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Capitolo 12

Si fece il giorno dopo. Quel maledetto 4 ottobre era arrivato, non era neanche l'alba, il cielo era buio pesto e io mi sarei dovuta preparare alla svelta. Recuperai il mio vecchio zaino e ci infilai diversi vestiti, presi dalla sedia. Non era ben chiaro se avessi avuto modo di cambiarmi o no, secondo il mio punto di vista non mi sarebbe servito portare niente, ma i Demoni pensavano sempre al peggio. Non avrei voluto trattenermi più del necessario, anche perché avrebbe significato morire. Era un libro, quale strana avventura si erano immaginati dentro una biblioteca divina? L'unico male concreto avrebbe potuto essere che questi Arcturians ci avessero fatto perdere più tempo del necessario per mancanza di fiducia. L'unico modo per vincere potrebbe essere testare la loro resistenza e insistere fino alla loro rassegnazione. Nel mio Mondo funzionava così, niente temporeggiamenti, tutto e subito. Ma chissà da quanti millenni vivevano questi, di certo a loro il tempo non mancava.

A me invece sì, volevo truccarmi bene e mostrare come la città mi aveva resa, più sicura di me e fiduciosa. Non volevo dire addio alle mie migliori amiche sembrando una scappata di casa, l'impressione era tutto, anche per far credere loro che andasse tutto bene e che mi sentivo bene. Dovevo fingere, in pratica, ma è così che avrei voluto essere ricordata.

Ah, quanta teatralità per nulla.

In cucina i miei genitori stavano già facendo colazione. A quell'ora il mio stomaco era ancora ben saldo e non mi importava di mangiare. Volevo solo salire sulla macchina e partire.

«Giorno», mia madre mi porse un sacchetto con dentro un panino e dei succhi di frutta. Mi conosceva bene e sapeva che avrei gradito mangiare più tardi.

«Grazie».

Mi fermai un secondo sul vialetto, mentre mia madre chiudeva la casa e mio padre accendeva l'auto, avevamo una Mercedes GLC nera. Oltre ad essere completamente buio, l'aria era gelata e il vento soffiava contro di noi. Non era stata una buona idea indossare la gonna senza calze e riempire lo zaino di abitini, ma mentre preparavo sembrava perfetto. Un momento, io non avevo mai posseduto quei vestiti. Me ne resi conto solo in quel momento, prima non ci avevo prestato così tanta attenzione. Verena! Ma come aveva fatto? Ormai era tardi per fare un cambio completo e dubitavo che dei jeans mi avessero fatto sopportare il caldo lancinante dell'Inferno. Finché fossi restata sulla Terra, però, avrei dovuto sopportare il freddo. Stupida sbadata.

Entrai in auto, sia benedetto il riscaldamento, e provai a rilassarmi completamente occupando tutti i sedili posteriori, cercando di dormire ancora un po'. Non avevo effettivamente pensato a come avrei affrontato il viaggio di quattro ore sulla A9, ma di certo non avrebbe compreso farsi le paranoie. Indossai le cuffie e impostai la riproduzione casuale su Spotify, intanto che sfrecciavamo fuori Berlin sulla Straße des 17. Juni.

