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𝐗𝐗𝐗𝐕𝐈𝐈𝐈. 𝐌𝐲𝐭𝐡𝐟𝐢𝐞𝐥𝐝


Mythfield somigliava molto a una versione più semplice, tranquilla e decisamente più piccola di New Orleans. Le case e i quartieri, ogni elemento che costituiva la città, protetta dalle conifere locali che la imbozzolavano in uno scudo protettivo e naturale, aveva subito lo stesso una considerevole influenza da parte della città della mezzaluna. Era come se coloro che avevano fondato Mythfield avessero in un certo senso voluto recare omaggio a una delle città più famose e peculiari della Lousiana. Forse era proprio là che i coloni in questione erano giunti, in un primo momento, solo per poi sicuramente rendersi conto che fosse rischioso per degli Alphaga rimanere fra gli umani, vicino a persone che, all'epoca, se li avessero smascherati di certo non avrebbero capito e li avrebbero etichettati come creature del demonio o chissà cos'altro.

In base a ciò che aveva raccontato Vargos in merito ai primi coloni del luogo, si era trattato perlopiù di Alphaga provenienti dall'Inghilterra, dalla Scozia e, per la maggior parte, dall'Irlanda. I primi della stirpe Elimar, ad esempio, prima di diventare cittadini americani erano stati un nucleo familiare nato dalla commistione di sangue scozzese e irlandese. Per quel che ne sapevano i loro ultimi discendenti ancora in vita, erano state ragioni puramente economiche a spingerli, nel lontano Settecento, a salpare insieme a molti altri alla volta del Nuovo Mondo. Dopo una lunga traversata dell'oceano si erano prima stabiliti in Virginia e da lì avevano scelto, in seguito, di proseguire e spingersi nei territori della Louisiana fino a raggiungere New Orleans che ancora vantava una popolazione esigua ed era ben lontana dal divenire la città che ormai tutti conoscevano. Un secolo più tardi, nella prima metà dell'Ottocento, gli Elimar avevano compiuto una scelta tanto azzardata quanto decisiva: fondare, assieme ad altre famiglie appartenenti alla loro specie, desiderose quanto la loro di non aver a che fare oltre con i continui tumulti sociali causati dagli umani con i quali ormai era difficile convivere, una città vera e propria in cui gli Alphaga erano liberi di essere se stessi. Era stato arduo, infatti, specialmente per gli Omega maschi, passare inosservati. Alcuni di loro erano arrivati a fingersi giovani donne umane pur di avere la libertà di passeggiare alla luce del sole e mano nella mano con i rispettivi compagni di vita.

Vargos, ad esempio, nella casa dei genitori aveva rinvenuto vecchi ritratti e primi esemplari di dagherrotipi in cui erano stati immortalati alcuni suoi antenati di genere Omega e, purtroppo per loro, nati maschi, che indossavano abiti da signora o lunghe vesti da camera, i capelli fin quasi al fondoschiena e volti che, proprio grazie al loro aspetto efebico e delicato, non avevano faticato a farsi passare per quelli di giovani e avvenenti spose che raramente si mostravano in pubblico. Casey, udendo tutto ciò, non aveva esitato a credergli né a capire alla perfezione cosa avesse spinto il clan degli Elimar e di altre famiglie Alphaga ad abbandonare nuovamente la città in cui si erano stabiliti per cercare fortuna, riparo e stabilità altrove, lì dove sarebbero stati liberi di essere se stessi.

Era così, dunque, che Mythfield era stata infine fondata. In origine si era trattato di un semplice insediamento nelle Piney Woods che comprendeva solamente case di legno, una sala comune e i primi accenni di attività commerciali locali; solo quando erano riusciti nell'intento di far calare sui territori la barriera protettiva che contraddistingueva qualsiasi altro posto abitato da Alphaga la città battezzata Mythfield aveva iniziato a fiorire, a espandersi e ad abbellirsi per giungere infine, durante l'ultimo censimento che si era svolto, alla bellezza di quasi centomila abitanti. Considerando che si parlava di un posto nel quale risiedevano esclusivamente Alphaga, esponenti di un popolo che sembrava purtroppo destinato a soccombere e a svanire, si trattava di cifre alte e persino promettenti.

Casey iniziava a credere sul serio che vi fosse un rapporto molto stretto e misterioso fra le città degli Alphaga e le foreste. Forse, trattandosi di un popolo che anticamente era stato un tutt'uno con la natura, specialmente con i boschi, vi era un mistico e silenzioso patto, un rapporto di reciproca fiducia, fra di loro. Secondo suo nonno era proprio così e lui tendeva a prendere in seria considerazione le parole di quest'ultimo.

Mentre il van grigio di Vargos percorreva quelli che probabilmente erano gli ultimi chilometri di strada, il giovane Indigo si riscosse dai mille scenari che si stava figurando sulla città che tra non molto sarebbe diventata la sua nuova casa e si voltò per guardare Noah solo per scoprire che si era assopito. Ciò non lo sorprendeva affatto visto che McKay era rimasto vigile sin da quando avevano abbandonato l'hotel e avevano preso l'aereo. Non aveva fatto che chiedersi, anzi, quando sarebbe finalmente crollato sotto il peso di quegli ultimi giorni straripanti forti emozioni e pericolo.

