà.
«Aspetta, prima voglio mangiare», dissi prima che fosse troppo tardi, non ricordavo un autogrill verso casa.
«Hai sentito Verena, è tutto nella tua testa».
Non aveva detto proprio quello. Anche se non avevo percepito la settimana avevo comunque fame come quando si ha da un giorno all'altro.
«Se non mangio sto male», lo fissai negli occhi, ma era impietrito davanti alla strada.
«Resisti».
«Adesso la chiamo», sollevai il telefono e cliccai il contatto di Verena.
«Ho io il suo telefono».
Era impossibile comunicare con lui, mi azzerava completamente nel giro di un secondo. Narcisista.
«Fermati», gli ordinai.
«Non ci penso neanche», la sua voce severa si era alzata.
«Invece sì», afferrai la maniglia della portiera.
«Cosa fai?», finalmente una sua reazione degna.
Eravamo circondati da alberi, le uniche abitazioni spuntavano qua e là dopo diversi metri. Oppure ero io a percepirli come metri, per via della velocità, e in realtà erano chilometri. Quanto male mi avrebbe fatto cadere? Probabilmente sarei morta sul colpo, perfetto.
«Fammi mangiare».
«Non c'è tempo», sbraitò.
«Hai detto che non esiste», ammiccai.
«Sì, sulla Terra».
Guardai il contachilometri, la lancetta era scesa di un po', ma superavamo comunque i 100 km/h. Era tutto così scattante con l'R8.
«Ti chiedo solo cibo e acqua», pensa se avessi aggiunto una doccia, ce ne saremmo andati il giorno dopo. «Non svoltare». Sarebbe stato l'ultimo paese prima dell'autostrada, se avesse girato sarebbe stata la fine.
«No!».
«Non svoltare!».
«Smettila!».
«Vai dritto o mi butto!».
Con un ringhio accelerò proprio sulla nostra uscita, facendomi risucchiare dal sedile. Superò anche le altre auto che incontrava, senza badare a nessuno e girò a destra per Schönberg. Guardai dallo specchietto e Max ci aveva seguito, titubante e fece un segnale con i fari. Nel frattempo Mitch aveva accelerato ancora, percorrendo il lungo rettilineo alberato ad una velocità probabilmente proibita. Stavamo tornando indietro per un verso.
«Da che parte devo andare», sibilò lui a denti stretti, con una voce per niente umana.
Ripresi fiato prima di parlare. «All'incrocio... vai a sinistra...». Promemoria, non salire mai più in macchina con Mitch.
Senza guardare da nessuna parte girò.
«E ora?», chiese con lo stesso tono di prima.
«Sempre dritto... ti dico io quando fermarti», mi tenni salda al sedile, sentivo che la cintura non avrebbe evitato che mi scontrassi contro il parabrezza.
All'incirca conoscevo i paesi confinanti al mio, capitava di fermarsi qualche volta, anche se erano piccoli e in mezzo al nulla.
«Adesso, sulla sinistra».
Presi in mano anche la maniglia e appena ebbi l'occasione uscii fuori. Era stata una frenata molto controllata, anche per evitare di andare a sbattere contro altre auto parcheggiate. Mi misi in spalla lo zaino e corsi dentro il supermercato. Cazzo, stavo tremando come una foglia e la testa non smetteva di girarmi. Prima di entrare sentii Max arrivare e un'altra portiera sbattere.
Era molto piccolo come negozio, casereccio, ma sarebbe andato benissimo. La prima cosa che si poteva vedere era frutta e verdura, ne era pieno, ma avrei avuto bisogno di un'altra occasione per fare la macedonia. Corsi prima verso l'acqua e presi un pacco intero di bottigliette, sarebbero servite per evitare scene come poco prima.
Ovviamente non mi sarei mai buttata, ma era un bell'incentivo per farmi ascoltare da chi non ascoltava nessuno se non se stesso.
Cibo, cibo, cibo. Il mio stomaco creò l'eco dentro quell'ambiente così fresco da far venire la pelle d'oca. Come se già non l'avessi.