Era impossibile non pensare, comunque, nella mia testa inscenavo ipotetiche illusioni su come avrei salutato gloriosamente le mie amiche neanche avessi dovuto andare in guerra. E tutto ciò dipendeva dalla canzone che ascoltavo in quel momento, se era frenetica il mio linguaggio era avvincente, se era triste scoppiavo a piangere. Non avevo idea di come mi sarei approcciata, loro non sapevano niente e avrebbero dovuto continuare su questa strada. Nonostante il mio carattere irascibile e manesco con loro ero sempre andata d'accordo, non avevano paura di me e questo ci fece legare. Non ero mai stata una brutta persona, loro riuscivano a farmi divertire e accettavano le mie crisi isteriche quando capitavano, aiutandomi a superarle. Senza di loro non sarei mai riuscita a mantenere un minimo controllo sulle mie azioni, anche se era impossibile. Quando Jane si impadroniva di me ero completamente sotto il suo controllo, non avevo modo di pensare lucidamente. A chiunque mi avesse fatto arrabbiare non davo possibilità di scampo. Nell'ultimo periodo, però, Sarah e Larysa non mi avevano lasciata sola un attimo, facendomi acquistare autocontrollo nello stesso modo cui si fa con chi ha un attacco di panico. Le cose non si somigliavano, ma la respirazione era importante e loro mi aiutavano sempre. Da sola, invece, il desiderio di torturare e uccidere era più forte e non ero mai riuscita a contrastare gli attacchi. Neanche mi importava, il mio primo giorno di scuola non avevo opposto la minima resistenza contro Cedric, volevo far capire a tutti i costi chi comandava. Ecco, questo le ragazze non lo avrebbero mai permesso, come nella vecchia scuola. Talvolta Jane proteggeva, a fin di bene, il suo nuovo corpo, come contro i tre uomini ubriachi, quella sera che scoprii la verità. Forse per questo lo faceva, forse era questo il motivo della sua violenza. Proteggersi per non rimanere ferita o uccisa, per non trasferirsi nuovamente altrove, come aveva detto Mitch. Dopotutto, lei era una Sacerdotessa o una cosa del genere, non era abituata alla mancanza di rispetto nei suoi confronti. Una cosa sommata all'altra davano l'effetto che lei aveva su di me. Infondo, anche a me dava fastidio chi si permetteva di andarmi contro. Che avessi preso da lei? Ormai Jane aveva formato il mio carattere, la mia personalità, i miei modi di ragionare, adesso che era bloccata per via della collana, chi ero io? Quali erano i miei veri pensieri e comportamenti? Ero davvero prepotente o piuttosto empatica?

Aprii gli occhi, tirando su la schiena e mettendomi a sedere. Una crisi di identità sarebbe stata la ciliegina sulla torta, avrei dovuto smettere. Spensi la musica, chissà da quanto andava, non l'avevo ascoltata più di tanto e l'ultima canzone non la conoscevo neanche. Guardai fuori dal finestrino, il cielo si era schiarito, ma era comunque coperto di nuvole grigio chiaro.

«Dove siamo?».

«Abbiamo superato Leipzig da qualche chilometro», rispose mio padre. Notai che mia madre dormiva, con la guancia spiaccicata sul suo finestrino e la bocca aperta.

Eravamo a metà strada e, nel frattempo che il mio cervello pensò al cibo, il mio stomaco brontolò. La sincronizzazione della fame.

Mangiai il mio panino con insalata, pomodori e mozzarella, sdraiandomi nuovamente. I sapori avevano tenuto a bada i miei sensi per un po', ma quando finii mi ritrovai di nuovo da sola con la mia mente. Inaccettabile, controllai tutti i social in cui ero iscritta e che non aprivo da settimane per fare un check up di ciò che succedeva al di fuori del mio universo. Alcune notizie erano interessanti, altre inutili, ma divertenti, quel che bastava per distrarmi. Persino YouTube mi offriva video di intrattenimento che cliccai subito.

«Svegliati, Franziska».

Con una pacca sul ginocchio, mio padre svegliò mia madre e attirò la mia attenzione.

Fuori il paesaggio era cambiato, lo caratterizzavano praterie e boscaglie e al posto degli edifici imponenti erano costruite piccole case altamente tipiche.

«Siamo arrivati», sbadigliò mia madre.

Non vedevo l'ora di scendere e di sgranchirmi le gambe doloranti. Non avevo inviato un messaggio di arrivo alle mie amiche, sarebbe stata una sorpresa. Questo mi fece venire il panico, il paese era deserto, magari erano andate via anche loro. In realtà avrei dovuto stare tranquilla, non ero più in una città affollata, qui era normale non uscire senza motivo. Gli spiragli di sole annunciavano una bella giornata per passeggiare.

«Voi dove alloggerete?», mi informai.

«In questo Hotel», mio padre fece una curva stretta ed entrò in un parcheggio privato. «Sicura che non vuoi rimanere?».

«Sì, non posso».

«A che ora verranno i tuoi amici?», mia madre aprì la portiera e il caldo dell'abitacolo si disperse subito.

Prima che il sole tramonti. «Per cena», immaginai.

«Vorrei conoscerli».

Ew, pessima idea. «Sì», ovvero no.

Le mie articolazioni a contatto con il terreno tremarono, ci misi qualche passo prima di poter piegare le ginocchia. Gli anfibi con il tacco poi, peggioravano solo, fortunatamente erano larghi.