Sorrise, gli posò un lieve bacio sulla guancia ruvida di barba e si accoccolò nell'incavo del suo braccio, avvolgendosi quest'ultimo attorno alle spalle. Da quando avevano abbandonato per sempre Caverney Town era come se in lui fosse finalmente sopraggiunta la pace, nonché un senso di rinnovata e reale libertà. Quella città non gli mancava e non gli sarebbe mancata neppure a distanza di dieci o vent'anni. La riteneva una sorta di cimitero nel quale aveva sepolto per sempre il passato e la sofferenza che aveva dovuto patire fra le mura di Daffodil Manor e, in tutta franchezza, non ci teneva affatto a far ritorno laggiù di tanto in tanto per scoperchiare o contemplare sepolcri a lui tanto sgraditi.

Sapeva benissimo che non era finita con Olegov, che il mostro in questione sarebbe tornato per finire quel che aveva iniziato, ma considerando il carattere di Vargos e le sue idee in merito a un bel po' di cose, Casey era più che sicuro che lui e Noah avrebbero avuto al loro fianco Mythfield intera contro quel farabutto. In fin dei conti il fondo lo avevano toccato, perciò ormai non si poteva far altro che risalire. Era pressoché matematico, a pensarci bene.

Per il momento e per il restante periodo che lo separava dall'arrivo dei gemelli, data che andava avvicinandosi sempre di più e che forse era ormai alle porte, voleva concentrarsi su se stesso, sulla propria famiglia che finalmente era stata riunita al completo e sulle nuove prospettive offerte da Mythfield. Avrebbe pensato dopo a Olegov e ai suoi intrighi. Lo avrebbe fatto solo quando si sarebbe ripreso almeno un po' dal parto e abituato alla vita da genitore e fidanzato. Il resto poteva aspettare.

Nel van regnava un piacevole tepore, un'aria familiare e rilassata. Si sentiva al sicuro insieme a Noah e agli altri, così tanto da iniziare a convincersi che nient'altro sarebbe andato storto, non dopo tutto quel che era accaduto. Tanto strepitare, tanto rumore, per due cose così piccole e indifese, si disse Casey con un lieve sorriso sulle labbra, sfiorandosi il ventre e sprofondando meglio nel comodo sedile imbottito. Il mondo era davvero impazzito se l'arrivo di due semplici neonati aveva scatenato una reazione a catena che aveva portato infine lui e Noah a essere al centro del mirino del peggiore esponente della specie Alphaga che fosse mai esistito. Certo, andava considerato pure che Noah fosse l'unico superstite di una famiglia che Stefan inutilmente aveva cercato di spazzare via completamente e, come era ben noto, Olegov detestava lasciare le proprie opere incompiute e farsi scivolare via di mano una preda. Era la seconda volta, in effetti, che veniva messo nel sacco da un marmocchio. Anzi, due marmocchi, cosa che di certo rendeva la sconfitta ancor più cocente e intollerabile.

Quel che indispettiva e faceva infuriare Olegov, sentenziò fra sé Casey con enorme soddisfazione, rendeva invece lui più agguerrito che mai e desideroso di vincere quella battaglia fra loro due. Riflettendoci, poi, erano da manuale, quasi la personificazione di uno dei tanti archetipi della tradizione popolare: il figlio che sfidava il padre, che voleva buttarlo giù dal trono o, semplicemente, ottenere rivalsa e superarlo. Per come il loro innegabile legame di sangue si era originato, dopotutto, sin dall'inizio sembrava esser stato stabilito che si sarebbero prima o poi scontrati. Stefan aveva seminato sofferenza prendendo Lidia con la forza, forzandola a portare in grembo il frutto di una violenza e lui, Casey, si sentiva quasi in dovere di fargliela pagare per tale orrendo atto. Non importava che lui fosse nato proprio in seguito ad esso, il marchio d'infamia era ancora lì e andava cancellato annientando chi lo aveva creato.

Non c'era altro modo in cui la storia sua e di Olegov potesse finire e non sarebbe di certo stato lui a soccombere. Aveva dalla propria parte motivazioni valide per inseguire la vendetta e ottenere giustizia, nonché alleati capaci di tener testa a quel mostro scellerato. Non era lui a dover tremare come una foglia, ma Stefan.

Un pensiero gli attraversò la mente e lo allontanò dalle elucubrazioni su Olegov. Volse lo sguardo verso Irene che stava chiacchierando con Vargos di chissà cosa. «Irene?» la chiamò, senza alzare troppo la voce. Non voleva svegliare Noah. Dio solo sapeva quanto dovesse essere stanco.

La ragazza si volse parzialmente per guardarlo. «Dimmi, Bimbo.» Probabilmente avrebbe continuato a chiamarlo in quel modo anche quando Casey avrebbe avuto più di trent'anni.

«Come... come sta tuo fratello?» chiese il ragazzo cauto. Certo, era trascorso davvero troppo poco dall'ultima volta che ne avevano parlato, ma se c'erano stati degli sviluppi dubitava che Cora non lo avesse fatto sapere alla figlia.