Panini già preparati, perfetti, quanti avrei dovuto prenderne, tre o quattro? Ah, vada per quattro. Ormai non facevo altro che mangiare quelli. Se non fosse stato per l'Art Festival, sarei morta sommersa da panini!
Al diavolo, chi se ne fregava dell'alimentazione in quel momento, l'importante era mangiare.
Andai alla cassa, dove recuperai qualche barretta snack e pagai. Ne approfittai brevemente anche per andare in bagno e cambiarmi i vestiti, scegliendo casualmente uno dei vestitini di Verena e coprendomi con una giacca in pelle nera.
Quando tornai dai Demoni li vidi complottare qualcosa a bassa voce, molto vicini tra loro. Scartai il primo panino e iniziai a mangiarlo, non era mia intenzione creare tutto quel trambusto per poi attendere ancora di pranzare. In effetti si trattava solo di un buco allo stomaco, non stavo morendo, ma ho dovuto farlo o la guida di Mitch avrebbe peggiorato la mia situazione stomacale. Non mi ero accorta di aver preso il gusto tonno e maionese, era abbastanza decente.
Mi avvicinai cauta, non capivo di cosa stessero parlando nello specifico e sperai non di me.
Quando fui molto vicina capii perché non sentivo nulla, erano tutti zitti a fissare il telefono di Max.
«Abbiamo la prima locazione», affermò il moro. Aveva inserito le coordinate su un sito ed era saltata fuori una località. «Aspettate... i numeri sono cambiati!».
«Come sarebbe a dire?», Mitch non aveva per niente ritrovato la sua calma interiore.
«Non lo so, le ultime cifre stanno cambiando!», Verena teneva il manufatto in mano e intanto controllava il telefono di Max. «E anche molto velocemente».
«Perché?», urlò il biondo. Io non sarei salita in macchina con lui, costava quel che costava. Anzi, forse no, tenendo conto dei loro pagamenti.
«Credo sia un'energia, guarda!», Max avvicinò il cellulare al viso del Demone e così vidi anche io, dietro di lui, cosa stava succedendo. Erano su Google Maps – che io odiavo per via di quella volta con gli uomini ubriachi – e lo sfondo era tutto azzurro.
«Si trovano sott'acqua?», esclamai, senza considerare se fosse stata una buona idea o no.
«Ah, ecco cos'è», lo Stregone sghignazzò, bene, buon segno, ma lui rideva sempre. «E' la corrente che lo fa muovere».
Mitch trasse un lungo, pesante e sonoro sospiro. Davvero, non avevano capito che quella era acqua?
«Scusaci umana, ma non veniamo tanto in contatto con i vostri materiali», mi rispose Max e non aveva tutti i torti, avrei dovuto calmarmi anche io, c'era troppa agitazione nell'aria.
«Va bene, quindi dove si va?».
Tutti e tre si guardarono in faccia, o perché si trattava di un luogo pericoloso o perché ancora non sapevano che fare, ma lo esclusi. Avevano avuto dieci minuti per mettersi d'accordo e bastava solo seguire il navigatore.
«Ci conviene fermarci lì e poi proseguire a nuoto», se questa frase fosse provenuta da Max mi sarei messa a ridere, ma era stata Verena a parlare e lei non scherzava tanto facilmente su queste cose.
«Siete matti?», avevo in testa ben più di dieci motivi per cui quel piano faceva schifo.
«E' l'unico modo, o così o aspettiamo che l'Elemento si avvicini», anche lo Stregone concordava, ma almeno la sua idea era migliore. Se Maometto non va dalla montagna, sarà la montagna ad andare da Maometto.
«No, si agisce subito», ma Mitch non aveva pazienza per nulla. «Tutti in auto».
Io che non avevo seguito il discorso sin dall'inizio non avevo capito niente, ma questa non era una novità. Mitch non mi aveva rivolto la parola per tutto il tempo, sarei dovuta salire con lui di nuovo?
«Aspettate», Verena si fece avanti, che gioia, mi sarebbe servita la sua compagnia. Frugò nella sua borsa che teneva sotto il sedile e tirò fuori tre carte d'identità. «Cerchiamo di rimanere in regola». Consegnò le due ai ragazzi i quali le controllarono subito.