E non ero sicura fossero miei.

«Vai pure», acconsentii mio padre.

D'istinto mi venne da saltellare, poi ci ripensai per non finire per terra.

Ripercorrere la strada di dove ero cresciuta mi dava un certo effetto, anche se era passato solo un mese. Una sensazione di pace misto a nostalgia mi invadeva, facendomi sentire leggera e spensierata per un attimo. Camminai prima fino alla casa di Larysa, più vicina da dove mi trovavo. Una volta arrivata sotto il portico suonai il campanello. L'auto era parcheggiata fuori, le finestre aperte, sicuramente avrei trovato qualcuno. Tamburellai i tacchi sullo zerbino nell'attesa, preoccupandomi leggermente su cosa dire. La porta di legno scuro si aprì lentamente. Sorrisi nel vedere chi c'era dietro.

«Ginny?», Larysa strabuzzò i suoi occhi assonnati, strofinandoseli più volte dall'incredulità.

«Stavi dormendo?», ironizzai, vedendola ancora con il suo pigiama rosa con i conigli.

«Cosa ci fai qui?», mi squadrò con la bocca aperta. Non capivo se stava sbadigliando o era scioccata. Probabilmente entrambe le cose.

«Sono venuta a salutare», feci un passo avanti, sorridendo e Larysa realizzò che ero davvero davanti a lei, spalancando la porta e abbracciandomi.

«Entra!».

Come ricordavo, le prime cose che si notavano all'entrata erano le due credenze in legno, poste ognuna su pareti parallele. Al centro di esse di estendeva il tavolo da pranzo, dello stesso materiale. Fu lì che ci sedemmo per parlare.

«Non hai freddo?», nel vedermi ebbe uno spasmo e si strinse nel suo caldo pigiama in pile. Ah, quanto avrei voluto indossarlo anche io.

«No, sono abituata a certe temperature», in realtà a Berlin non avevo nessun problema perché ero costantemente circondata da Demoni bollenti.

Larysa è sempre stata una ragazza taciturna, ma i suoi occhi marroni puntati contro iniziavano a mettermi ansia. Lei non era cambiata molto, a parte il colore dei capelli, si erano sbiaditi in un azzurrino chiaro e si vedeva la ricrescita scura.

«Faccio colazione, vuoi qualcosa?», si decise a parlare. Non capivo se l'avevo sconvolta o aveva ancora sonno.

«Caffè», tanto, tanto caffè.

Annuì e sparì in cucina. «Scrivo a Sarah, la faccio venire qui».

«Ottima idea, non dirle niente», proposi.

«Spera che sia sveglia», rise.

«Come mai vi siete alzate tardi?», chiesi curiosa, erano le dieci passate. Sentii dei rumori di posate e della macchinetta del caffè, poi Larysa tornò a sedersi davanti a me con un piatto di torta e la mia tazza.

«Vacanza», cantilenò.

Che stupida, con tutte le altre preoccupazioni mi ero dimenticata che ero riuscita ad arrivare fin lì solo per via delle Herbstferien.

Il suo telefono vibrò. «Mi ha risposto che non ci pensa neanche».

«Scrivo io», allungai la mano e iniziai a digitare. «Ti conviene... muoverti... è successa una... emergenza... punto... corri subito... virgola... anche se sei in pigiama... punto».

«Lo hai inviato?», si riprese il cellulare.

«Certo».

«Bene, ora ci ucciderà entrambe».

Ridemmo insieme, effettivamente Sarah era molto più esuberante e irascibile di Larysa, riusciva ad essere nervosa anche nel sonno.

«Come ti trovi nella nuova casa?», intanto che stava mangiando si era ripresa. «E' bella la città?».

«Molto, non riesco ancora a considerarla casa mia, mi ci vuole ancora un po', ma è tutto bellissimo», missioni e segreti a parte era davvero un'ottima città, ero riuscita a integrarmi, con qualche piccola modifica, ma non mi pesava.

«Sono felice, anche se un po' ci manchi», si nascose dietro un altro boccone.

«Ah, solo un po'?», feci finta di offendermi.

«Lo sai che intendo!», la sua timidezza mi rispecchiava. Credevo, con la collana ero come nuova.

«Anche voi mi mancate».