Fino ad allora Casey non aveva rivolto a Dominic troppi pensieri, si era quasi completamente dimenticato del gemello di Irene e di ciò che lui in primo luogo gli aveva fatto, ma ecco che di colpo era tornato indietro nel tempo e aveva rivissuto tutto quanto: la violenza sessuale, il modo in cui era stato trattato dal rampollo dei Tarren per fin troppi infernali mesi e poi... poi la notte in cui Dominic aveva cercato di rimediare ai peccati passati e fare in modo che Simon Tarren, quel mostro di suo padre, non potesse più fare del male a nessuno.

Era stato proprio lui, Casey, a sparargli, e si era trattato di un incidente: aveva tentato di mirare solo a Simon, a quel lupo gigantesco e rabbioso che Dominic aveva cercato di immobilizzare, e alla fine aveva scelto di sparare su entrambi, alla cieca, e di consegnare così le vite di tutti e tre nelle mani del Fato che fin troppe volte si rivelava crudele e volubile.
Non avrebbe dovuto sentirsi male per Dominic, non dopo quel che gli aveva fatto, eppure non poteva farci niente. Un po' gli dispiaceva per lui, per la sua situazione attuale e decisamente precaria, per tutto quanto. Gli dispiaceva, certo, ma non lo aveva fatto apposta. Certo, all'inizio, se gli avessero messo in mano una pistola e ordinato di sparare al fratello di Irene, era molto probabile che lo avrebbe fatto senza batter ciglio, tutto pur di andarsene da Daffodil Manor e non venire più inseguito dai propri aguzzini, ma tante cose erano cambiate da allora e una cosa andava ammessa: senza l'aiuto di Dominic non sarebbe mai e poi mai riuscito a scappare né a eliminare una volta per tutte Simon dalla faccia del pianeta.

Qualcuno avrebbe potuto sostenere che ciò costituisse per lui una sorta di debito nei confronti di Dominic, ma non era così. A suo parere, infatti, potevano finalmente considerare i conti pareggiati. Non aveva appositamente sparato al gemello di Irene e, come più volte gli avevano ripetuto tutti quanti, specialmente Noah, non poteva crogiolarsi nei sensi di colpa in eterno.

Con un velo di inquietudine vide Irene rabbuiarsi un poco. «Non ci sono stati miglioramenti, purtroppo» rispose infine la giovane Tarren. «Dicono... dicono che probabilmente non ce ne saranno mai e tutto rimarrà invariato. La mamma non voleva dirmi niente, all'inizio, ma ho insistito. Dovevo sapere.» Per corroborare quanto aveva appena affermato tirò fuori il cellulare dalla borsa e mostrò a Casey alcuni recenti messaggi che lei e la madre si erano scambiate. Casey prese in mano l'apparecchio, lesse e finalmente comprese quanto fosse effettivamente grave la situazione di Dominic: coma irreversibile. Gli si strinse lo stomaco nel notare che Cora, qui e là, avesse persino tralasciato delle lettere o sbagliato a scrivere delle frasi. Se la figurò con abbondanza di dettagli digitare a fatica il messaggio mentre calde e copiose lacrime le rigavano il viso. Povera donna...

Il ragazzo sospirò. «Magari si sbagliano e ci saranno dei progressi.»

Lei sospirò. «N-Ne dubito, Casey. Continua a leggere.»

Leroin lo fece e sgranò gli occhi non appena vide un altro messaggio di Cora spiegare ad Irene che i medici che avevano in cura Dominic stavano già cominciando a parlarle di una possibile eutanasia. Irene si era espressa contraria a tale scenario e le aveva chiesto, dunque, cosa ne pensasse invece lei di quella possibilità, ma Cora non aveva risposto. Con le mani che gli tremavano, Casey restituì il telefono all'amica. «È... È ancora troppo presto per parlare di eutanasia e quant'altro. Insomma... di solito non la si considera solo quando una persona si trova in stato comatoso da tanto tempo?»

«Lo credevo anch'io, ma a quanto pare le condizioni di Nic sono più gravi di quanto si pensasse all'inizio» ribatté Irene. «Per lei è straziante vederlo in quello stato e so che sta soffrendo come me, ma non voglio che si arrenda in partenza né che lo uccidano. Ci sono persone che si risvegliano dal coma anche dopo dieci anni, non si può gettare la spugna così.»

Non fu chiaro a Casey, così come a Vargos, se Irene stesse parlando solo per convincere se stessa e darsi speranza o prestando ascolto anche a un minimo di logica e di realismo. La maggior parte delle volte il coma irreversibile rimaneva tale, poco importava quanto si continuasse a sperare. Persino la speranza, a lungo andare, veniva meno, anche nel caso di una madre o di una sorella.

Vargos si fece coraggio e disse: «Non so bene a chi dare ragione, Irene, ma ho un fratello anch'io e non so cosa farei se ci fosse Ragos al posto di Dominic. È anche vero che certe volte avvengano dei veri e propri miracoli, perciò... credo che dovreste aspettare ancora un po' prima di arrendervi. Tuttavia... se la situazione dovesse protrarsi troppo a lungo, a un certo punto penso che... non lo so, vorrei che mio fratello fosse di nuovo libero».