«Reinhärt?», Max fece una smorfia. «Non sono così basso e i miei segni particolari sono i superpoteri, quante volte te lo avrò detto di scriverlo?».
Documenti falsi, ma certo.
«Questa foto è orribile, non sei capace, hai sbagliato angolatura», continuò il ragazzo.
«Guarda che te la sei fatta da solo», si difese Verena e poi guardò la sua. «Io avevo ancora i capelli blu».
«Tu ce l'hai?», mi chiese Max e non capivo che aveva da ridere stavolta.
«Sì, nel portafogli».
«Bene, Gweneveve».
Impallidii, chi glielo aveva detto? «Oh mio dio, ti prego, non dirlo mai più», sussurrai seccata.
«E' stupendo», sorrise la rossa.
Avrei voluto negare, ma Mitch aveva acceso il motore e mi fece saltare in aria dallo spavento. Neanche mi ero accorta della sua momentanea assenza.
Max e Verena si fiondarono nella loro auto e a me non rimase che l'ultimo sedile libero.
Attesi che il Demone finisse con le sue manovre spericolate, prima di aprire una bottiglietta e bere.
A tutta velocità, in quella stradina pericolante tanto quanto la sua guida, Mitch imboccò finalmente l'autostrada. Si trattava ancora della A9 e se avevano parlato di acqua di sicuro sarebbe stato un viaggio lungo.
Quando la velocità era regolare, ovvero tranne quando Mitch superava anche sulle corsie veloci creando dei veri e propri slalom della morte, il viaggio era anche piacevole, lineare. Ero costretta a sprofondare sullo schienale del sedile, ma era molto comodo, riusciva ad avvolgermi grazie al suo design. Se avessi chiuso gli occhi sarebbe stato uguale al lunapark.
Uno vero, non quello in disuso a Berlin.
Ciò che mi mandava in paranoia era quel silenzio imbarazzante. Di solito apprezzavo i viaggi tranquilli, ma con Mitch anche la cosa più calma e pacifica sarebbe stata percepita come strana. Sì, quel silenzio era strano, c'era attrito in mezzo a noi.
Ma non era neanche la realtà, semplicemente non avevamo niente da dirci.
Beh, io avevo ancora molte domande, ma avrei preferito quella sensazione che il non parlarci per via di un'eventuale litigata. Ed era inevitabile, non si poteva ragionare con lui.
Non ce la feci. «Perché lo hai fatto?».
«Cosa?», la sua voce era seria e ferma, non più come prima. L'idea di seguire una traiettoria sicura lo aveva calmato, ma sembrava sempre mi stesse rimproverando.
«Rinunciare al trono, alla tua vita», mi dispiaceva per lui, anche se non lo si vedeva.
«Non ci ho rinunciato».
«Lo hai messo in palio per avere il libro», che in quel momento era custodito da Verena. «E non solo, anche i tuoi amici saranno privati dei loro poteri».
«Se e solo se fallissimo».
La sua posizione non ammetteva emozioni. Era rimasto impassibile, proprio come davanti agli Arcturians. Come se non gli importasse niente. O forse era solo troppo stupido da non tollerare la sconfitta, di non prenderla nemmeno in considerazione. Ma io che ne potevo sapere, era impossibile decifrarlo davvero.
«Gli Arcturians hanno mai sbagliato le loro previsioni?», qualcosa non mi quadrava, era troppo facile così.
«No».
Ecco, appunto. «Quindi sarai consapevole che questo tuo comportamento non regge», cercai di farmi capire e di farlo ragionare, con calma, senza sbottare.
«Non so a cosa ti riferisci».
«Pensaci, gli Arcturians stessi ti avrebbero dato un permesso così grande senza un loro tornaconto?».
«Senti ragazzina, quello che dici va ben oltre le tue capacità comprensive, fai solo il tuo dovere e tieni la bocca chiusa!».