«Come fai con le crisi, riesci a controllarle?», il suo tono di voce si abbassò notevolmente. Beh, non avrei potuto dire la verità, ma neanche mentire. Cose così grandi non avrebbero potuto cambiare da un giorno all'altro, come invece era successo.

«Non tanto, faccio fatica. Per il momento non ho ucciso nessuno», sdrammatizzai.

«E' un bel passo avanti», scherzò. «Scrivimi quando ti succede, non restare sola».

Mi rabbuiai per un attimo, qualcosa avrei dovuto pur dirle, per non farla preoccupare. «Non sono sola».

«Cioè?».

«Ho incontrato delle persone che hanno avuto a che fare con il mio stesso problema in passato e mi stanno aiutando».

«Fantastico, chi sono?».

Intanto, fuori sul vialetto si sentivano dei rumori. Erano insistenti e pesanti, più i secondi passavano e più sembravano avvicinarsi.

«Loro...», iniziai.

I rumori erano diventati anche brusii, qualcuno stava camminando e parlando ad alta voce. «... e spero sia importante!», Sarah aprì la porta concludendo la frase che stava blaterando da sola. Quando mi vide si pietrificò, muta.

Le sorrisi.

«Ginny!», corse ad abbracciarmi, anche lei, mettendo piano a fuoco la situazione. «Cosa ci fai qui? Perché non hai avvisato e oh mio Dio adoro il tuo look!». Sarah mi stava tastando per verificare fossi vera.

«Beh, che sorpresa sarebbe stata?».

Anche lei era cambiata poco, i suoi capelli erano tornati biondi. Guardò Larysa, «Avresti potuto dirmelo, non mi sarei vestita così!». Dalla fretta aveva indossato una tuta nera.

«Rilassati», le rispose, «vuoi un po' di torta?».

«Sì!», bruscamente si sedette. Di scatto tornò in piedi. «Ti prego, raccontami, com'è Berlin?».

«E' bellissima».

Non feci in tempo a finire il discorso che arrivò un'altra domanda. «E i ragazzi, hai conosciuto qualcuno?».

Me lo sarei aspettata da lei e immediatamente il mio cervello pensò a Mitch. «Beh...».

«Come si chiama?», continuò.

«Ma se non ha nemmeno risposto?», Larysa tornò con la torta per Sarah, la quale la divorò.

«Ha alzato lo sguardo e ha esitato, per me è una risposta chiara», le spiegò.

Mi aveva spiazzata.

«Quindi?», mi sollecitò.

«Va bene, va bene, Mitchell», mi arresi.

«Mitchell come?».

«Non so il suo cognome», non credevo neanche ne avesse avuto uno. Chissà come faceva nel nostro Mondo, non glielo avevo mai chiesto.

«Non sai il suo cognome? Vi siete mai parlati? Sa della tua esistenza?», la sua vivacità mi metteva più ansia dello sguardo indagatore di Larysa.

«Eccome».

«Allora racconta!».

«E' una lunga storia, ci vuole tempo», tirai per le lunghe.

Sarah si sollevò nuovamente dal suo piatto ormai vuoto. Inghiottiva parole e bocconi contemporaneamente. «Ha ragione, non abbiamo tempo!», guardò Larysa, «Dobbiamo prepararci!».

«Prepararvi per cosa?», chiesi curiosa.

«Oggi volevamo andare a Nürnberg, c'è il Global Art Festival», spiegò Larysa, cercando di pettinarsi i capelli con le mani.

Spalancai gli occhi, non avevo idea iniziasse quel giorno e poi ho sempre voluto vederlo.

«Certo che puoi venire», Sarah rispose a una domanda che non avevo fatto, ma lei era brava a intuire. Finalmente potei saltare sul posto senza farmi male alle gambe.

«E' proprio vero che la città cambia le persone», commentò Larysa divertita.

Volevo solo passare l'intera giornata con loro, poco importava come sarei apparsa.

Pranzammo insieme, a casa di Larysa. I suoi genitori tornarono relativamente tardi dopo un giro di commissioni, anche loro erano invogliati a salutare i miei. Spiegai brevemente cosa erano venuti a fare, dove alloggiavano e quanto sarebbero rimasti. Il che incuriosì le mie amiche.

«Tu non rimani?», per la prima volta Sarah assunse un tono di voce normale.