«Non c'è alcuna libertà nella morte» replicò decisa Irene. «Non c'è niente dopo la morte, Vargos. Finisce tutto, si smette di esistere, e io non voglio che mio fratello cessi di essere chi è per diventare un totale niente, un mucchio di polvere!»

«Forse, però, dovresti domandarti cosa vorrebbe Dominic, se potesse avere voce in capitolo» tentò ancora Elimar. Era chiaro che il suo unico scopo fosse di farla ragionare. Non voleva incoraggiarla ad accettare di far staccare la spina al fratello, ma solo ricordarle che una vita da vegetale era qualcosa che nessuno avrebbe voluto per se stesso e certe volte era inevitabile fare la scelta più difficile e dolorosa.

Irene si chetò e si limitò a volgere lo sguardo verso il finestrino alla propria destra. «Non lo so cosa vorrebbe. So solo che nessuno sceglierebbe di morire.»

«Così è come se fosse già morto. Di solito viene dichiarata anche la morte cerebrale in casi come il suo» si permise di ricordarle Casey, il quale mai l'aveva vista andare in crisi così. Quando la udì singhiozzare e soffocare un pianto disperato e intriso di angoscia, però, si scoraggiò dall'aggiungere altro e si concentrò a propria volta sulla città. Finalmente erano a Mythfield, ma per quanto avesse scalpitato per vedere coi propri occhi la sua nuova casa, dopo aver parlato di eutanasia e quant'altro gli era passata la voglia di fare il ragazzino sovreccitato.

Lo scemare del buonumore e quel ritmo cadenzato, il continuo scivolare adagio del van e il silenzio calato di nuovo nell'abitacolo del mezzo, contribuirono a creare attorno a lui una sorta di bolla isolante fatta di ricordi, di tante cose rimaste sepolte che di colpo stavano tornando ad affiorare nella sua mente.
Si rivide per il ragazzo che era stato fino a mesi addietro: un giovane Alphaga qualsiasi e diciannovenne che cercava di trovare la propria strada, di capire cosa volesse fare nella vita e cosa invece depennare a priori dalla personale lista di obiettivi da raggiungere.
Rivide se stesso con la borsa in spalla e reduce da un pomeriggio trascorso in biblioteca per fare una ricerca su ormai neppure sapeva più che cosa; come lo spettatore di una pellicola realistica fino alla crudeltà, vide il Casey di mesi prima accorgersi di essere pedinato e guardarsi attorno con aria inquieta; aveva cercato di sbrigarsi a passare di fronte al famigerato vicolo, una stretta via laterale chiusa da un alto muro di mattoni dall'aria poco raccomandabile; aveva affrettato il passo, consapevole in cuor proprio di essere osservato, ma un attimo dopo, un fatale attimo dopo, quel qualcuno lo aveva afferrato da dietro e trascinato nel vicolo. Aveva scalciato, si era dimenato come un gatto furioso e aveva tentato di mordere la mano che gli aveva sottratto la capacità di urlare, ma la fiacchezza di quel giorno causata dal non aver preso i soppressori e i conseguenti crampi alla pancia ben presto gli avevano sottratto le energie e lo avevano costretto a fermarsi.

Era stato allora che con sgomento e incredulità aveva riconosciuto nella figura di fronte a sé e parzialmente immersa nel buio Dominic: i suoi occhi azzurri, il viso vagamente familiare di un ragazzo che fino a quel momento mai aveva infastidito o tentato di approcciare. Si erano sempre ignorati a vicenda e Casey, in particolar modo, mai si era messo sulla sua strada, sapendo che mettere i bastoni fra le ruote a un Tarren sarebbe corrisposto a firmare la propria condanna a morte, eppure alla fine Dominic, per qualche ragione, lo aveva adocchiato e preso di mira.
Invano si era sforzato di ripensare se magari avesse detto o fatto qualcosa per attirare la sua attenzione nel senso negativo del termine, ma niente. Mai aveva fatto il galletto con il giovane Tarren e, a dirla tutta, quel tipo mai gli era andato granché a genio. Aveva preferito ignorarlo e stargli alla larga finché, grazie al cielo, Dominic non aveva terminato gli studi e si era defilato dal liceo. Era andato tutto bene e poi, dal nulla, ecco che era precipitato in un incubo.

Solo allora Casey, lungo la strada che lo stava portando sempre più lontano dal passato, ricordò un particolare che aveva fino a quel momento ignorato e scordato: lo sguardo di Dominic in quegli attimi fatali; uno sguardo quasi di scuse, quello di chi non avrebbe mai voluto fare una cosa del genere. Il tremore in quelle mani che gli avevano strappato di dosso i vestiti e lo avevano costretto a divaricare le gambe; l'incertezza del momento che aveva preceduto il compimento della violenza; singhiozzi soffocati che Dominic aveva cercato di far passare per semplice respiro affannoso dovuto allo sforzo e alla foga del momento.