Sussultai, ma non mi arrabbiai, cercai di rimanere lucida. Era difficile gestire le mie emozioni e questo il Demone non poteva saperlo. Fino a poco tempo fa avevo vissuto la mia vita sotto il volere di un'altra, con un atteggiamento che non mi apparteneva. Ogni tanto, per abitudine, quel carattere tornava senza che io avessi avuto modo di fermalo, ma avevo deciso di impegnarmi. Manifestavo dei veri sbalzi d'umore, come mi stava capitando in quel momento. Era come se tra una manifestazione e l'altra si creasse un vuoto, che mi serviva per decidere quale sentimento far prevalere. Più avrei dominato questa capacità e più avrei trovato la mia vera identità. Era un esercizio difficile, soprattutto con una testa calda come Mitch, ma di sicuro l'insegnante migliore per l'autogestione.
Respirai profondamente. «Sto solo dicendo che secondo gli Arcturians avresti mentito», lo guardai, ma non si era mosso di un millimetro da prima. Era rigido, in testa a una corsa automobilistica inesistente. «Perché?».
Premette le mani sul volante, così forte da poterlo sciogliere.
«Tu non sai niente».
Lo so, feci roteare gli occhi involontariamente. «Allora spiegamelo».
Forse non era pronto, ma poteva fidarsi di me. Non lo volevo obbligare, sentivo che questa storia sarebbe stata diversa rispetto al racconto d'introduzione.
Aspettai, girandomi di lato, per poterlo guardare meglio. Il sedile era così grande che potei rannicchiarmi a riccio e stare comoda.
Avrei voluto dargli un segno, un incentivo. Volevo fare una cosa, ma avevo paura. Quanto sarebbe stato rischioso? Mi sarei fatta male? Lo avrei fatto a lui? Non riuscivo a pensare a una cosa del genere. Mai gliene avrei fatto, perché sapevo che avrei sofferto anche io.
Tentai comunque e allungai un braccio verso di lui. Le mie dita lentamente si aprirono, avvicinandosi sempre di più al suo, scoperto. Sentivo il calore che emanava e non era il riscaldamento. Appoggiai la mano sulla sua pelle e la feci scivolare verso il suo polso. Mi scaldai ancora di più e nel giro di un secondo avvertii un brivido sulla schiena che mi fece scuotere e, così, staccarmi da lui.
Anche Mitch lo aveva sentito e non lo ritenni possibile. I suoi occhi si erano strabuzzati e la sua espressione era sorpresa.
Quel contatto mi aveva spaventata, ma era stato piacevole.
«Scusa», bisbigliai.
Le sue mani si erano alleggerite sul volante. La velocità leggermente diminuita, eravamo sotto i 200 km/h.
Ritornai a farmi gli affari miei.
«Jane non ha perso la ragione dal nulla».
La sua voce si era affievolita, era morbida e delicata. Non era per niente la sua voce abituale. Questa era calda e ammaliante. Pregai continuasse a parlare.
«Non è stata neanche colpa sua».
Mugugnai qualcosa, segno che stavo ascoltando.
«Le sue azioni sono state causa di vendetta, non era sua intenzione far nascere quel pericolo. Ha compiuto tutti i suoi gesti in risposta a un torto pesante che lei stessa ha dovuto subire. Si è infuriata con mio Padre per quanto accaduto prima, minacciandolo di farlo crollare per ciò che le era stato tolto. Si è solo difesa. Abbiamo cercato di contenerla e per un po' c'eravamo riusciti, ma la sua volontà era più forte della nostra. Le emozioni negative prevalsero il doppio sulla ragione e non ci è stato dato il tempo necessario per agire correttamente. Hanno preferito estirpare il problema alla radice, prima che si diffondesse, così come era già stato fatto in precedenza. Ti sorprenderebbe sapere che Jane in tutto questo è solo una vittima, non l'artefice. E io sto cercando di mostrarlo, anche se mi è difficile, ma credo che Max sappia leggermi dentro più dei Saggi e di loro non mi importa.
Io so quello che devo fare e Jane mi aiuterà. Le cose cambieranno, ma c'è una cosa che ancora non capisco. L'Esiliata dovrebbe essere da tutt'altra parte, non dovrebbe interferire con il nostro operato. Non mi fido, so che c'è qualcosa che non mi vogliono dire. I miei ordini non sono più efficaci come un tempo e c'è chi si sta scagliando contro di noi per impedirmi di compiere il mio volere. Ma io ho tutto sotto controllo, so esattamente cosa fare e lei non me lo potrà impedire, mai, perché lei è e rimarrà sempre e solo una concubina che...».