«No, devo andare via», tutti i discorsi immaginari che mi ero inventata in autostrada stavano tornando, ma l'atmosfera era completamente diversa da come la avevo pensata.

«Perché?».

«Io e i miei amici di città andremo in montagna, per qualche giorno, credo», poi guardai Larysa, «Le stesse persone che mi stanno aiutando».

Lei annuì e fece un cenno anche a Sarah.

«Chi sono?», domandò la bionda.

«Probabilmente li conoscerete, verranno qui stasera», valutai se rivelare altro o no. La storia della vacanza stava diventando realtà, ero molto credibile e sembrava dovesse succedere davvero. «Ci sarà anche Mitchell», sorrisi e finii così il discorso.

«Racconta!», mi ordinò Sarah, per la centesima volta, di nuovo in piedi.

«Dopo, ora dobbiamo prepararci!», quanto ancora avrei potuto deviare l'argomento?

Intanto che si truccavano e Larysa si cambiava i vestiti, lasciai parlare loro, mettendomi al corrente delle nuove faccende nella mia vecchia scuola. Eravamo tutte e tre nello stesso istituto, ma in sezioni diverse.

«Vuoi davvero sapere?», iniziò Sarah con la sua melodrammaticità.

«Ci risiamo», commentò Larysa, alzando gli occhi al cielo e sporcandosi le palpebre con il mascara.

«Io e Stefan non stiamo più insieme», si mise un rossetto acceso e poi schioccò le labbra, un suono breve e secco.

«Vi siete lasciati?», rimasi sorpresa. Erano la classica coppia popolare della scuola, una delle ragazze più belle con uno dei ragazzi più belli. Una storia completamente normale di due persone normali che stavano insieme normalmente. Insomma, tutto nella norma. Come risposta Sarah mi guardò, chiedendo approvazione per il trucco. Io alzai i pollici in su, ancora sconvolta.

«No, molto di più», ora si stava spazzolando i capelli.

«L'ha tradita con Greta», tagliò corto Larysa. Quando dicevo delle ragazze più carine della scuola, Sarah era solo una delle tante.

«Ora che ci penso, Greta assomiglia molto a una di Berlin, Mallory, la prima con cui ho litigato», ripensai alla cugina di Cedric che aveva cercato di difenderlo con la sua cerchia di amici. Era un ricordo così lontano ormai. Solo in quel momento collegai che anche Dylan era suo cugino, povero ragazzo.

«Una zocc...».

«Sì, esatto», acconsentii.

«Perfetta per un bastardo come lui, ahia!», si tirò i capelli con la spazzola dal nervoso.

«Immagino».

Larysa nel frattempo era scappata in camera sua, stava indossando dei jeans e un maglione grigio. «E tu?», la raggiunsi.

«Sto uscendo con una persona», le sue guance diventarono bordeaux.

«Fantastico, lo conosco?», da parte sua non avevo mai notato nessun atteggiamento malizioso nei confronti di qualcuno. Sarah sventolava ai quattro venti la sua relazione con Stefan, ma Larysa era sempre stata più riservata, non troppo con noi.

«E' Ginny, non ti mangia!», sentimmo urlare dal bagno.

«Giusto», si rilassò, sorridendo. «Ti ricordi Ylenja del secondo anno? Quella che mi ronzava intorno e mi chiedeva di aiutarla con lo studio?».

«Davvero?», una parte di me infondo lo sapeva, ma non ci avevo mai dato peso. Ero contenta per lei, sebbene anche un po' di sasso.

«Da poco», si nascose nel suo maglione, non volevo metterla in imbarazzo.

«Me ne vado per un mese e succede di tutto», gridai, per farmi sentire anche da Sarah. Lei, però, stava già venendo verso di noi.

«Ecco perché devi restare».

«Non posso», divenni seria e triste. Avrei tanto voluto restare a Leinburg, ma anche se non fosse stato per la missione, ormai abitavo a Berlin, non c'era stata soluzione durante la partenza e non c'era ancora per adesso.

«Neanche noi, muoviamoci, mio padre ci aspetta», dedussi che a Nürnberg ci fossimo andati in macchina con il padre di Sarah. «Non vedo l'ora di cambiarmi».

La casa di Sarah distava poco da quella di Larysa, era nello stesso isolato. La mia, invece, era oltre la chiesa, dall'altra parte del paese. Anche lei si mise dei jeans, scuri, ma sopra ci abbinò una camicetta e una giacca elegante.