Ricordò, infine, che prima che lui perdesse i sensi per lo shock della violenza sessuale in sé per sé e tante altre cose, Tarren lo aveva sostenuto, forse per evitare che incorresse in una bella commozione cerebrale.

Perché, allora, picchiarlo, seviziarlo, prenderlo con la forza, marchiarlo contro il suo volere e farsi odiare da lui fino a tal punto? Perché, invece di cercare di rimediare, aveva lasciato che la situazione degenerasse, ancora e ancora? Quale senso poteva aver avuto tutto ciò che Dominic aveva fatto in quei lunghi mesi, a parte l'aver dovuto accontentare un padre altrettanto scellerato e le folli macchinazioni di Olegov?

Casey dubitava che lo avrebbe mai capito e ormai era tardi per fare domande. Dominic era in coma, lo sarebbe rimasto per sempre, almeno finché sua madre e sua sorella non si fossero decise a porre fine allo strazio.

Forse voleva che lo odiassi per quello che mi ha fatto. Forse puniva me perché non riusciva a punire se stesso. O forse sono solo io che sto giustificando qualcuno che non merita attenuanti?

Gli girava quasi la testa a furia di pensare e cercare risposte che mai sarebbero arrivate.

Incoraggiato dal silenzio e anche dal torpore che stava sopraggiungendo sulle sue membra, cullato dal percorso lineare e stabile del van, così come dal rassicurante e famigliare tepore del corpo di Noah lì accanto, Casey si assopì a propria volta, stanco di rimuginare in pensieri che lo avrebbero solo trascinato nuovamente nell'amarezza e nell'inquietudine.

Il viaggio era terminato venti minuti dopo che Casey si era addormentato.

Subito dopo che Noah lo aveva fatto svegliare e l'aveva aiutato a scendere dal van, il ragazzo si era ritrovato di fronte a un complesso di appartamenti dall'aria incantevole e rivestito da mattoni rossi in contrasto con le tegole del tetto grigio-marroni. Dall'esterno gli era sembrato niente male, ma non appena Vargos li aveva scortati dentro e condotti fino alla porta designata, aprendo quest'ultima con le chiavi che erano state consegnate loro dall'affittuaria, Casey si era convinto definitivamente che quel posto gli sarebbe piaciuto un bel po'.

Vargos gli aveva spiegato che la sistemazione fosse provvisoria, ma il ragazzo aveva risposto che per lui sarebbe stato più che soddisfacente vivere lì per sempre. Elimar, ad ogni modo, era stato un bel po' previdente e aveva pensato a tutto, persino a pagare al loro posto la prima quota d'affitto; inutile era stato dirgli che non avrebbe dovuto prodigarsi fino a tal punto. Vargos era semplicemente uno di quelli che aiutavano il prossimo senza farsi problema alcuno e aveva accettato di buon grado di ospitare Irene a casa propria. Malgrado Casey e Noah avessero tentato di convincerla a restare lì con loro, lei si era permessa di ricordare a tutti e due che, da coppia novella qual erano, avessero giustamente bisogno di un po' di sana privacy e di calma. Li aveva rassicurati affermando che sarebbe stata benissimo da Vargos. Erano amici d'infanzia, d'altronde, e Irene aveva ammesso con i due di voler tenere d'occhio Elimar perché, testuali parole, qualcosa in lui non la convinceva. Non le era parso del tutto sereno e voleva vederci chiaro.

L'appartamento, comunque, era abbastanza spazioso, sarebbe stato perfetto per i primi mesi e a Casey non piacevano in ogni caso i luoghi troppo grandi. Noah era abituato ad abitare in un condominio, perciò per lui non c'era alcun problema ed era soddisfatto quanto il giovane Leroin di quella nuova sistemazione.
Avevano scoperto, tra l'altro, che nelle vicinanze v'era un ristorante e quella sera, probabilmente, sarebbero andati a mangiare fuori o forse avrebbero ordinato una cena a portar via. Stanchi com'erano, però, era probabile che avrebbero optato per la seconda possibilità.

L'arredo non sembrava granché moderno e pareva puntare di più su uno stile vintage che, in un certo senso, trasmetteva una piacevole sensazione di familiarità e calore. Era, si disse il giovane Leroin, il posto ideale dove iniziare una nuova vita e crescere dei marmocchi. Già riusciva a immaginare quelle due pesti muovere i primi maldestri passi sul lucido parquet e poi, più avanti, scorrazzare per il soggiorno, con buona pace degli occupanti del piano di sotto. E lui cosa avrebbe fatto? Che tipo di genitore si sarebbe man mano rivelato?

Sarebbe stato pasticcione, ansioso e affettuoso come sua madre o severo, burbero e tutt'altro che parsimonioso in fatto di rimproveri come suo nonno? Non riusciva ancora a inquadrare se stesso da quel punto di vista e ammetteva di avere più che mai paura di rivelarsi un semplice e irrecuperabile impiastro. Certo, ci sarebbe stato Noah al suo fianco, ma prima o poi si sarebbero presentate delle situazioni che gli avrebbero imposto di avere una identità ben definita in tal senso. Non poteva semplicemente lasciare tutto il lavoraccio a Noah, era chiaro, ma proprio non riusciva a capire come avrebbe fatto a riconoscere il momento in cui avrebbe dovuto mostrarsi severo e categorico o, invece, protettivo e permissivo. In tutta franchezza non ce la faceva a immaginare se stesso intento a rimproverare i gemelli dopo che avevano magari commesso qualche marachella o nella loro cameretta e in procinto di raccontare loro qualche fiaba per indurli a dormire.