Non riuscii a sentire altro, la voce di Mitch mi aveva cullata a ritmo regolare e man mano le mie palpebre si fecero più pesanti. Cercai di restare sveglia, emettevo versi stanchi come risposta alle sue parole, non lo volevo interrompere. Stava dicendo cose importanti, finalmente una piccola parte di verità, ma io ero troppo debole per continuare a sentire. Pregavo che la mia mente continuasse ad essere vigile anche con gli occhi chiusi, ma dopo pochi minuti non udii più alcun suono e non me ne accorsi neanche.
Non avevo mai visto quel palazzo, non sapevo nemmeno come avevo capito che lo fosse, ma mi sembrò di esserci stata diverse volte. Mi trovavo in piedi, all'ingresso, che conduceva a una sala completamente rivestita di pietra, come il resto dell'architettura.
Enormi balaustre si alzavano lungo il perimetro, ognuna con un simbolo inciso. Ogni colonna rappresentava una Divinità Demoniaca e nelle rientranze del muro ergevano le loro statue, dal Rango più alto a quello più basso. Non le avevo mai viste prima, eppure nella mente ripetei i loro nomi in ordine: Agares, Amon – volevo urlare, ma non feci nulla, perché sapevo già che la statua di Mitch non avrebbe approvato – Asmodeus, Thoth, Osiris e poi mi focalizzai su una donna. Non era l'unica, ce n'erano anche altre, come Morax, ma restai a guardarla. Sembrava bella, i suoi capelli erano molto lunghi e anche se erano fatti di rame davano l'aria di svolazzare. Non tutti avevano un animale al loro fianco, ma lei sì, più precisamente era stata avvinghiata da un lungo e grosso serpente. Di fianco a lei c'era un uomo, le uniche due statue vicine. Lui non aveva segni particolari, se non uno: le sue ali erano a terra. Sopra c'era l'inconfondibile sigillo di Satana, chiamato però Lucifero.
Sotto le loro figure c'era una porta antica, in ferro battuto. Mi ci fiondai, sapevo che avrei dovuto andare lì dentro. Ma quando la varcai, urla strazianti femminili invasero il lungo corridoio nero. Quelle grida di dolore mi fecero venire i brividi su tutto il corpo.
Sentii una risata, la voce era familiare.
«Aiutami», la donna aveva parlato.
«Sai bene da che parte sto».
Non riuscivo a vedere niente, così decisi di correre. Sarei arrivata prima, qualunque cosa fosse successa, ma quel tunnel non finiva mai. Finché la vidi, un'altra porta. Con una spinta la aprii, ma invece di trovare la fonte delle voci precipitai nel buio più totale.
«No!», urlai, svegliandomi di soprassalto. Il cuore mi pompava in ogni singola parte del corpo, mi sembrava di aver fatto bungee jumping senza corda. Mi tirai su dal sedile, ero scivolata in fondo.
«Ben tornata».
Di certo avevo recuperato il sonno arretrato di una settimana, ma avrei voluto fosse stato più piacevole.
«Quanto ho dormito?», avevo la voce impastata, così bevvi. Eravamo ancora in autostrada, il sole si era abbassato e il cellulare segnava pomeriggio inoltrato. Il messaggio di Dylan, diceva:
Come stai passando la vacanza?
Gli risposi subito, per non dimenticarmene ancora.
Sembra quasi sia volata.
E non avevo tutti i torti, metà se n'era già andata e non mi ero rilassata neanche per un momento.
«Chi è?».
Mitch mi aveva visto scrivere, ma non era riuscito a leggere, per fortuna o saremmo andati fuori strada.
«Un mio amico», a proposito di strada, finalmente una svolta. I cartelli dicevano Magdeburg e Mitch aveva seguito una strada sulla seconda corsia che portava all'uscita Hannover/Braunschweig. Eravamo dalla parte opposta di Berlin, sulla A2.