Montammo in auto e subito Thomas, il papà di Sarah, mi diede il suo bentornata. «Strano che tuo padre non mi abbia telefonato». Accidenti, era un vizio di famiglia allora.

«Sarà stato preso con gli affari, sai com'è fatto», era capace di dimenticare la testa in ufficio, per fortuna non avevo preso da lui.

«Immaginavo, tu a scuola?».

«Bene, frequento il liceo artistico alla St. Gesine».

Sarah, seduta davanti, fino a quel momento era impegnata a scrivere un messaggio sul telefono, ma poi si voltò posando tutta la sua attenzione su di me.

«Finalmente, temevo di doverti tirare uno dei tuoi quadri dietro in caso non avessi studiato arte!», già, i miei quadri, me li ero completamente dimenticati.

«Ne hai fatti altri?», mi sorrise Larysa.

«No», ammisi. Tra tutti gli avvenimenti successi avevo giusto il tempo per fare i compiti.

«Dovresti».

Già e cosa avrei disegnato? Mi piaceva ritrarre paesaggi, foreste, mari e monti, ma l'unica ispirazione in quel momento sarebbe stata l'Inferno. Ecco, avrei fatto delle foto – o forse no – e poi avrei mostrato al mondo intero com'è realmente quel luogo.

«Ci proverò», che genio.

Il mio telefono suonò una volta, segnale che mi era arrivato un messaggio. Il mio cuore iniziò a battere più velocemente, se fosse stato Mitch, cosa voleva? Forse semplicemente salutarmi e chiedermi come stessi. Ma, al massimo, me lo sarei aspettata solo da Verena, non da lui. Feci illuminare il display e vidi l'anteprima che diceva:

Appena scendiamo devi raccontare tutto, non ce la faccio più.

Da parte di Sarah. Risposi con due emoji sorridenti e mi calmai. Non mancava tanto e io ero stanca di stare in auto.

«Dove parcheggio?», domandò Thomas, una volta entrati in città.

«Al palazzo comunale, poi ci sposteremo a piedi», lo informò sua figlia. Dopo due brevi svoltate e un lungo rettilineo arrivammo a destinazione, di fronte a un enorme edificio in mattoni chiari.

«Ci vediamo dopo».

Una volta scese, nella piazzola davanti a noi, oltre la ZTL, era stato costruito un palcoscenico dove due presentatori stavano già parlando di qualcosa. Diverse persone erano in piedi ad ascoltare, mentre altre scorrevano lente lungo un via vai da loro creato. Seguimmo il percorso di quest'ultime, continuando verso la Chiesa principale. Il terreno ciottolato era tutto in disequilibrio e con tutto quel traffico dovevo stare attenta a non cadere e a non perdere di vista le mie amiche, motivo per cui ci tenevamo per mano. A passo sicuro Sarah effettuava degli slalom tra gli sconosciuti, costringendo me e Larysa ad essere trainate. Sbisciavamo come serpenti e inevitabilmente scontrammo diverse volte le spalle contro qualcuno.

«Dove stiamo andando?», le chiesi. Sembrava essere così sicura della meta.

«Io ho cinque giorni per vedere il festival, ma uno solo per parlare con te», entrammo in uno svincolo dove si poteva camminare liberamente. I negozietti erano stracolmi lasciando la strada più vuota. «Spiegazioni».

Avevo riconosciuto la via, qualche metro più in là e avremmo trovato delle panchine davanti a un giardinetto. Un luogo tranquillo per parlare di argomenti delicati, al caso nostro.

«Devo iniziare da Mitchell, vero?», chiesi ironica, alzando un sopracciglio.

«Assolutamente sì!», Sarah era alquanto impaziente, mentre guardando Larysa la vidi sorridere. «Aspetto fisico», dichiarò.

«E' alto, muscoloso, estremamente forte, biondo...».

«Dai, seriamente!», mi bloccò.

«Non sto scherzando», non era colpa mia se era così dannatamente divino.

«Va bene, va bene», mi fece cenno di continuare.

«E' biondo, i capelli gli ricadono sulle spalle. Prima aveva dei dreadlock e dei piercing, ma ora li ha tolti», pensai li avesse usati solo per mimetizzarsi meglio. «I suoi occhi sono celesti, ma hanno la particolarità di diventare grigi non appena si innervosisce. E questo succede spesso».