La sua vera paura era di rivelarsi un incapace, non all'altezza di una simile responsabilità. Non per orgoglio o una sorta di incertezza dell'ultimo minuto. Temeva solo di crescere i propri figli in modo sbagliato e di fallire nell'incoraggiarli a diventare la migliore versione di se stessi.

Forse è presto per pensare a questo, si disse, cercando di non far galoppare troppo la mente e di rimanere concentrato sul presente. A piccoli passi, un giorno alla volta, ecco com'era meglio affrontare periodi del genere.

Si lasciò cadere sul morbido divano di stoffa verde e puntò gli occhi dorati su Noah che pareva altrove con la testa. Lo si vedeva da un miglio che non era realmente concentrato sull'intonaco color cipria. «Com'è che sei così silenzioso?» lo apostrofò.

L'uomo si riscosse e lo guardò. Sorrise di sbieco. «Niente. Pensavo solo che... beh, spero che le cose, stavolta, funzionino meglio.»

«Ovvero?»

McKay si sedé al suo fianco e strinse le spalle. «Venire qui mi ha ricordato di quando mi trasferii con Meredith in quell'appartamento. Le cose quella volta andarono male e... non lo so, inizio ad avere paura che di nuovo succeda qualcosa di brutto. Sai... tu al momento sei in condizioni molto delicate e tutto il resto. Non voglio restare di nuovo da solo in un posto capace solo di sbattermi in faccia il ricordo di ciò che ho perso senza aver potuto far niente per evitare che accadesse.»

Casey avvertì una fitta al cuore e gli si avvicinò. «Noah, io non vado da nessuna parte. Qui siamo al sicuro e lontani da Olegov. Se dovessero esserci delle complicazioni saprebbero come riprendermi in tempo. Non corro pericoli. Non qui.»

L'altro scosse la testa, gli occhi scuri che luccicavano pieni di amarezza e paura.

«Sei così giovane, Casey. Tu non...»

Il ragazzo pose l'indice sulle sue labbra per farlo tacere. «Andrà tutto bene, ne sono sicuro, me lo sento. Ormai ci rimane poco tempo prima del parto e voglio trascorrerlo al tuo fianco, così come il resto dei giorni che seguiranno dopo quella data.»

Noah cercò di pensare positivo, di pensare al futuro. «Cosa faremo, a quel punto?»

«Be', uno di noi dovrà trovarsi un lavoro, suppongo» replicò l'altro, pensieroso. «Credo toccherà a te. Per un po' voglio restare coi gemelli.»

«Mi sembra giusto» convenne Noah. «Però non dimenticare che hai vent'anni. Te li devi godere, Casey.»

«Non mi dispiacerebbe fare il genitore a tempo pieno, a essere sincero.» Casey tirò su le gambe e le reclinò dietro il sedere. «Ultimamente non faccio che pensare a loro, a che aspetto avranno, a come saranno da grandi. Cerco di figurarmi la nostra vita con loro a rischiarare ogni singola giornata.»

Noah sbuffò una risata. «Dimmi che non ti vedrò mai con un grembiule e per giunta a fiori o credo che chiederò il divorzio immediato.»

«Non siamo nemmeno sposati, stupido» borbottò Casey, imbronciato. «E comunque nessuno indossa più i grembiuli!»

L'uomo sghignazzò ancora e non replicò, limitandosi a scuotere la testa e guardare intensamente il ragazzo seduto al suo fianco, così come il modo in cui il sole che filtrava tra le fessure delle imposte rischiarava i suoi capelli color mogano facendoli sembrare color del rame. E dire che fino a giorni fa si era convinto che aver conosciuto lui e scoperto di quel suo mondo a parte fosse stato solo una specie di enorme trip mentale...

Invece era tutto vero, Casey lo era, e insieme a lui avrebbe costruito sulle macerie delle vicende passate un'esistenza nuova di zecca. Vargos gli aveva detto, tra l'altro, che, a differenza di Caverney Town, la città di Mythfield non aveva la pessima e segregazionista abitudine di chiuder fuori qualunque cittadino che non fosse Alphaga al cento per cento. Questo, aveva aggiunto Elimar che era al corrente della sua situazione un po' spinosa con il resto della famiglia McKay, gli avrebbe permesso di andare e tornare come gli pareva e quindi di rivedere i suoi cari senza problema alcuno. In quanto al rivelare loro o meno della sua reale identità, della sua vera natura, si trattava di una scelta che dipendeva soltanto da lui.