«Che cosa hai sognato?», dal suo discorso sembrava qualcosa fosse cambiato, era più tranquillo e l'energia tra noi divenne pacifica. Ovviamente non avevo sentito la fine del racconto, quindi necessitavo di un riassunto.
«Delle statue, un corridoio buio e poi cadevo», non ricordavo molto altro, specialmente i nomi che, probabilmente, mi ero immaginata. Compresa la discussione improbabile. «Non ho sentito la conclusione della storia, puoi ripeterla?».
«No».
«Perché no?», mi lamentai.
«Avevo bisogno di sfogarmi, ora non serve a niente ricordare ulteriormente. Se non hai sentito non è un mio problema».
Anche se non mi stava sgridando trovai il gesto come una punizione. «Non è giusto».
«Per quel che ti importa», respirò profondamente e chiuse gli occhi per un istante.
Non avrei dovuto arrabbiarmi, non avrei dovuto arrabbiarmi. «Stai scherzando!? Insisto ogni giorno perché voglio sapere e quando finalmente abbiamo l'occasione di parlare mi fai passare per una che non ci tiene? C'è la mia vita in ballo!», come non detto, litigare con lui? Pff, un minuto sì e l'altro pure.
«Piantala», si era pure stufato di urlare, adesso aveva intenzione di tenere sempre quel tono da professorone con me? «Voi umani».
«Come, prego?», dovevo ancora imparare a gestire la rabbia o forse non dovevo. Io ero così, punto. O in realtà ero molto gentile? «Oh, adesso basta! Sei insopportabile!».
«Io insopportabile? Chi è che si addormenta durante...», non lo lasciai finire e gli parlai sopra.
«Non tu! La mia testa! Ora non sono più stanca, vuoi parlare, facciamolo!», non avrei dovuto urlare così, che stavo facendo.
«Dopo».
«Dopo?», stavo tremando dal nervoso. «Quando?».
«Dopo».
Se non fosse stato un Demone, se non fossimo stati in autostrada e se non avessi avuto la collana lo avrei squartato vivo.
Ero troppo instabile, lo riconoscevo.
Mi tenni stretto il ciondolo, non volevo succedessero cose spiacevoli. Lo sentii strano, più ruvido.
Avrei dovuto pulirlo, ma sarebbe stato meglio aspettare Max.
Accesi la radio, dovevo distrarmi. Il volume era troppo alto e lo lasciai al minimo, tanto con quelle casse si sarebbe sentito tutto. E bastava per coprire il silenzio, a sto giro nauseante.
Dalla cerniera in basso dello zaino presi una barretta snack al cioccolato e feci merenda.
«Voi non mangiate?», la domanda uscii involontariamente, non controllai nemmeno il tono sprezzante.
«E' irrilevante».
Lo sarà, quando perderete le capacità demoniache.
La mia mente era diventata complicata, volevo loro bene, ma certe volte avrei preferito fallissero e che io vivessi normalmente.
No, troppo crudele persino per me.
Troppo crudele, ahm, riflettiamo un attimo, se loro non avessero alimentato una certa vendetta per Jane, di sicuro lei non sarebbe stata trasformata in un fantasma vagante tra corpi.
«Oddio», sbuffai e alzai il volume della radio quanto bastava a far zittire i miei pensieri.
«Sei diventata sorda?», Mitch abbassò subito, ma la musica aveva cambiato funzione. Non serviva più a mascherare il silenzio, ma a interrompere la mia vocina interna.
«Certe volte lo vorrei, per non sentire certe cose».
Mitch espirò rumorosamente. «Okay, mi... dispce...».
«Come?», avevo capito bene, il suo respiro si stava forse scusando? Erano uscite parole biascicate dalla sua aria.
«Mi dispiace».
Divenne tutto rosso e teso nel giro di un secondo, oh no, non esplodere qui in macchina.
«Anche a me».
Troppa pressione, mi sentivo soffocare. Spensi il riscaldamento, ma non era quello il problema. Beh, spegnere Mitch sarebbe stato alquanto difficile. Abbassai il finestrino, ma andavamo troppo veloci e fu insopportabile.