«Cosa c'è tra voi?».

Intanto avevamo raggiunto le panchine. Sperai di trovarle completamente vuote, invece una era occupata da una signora che leggeva il giornale e teneva il suo cagnolino al guinzaglio. Scegliemmo la più lontana e poi chi se ne fregava, avrebbe ascoltato delle lamentele d'amore di una semplice sedicenne.

«Qualcosa di forte, il nostro legame è il più profondo che si possa immaginare. Quando sono con Mitch perdo completamente il controllo, ma solo lui è in grado di ripristinarmi. E' il veleno, ma anche l'antidoto, per questo è pericoloso. Ho l'impressione che nemmeno lui riesca stare troppo tempo lontano da me, anche se non lo ammetterà mai. Parte della sua esistenza dipende da me, così la mia da lui. Non ho mai provato niente del genere per nessun'altro, solo la sua vicinanza mi fa dubitare di tutte le mie certezze. E quando entriamo in contatto mi sento come se stessi volando nei cieli più alti, senza temere l'ignoto, perché le sue calde braccia mi avvolgeranno sempre e non permetteranno mai che io cada».

Ginny! La mia voce interiore mi stava dicendo di smetterla, cosa stavo blaterando? Non avevo mai ammesso una cosa del genere. Non mi ero resa conto di sognare ad occhi aperti, ma lo vedevo lì, tra le nuvole, circondato dalle sue possenti ali nere, così minacciose, ma in realtà vellutate e delicate.

«Che coppia romantica», Larysa aveva gli occhi a cuoricino al mio posto. Dovevo essermi espressa troppo bene, perché la realtà era ben altra.

«No», ammisi, puntando lo sguardo per terra.

«Perché? Siete perfetti, ancora meglio di Stefan».

«C'è un'altra e lui sceglierà sempre lei», non ero io la protagonista di quella storia d'amore, io fungevo solo da involucro protettivo. Mitch non era mio, era di Jane, per sempre. «Per un periodo mi ha anche evitata, ma non è stata colpa nostra».

«Chi è, la conosci?», la bionda si alterò, alzando i pugni in senso di sfida. Sorrisi per non piangere.

«I rapporti possono cambiare, ma non per questo significa che siano meno intensi», Larysa cercò di essere più comprensiva e aveva utilizzato la parola giusta, era tutto così intenso.

«E che cosa ne pensa Mitch di questa triangolazione?», sbuffò Sarah, come se quella esasperata fosse lei.

«Niente, non sa ciò che provo e ho paura. Non deve saperlo, altrimenti comprometterei la nostra...», missione. «Amicizia. Credo che a lui neanche importi delle mie emozioni, ha solo un pensiero fisso. Per farla breve è come se ci tenesse, ma è tutta apparenza».

Sarah mi prese una mano. «Se una persona ci tiene lo fa capire in qualche modo, ma da parte tua è necessaria la completa sincerità dei tuoi sentimenti. Ginny, lo vedo quanto ci stai male. Di a lui le tue paure, il fatto che a lui sembra non importare».

«E se non mi ascoltasse?», o peggio, come ridere e ricominciare a trattarmi come sua inferiore.

«Purtroppo non dipende da te, ma da lui. Anche lui avrà delle paure a riguardo, deve superarle, buttarsi e fidarsi», persino Larysa mi incitava a parlargli, la questione stava diventando più grave del dovuto. Certo, perché la realtà era uno spasso.

«Ci proverò», sorrisi, ma non promisi.

«Non pensarlo sempre, non fa bene pensare a ciò che ti fa star male in questo modo», mi rimproverò Sarah, trovatasi nei miei panni già diverse volte.

«Allora propongo di fare qualcosa di produttivo», mi alzai di scatto, facendo abbaiare il cane della signora.

«Oh no, adesso devi parlare degli altri», mi fermarono da entrambe le mani, ma con una spinta le incitai ad alzarsi.

«Li vedrete dopo, ma fate attenzione a Max, è untipo strano e non giudicate l'abbigliamento di Verena», non seppi per qualemotivo mi venne da ridere e contagiai anche le mie amiche. Misi le bracciasulle loro spalle, come per abbracciarle, e camminammo così.

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