Noah non era del tutto certo che dire la verità ai suoi genitori e a sua sorella sarebbe stato saggio, almeno per il momento, ma era invece sicuro di voler far loro visita e, magari, di farlo accompagnato da Casey. Non avevano ancora affrontato l'argomento con serietà, ma per quel che lo riguardava ci teneva a far conoscere la propria famiglia al ragazzo che amava, visto che lui, d'altronde, aveva avuto modo di incontrare Milton e Lidia e di relazionarsi con loro. Non gli andava granché di nascondere Casey e tutto ciò che rappresentava a suo padre e a sua madre. Lo considerava offensivo nei confronti di Leroin e disonesto in generale.

Ad ogni buon conto, ci avrebbero riflettuto meglio più avanti. Attualmente a contare più di tutto il resto era il benessere di Casey e lui in primo luogo avrebbe fatto qualunque cosa per agevolare quel delicato momento in cui era tassativo che il ragazzo non subisse ulteriori traumi né incorresse in altre occasioni di intenso stress emotivo e fisico. Casey doveva riposare e prepararsi mentalmente al parto, avere la possibilità di oziare e trascorrere le giornate nel modo che più gli sarebbe stato congeniale. Considerando i loro recenti trascorsi appariva quasi inusuale e impossibile un quadro del genere, ma Noah intendeva impegnarsi a fondo per renderlo concreto.

«Credo proprio di amarti, sai?» disse a bassa voce, come se fosse un segreto tra di loro. «Ricordo cosa ci siamo detti e so che tu vuoi affrontare tutto un passo alla volta, ma io... io penso di essermi seriamente innamorato di te, Casey. È così e basta, non c'è un motivo.»

Fra di loro c'erano differenze abissali, specialmente in quanto all'età, al carattere e la vita che avevano condotto, eppure era come se fossero riusciti lo stesso a trovare un punto d'incontro. Ogni singola cosa accaduta aveva contribuito a unire le loro esistenze in un nodo che andava sempre più stringendosi e rafforzandosi.

Nonostante i retroscena riguardo la propria famiglia biologica e quella specie di predestinazione che pendeva sulla testa di entrambi, Noah McKay era certo che i sentimenti nei confronti di Casey non avessero a che vedere con quella storia. Erano nati in maniera spontanea, si erano fatti strada con prepotenza dentro di lui e per tale ragione aveva scelto di infischiarsene se, a quanto pareva, sin dal principio era stato stabilito che un giorno avrebbero percorso lo stesso sentiero uniti da autentiche nozze.

Erano sentimenti reali, non frutto di qualche tiro mancino del destino.

Il ragazzo tornò a posare gli occhi dorati su Noah. Quell'uomo gli piaceva da impazzire, ormai ne era certo, ma si sentiva ancora ignorante riguardo l'amore vero e proprio, non sapeva riconoscerlo né come capire di amare una persona nel vero senso della parola, eppure una cosa la sapeva con certezza: non avrebbe sopportato di venir separato di nuovo da lui. Voleva restare al suo fianco a qualsiasi costo, come se Noah fosse la calamita e lui il bullone.

Noah parve capire all'istante la sua confusione interiore e sorrise di sbieco. «Non devi rispondere subito, tranquillo. Io... ho voluto semplicemente dirtelo perché sentivo di dovertelo confidare, ma non devi sentirti in obbligo di niente.»

Sei così buono, Noah, pensò Casey, certo che tra non molto gli sarebbe esploso il cuore nel petto.

Fece per replicare, ma poi si bloccò e sorridendo prese una mano a McKay per adagiarla sul proprio ventre. «Senti un po' che casino che stanno facendo!» disse divertito e sì, anche un po' emozionato. Considerando tutto quel che aveva passato ultimamente, per lui era ormai una fonte di puro sollievo sentire ogni tanto i gemelli muoversi o scalciare nel suo grembo. Voleva dire che erano attivi e in salute, che stavano bene e fossero ormai impazienti di venire alla luce.

Noah si concentrò e percepì con chiarezza un lieve calcio sotto il palmo della mano. «Uno di loro potrebbe diventare il prossimo campione nazionale di arti marziali, a mio parere» disse scherzoso.

«O campionessa» lo apostrofò con un cipiglio severo e delizioso Casey.

«Di' la verità: speri che almeno uno di loro sia femmina» lo punzecchiò l'altro.

«Be'...» Cas arrossì vagamente. «Un pochino, in effetti, sì. Insomma: ci siamo già tu ed io in casa, quattro maschi sotto lo stesso tetto sarebbe la fine! E i ragazzini Alphaga sono quasi sempre degli scalmanati! Farebbero a pezzi questo posto, credimi!»

«Irene non mi sembra così calma» osservò Noah divertito. «Voglio dire, non dipende anche dal carattere?»

«Non più di tanto. Hai presente come sono i cuccioli di lupo o comunque i mammiferi simili a loro? Sempre a giocare, mordersi a vicenda e scorrazzare in lungo e in largo. Gli Alphaga, da bambini, specialmente i maschi, sono esattamente così.»

«Per fortuna so fare le riparazioni basilari!»

«Ora ci scherzi sopra, ma vedrai cosa succederà, nel caso fossero maschi entrambi. Dopo un po' ne usciremo pazzi tutti e due.»

«Come se fossimo sani di mente!»