Mi concentrai sul mio respiro, calmo e rilassato. Avevo avuto come la sensazione di un tonfo al cuore. Tutta la pressione mi era scesa, non avevo più battiti, per poi risalire di nuovo e facendomi venire capogiri. Fortunatamente ero già seduta o sarei svenuta.
D'un tratto la mia attenzione si spostò sulla musica e dall'isteria generale mi venne da ridere.
«Che ti prende adesso?», mi era parso di sentirlo vulnerabile, ma forse era solo la mia impressione.
Alzai il volume di poco, tanto per esserne certa. «Questo è Samy Deluxe, io, Sarah e Larysa cantavamo questa canzone circa dieci anni fa», quanti ricordi. «Si chiama Hamburg».
«Ma che coincidenza», per la prima volta dopo secoli Mitch si mise a ghignare.
Era stramaledettamente bello.
Poi scosse la testa. «Gweneveve».
«Sì, cosa, ehi!», era difficile chiamarmi solo Gwen?
«Ho detto che stiamo andando ad Hamburg».
Non avevo sentito, di nuovo la concentrazione si era posizionata dove non doveva starci, ovvero sul suo corpo. «Wow», che imbarazzo, ma anche che gioia, non mi ero mai spostata così tanto. «Quindi è lì che si trova il primo Elemento?».
«Non proprio».
La mia espressione incitava al continuo.
«E' il punto di partenza, poi si seguirà l'acqua e ci immergeremo per cercarlo. Le coordinate esatte sono 53.794146, 7.043663, ma saranno già cambiate», se lo ricordava a memoria, incredibile.
«Oppure aspetteremo che arrivi a riva».
«E se si allontanasse di più?», domandò furtivo.
«Ci penseremo quando saremo là, inutile adesso, la corrente è più veloce di noi», a questo proposito Mitch accelerò ancora, si era distratto, aveva lasciato passare davanti un'altra auto. «Ma quello era Max?».
L'auto che ci aveva superato era la sua. Mitch lo rincorse.
«Segno che dobbiamo muoverci».
Gli andammo vicino, era sulla corsia di fianco alla nostra, sulla destra. Ora la velocità si equivaleva ed eravamo pari. Sì, come se fosse stata una gara.
Max mi guardò e sorrise, accelerando ancora un po'.
Ma io non dicevo sul serio, gli dissi e come suo solito lo vidi ridere. «L'ha presa per una gara», confidai a Mitch.
«Immaginavo».
Invece di guidare con decenza, il Demone fece il gioco dello Stregone, passandogli avanti. L'andamento era ormai smisurato.
«Ho ancora un'altra cosa da chiederti», dopo un po' decisi di parlare di nuovo. Avevo capito che la loro ricerca sulla Terra era durata ciò che per loro era una manciata di anni, paragonando la differenza dei tempi del loro Mondo, ma avrebbero dovuto pur avere un radar o un indizio. «Come avete fatto a trovarmi, di preciso?».
«Lo sai».
«No, voglio dire, vi siete costruiti un'intera identità e vi siete posizionati a Berlin come sedentari, quindi sapevate che ero vicina?».
Come reazione Mitch accelerò di nuovo, ponendo fine ai giochetti di Max, che sembrava divertirsi sulla strada. Ancora più veloci e avremmo preso il via per un viaggio oltre lo spazio-tempo, come in Ritorno al Futuro.
«In un certo senso, ma no. Per ogni città, paese, isola abitata avevamo stabilito un tempo massimo. Era così da sempre. Avremmo potuto stare rinchiusi in casa senza farci vedere, ma era essenziale mischiarsi tra i mortali, così Verena ha inscenato le nostre vite umane, facendoci sentire più autentici possibili».
Questo lo avevo solo supposto, ma era chiaro. Una volta Verena aveva, immagino scherzato, sul fatto che loro fossero ripetenti a scuola. Era solo una scusa per passare più tempo tra gli adolescenti e scrutarli da vicino. Ma non era detto che l'anima di Jane fosse proprio tra persone giovani. «Siete molto credibili», tatuaggi, piercing, capelli colorati, la moda del momento. Eccetto per la bellezza, quella era troppo disumana per appartenere a questo Mondo.
«Dopo aver ispezionato tutta la popolazione decidemmo che era tempo di spostarci, finché qualcuno non attirò l'attenzione di Verena», alzò leggermente le labbra e ammiccò nella mia direzione. «Stavamo per andare a Est, se non fosse stato per il tuo comportamento insolito. Eri nuova, non ti avevamo mai vista e Max aveva letto qualcosa di oscuro dentro di te. E poi attirasti troppo l'attenzione battendoti con una del mio stesso corso». Immaginare il Demone che studiava e faceva i compiti era molto irreale, ma avevo capito a cosa si riferisse, lo scontro con Mallory e Cedric. Sembrava passata un'eternità, quasi non riconoscevo più quella ragazza in preda alla violenza che ero. «Verena volle accettarsi delle nostre supposizioni prima di fare le valigie».
«Intanto che Max lavorava da solo e mi montava la testa con atteggiamenti cupi», aggiunsi. «E' stato un miracolo, se non fosse stato per mio padre niente di tutto ciò sarebbe successo».
«Il caso non esiste».
Finì così il suo racconto. Non era stato difficile avere una conversazione con lui dopo tutto, ma chissà perché il più delle volte fallivamo.
Non riuscivo a pensare neanche lontanamente alla mia vita prima di loro, se non li avessi conosciuti. Ero sempre stata vuota, in collera con chiunque e senza motivo. Sentivo di star crescendo, stavo imparando a conoscermi e a gestirmi, ma non ce l'avrei mai fatta senza il loro aiuto, senza la loro testimonianza che non ero pazza. Ma, soprattutto, non riuscivo a immaginare una vita senza Mitch. Non si avvicinava minimamente allo stereotipo di ragazzo perfetto, non era empatico, premuroso o dolce, qualità che si addicevano solo alle fiabe nell'immaginario collettivo. Non serviva tutto questo per essere il famigerato Principe Azzurro. Sebbene il suo cuore fosse avvolto dalle tenebre aveva dimostrato di averne uno. L'incessante ricerca dell'anima di Jane era solo la punta dell'iceberg, ciò che c'era dietro, la volontà e l'intento che lo spingeva a farlo, non era per bramosia dell'avventura. Che il suo amore fosse vero, che lo stesso sentimento lo spingesse in imprese avventate? Quella era la persona adatta al proprio fianco, quel masochista e arrogante ragazzo che avrebbe messo in disparte la sua autorità per riunirsi con la propria metà. Non era questo il sogno di ogni ragazza? Non era l'attaccamento tossico o dipendenza che solo il Diavolo sapeva manifestare, era qualcosa di più, un velo di protezione e fedeltà di chi è guerriero e combatte per la propria causa.
«Cosa stai facendo?», urlò serio.
La sua voce era così vicina che mi spaventò. Il suo viso era corrugato, la mascella contratta e i suoi occhi avevano una sfumatura argentea. Mi fissavano sbigottiti per quelli che per me furono secondi interminabili. Vedevo la durezza dei suoi zigomi alti e la pelle sembrava più perfetta del solito a quella misera distanza.
Mi svegliai completamente da quello stato inconscio in cui ero caduta e ritornai immediatamente al mio posto, rossa dalla vergogna. Non osai spostare lo sguardo dai miei piedi, ero troppo imbarazzata. Avrei voluto diventare invisibile, invece ero ancora lì a tenere a bada il mio cuore. Stupida.
«Non so perché l'ho fatto», bisbigliai impaurita. Non avevo intenzione di baciarlo. O forse sì, ma non avevo ragionato. Velocemente provai a guardarlo con la coda dell'occhio e ancora non si era rilassato. I nervi del braccio erano a fior di pelle. «Sei arrabbiato?».
«No».
Questo non riuscì a tranquillizzarmi, ma se non altro avevo ripreso a respirare correttamente e lasciai cadere le spalle sul sedile.
«Siamo quasi arrivati, dormi».
Non suonava tanto come un suggerimento per riposare, ma più come un:"se dorme non fa danni". E questo la diceva lunga, perché anche se chiudevo gli occhi, quella sensazione di piacevole malessere mi faceva scuotere il corpo dal disagio.
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