Casey lo guardò male, allungò una mano e gli diede un pizzicotto piuttosto forte. «Ridi, finché puoi!»

Noah si massaggiò il braccio. «Oh, andiamo! Quanto potranno mai essere terribili?»

Cas sbuffò sonoramente e si sistemò meglio sul posto. «Senti, ti racconto questo, così avrai una mezza idea: io sono maschio solo per metà e sai cosa? Quando avevo sei anni fui capace di darmi così tanto alla pazza gioia durante le vacanze natalizie, che finii per mandare all'aria letteralmente l'albero che era già decorato e tutto il resto! C'erano palle colorate di vetro ormai in frantumi dappertutto e mia madre mi trovò avvolto nelle lucine come un dannato salame. Le prese un colpo.»

L'uomo scoppiò a ridere come un matto mentre si figurava in modo pressoché dettagliato e comico la scena. «Avrei voluto vederti!»

Casey lo fissò inebetito. «Hai capito, sì o no, cosa ho detto? Sono l'unico a prendere la questione seriamente, qui?» Sbuffò e roteò gli occhi nell'attesa che l'altro si calmasse. Il punto era che più Noah si arrischiava a guardarlo e più rideva di gusto. «Povera Lidia!»

«Già, e poveri noi se dovessero saltar fuori due maschi!»

«Oh, be', in quel caso avrò la macchina fotografica pronta!»

Il giovane Alphaga si schiaffò il palmo della mano sul viso. «Sei senza speranza.» Sospirò, scosse il capo e cercò di alzarsi, ma alla fine accettò l'aiuto che McKay, prontamente, fu pronto a prestargli. «Più passano i giorni e più mi convinco che la gravità mi detesti» borbottò il ragazzo. «Ormai ho un cumulo di nodi al posto della schiena.»

«Se vuoi, più tardi, ti preparo un bagno caldo» propose Noah. 

«Saresti un vero angelo» replicò sollevato Leroin mentre si domandava se sua madre e suo nonno avessero già iniziato ad acclimatarsi all'appartamento che si trovava proprio di fronte a quello in cui si erano sistemati lui e Noah. Era stata Lidia, malgrado qualche protesta di Milton, a scegliere di abitare in un altro alloggio che fosse comunque vicino, quanto bastava a essere subito dal figlio nel caso questi avesse avuto bisogno di lei per qualsiasi evenienza. Proprio come Irene aveva sottolineato che Noah e Casey, in quanto ormai coppia o qualcosa che si avvicinava di molto ad essa, necessitassero di privacy e di tempo per abituarsi alla nuova sistemazione e vita sotto lo stesso tetto, e di certo non si sarebbero sentiti a loro agio in presenza sua e di Milton.

‟Ormai sei grande, tesoro. Sei un adulto e... beh... è giusto che tu abbia i tuoi spazi e la tua vita" aveva concluso Lidia, un po' commossa. 

«Sarà meglio iniziare a sistemare quelle poche cose che ci siamo portati dietro» sentenziò ravviandosi i capelli fulvi e ancor più lunghi rispetto a solo un paio di settimane prima. Una delle cose fastidiose della gravidanza per un Alphaga era che il suo corpo, man mano che la gestazione avanzava e richiedeva sempre più energie e risorse, iniziasse a lavorare a pieno regime e questo causava, tra tante altre cose, la crescita più veloce del consueto dei capelli, per esempio.

Una gran rottura. Non vedeva l'ora di partorire perché almeno così sarebbe stato libero di tagliarsi quella chioma indomabile e folta per sostituirla con un taglio decisamente più corto, comodo e gestibile. 

«Non ti andrebbe di aspettare almeno un paio di giorni?» suggerì cauto McKay. «Insomma, c'è ancora tempo.»

«Non ne sono sicuro e voglio che sia tutto sistemato all'arrivo dei gemelli. Avremo davvero un bel po' da fare, Noah, e non avremo il tempo materiale per occuparci di sistemare l'appartamento.»

Cavolo, sembro mia madre, pensò, sconvolto dalla propria diligenza, da quell'insolito spirito di organizzazione a scompartimenti stagni.

Ultimamente, tuttavia, si era fatto più irrequieto e, tralasciando la prigionia, ormai mal tollerava di restare fermo e seduto nella più totale inerzia. Per qualche ragione non lo sopportava proprio, quindi, forse, non era questione di esser cambiato o meno, ma di agitazione e ansia verso un momento topico che era sì e no alle porte.
Se all'inizio della gravidanza avrebbe dato chissà cosa pur di starsene sempre in panciolle e oziare, magari rimpinzarsi di ogni genere di leccornia che gli capitava sotto tiro, ora il solo pensiero di stare fermo lo riempiva di inquietudine, anzi lo snervava.

Non che muoversi fosse semplice con quella pancia che si ritrovava, ma spesso e volentieri avvertiva il chiaro e impellente bisogno di camminare, di muoversi, di fare qualcosa, qualunque cosa pur di essere dinamico. Per tale motivo non esitò oltre, recuperò i pochi bagagli che si era portato dietro e fece per prendere la valigia per portarla in camera. «Aspetta, la porto io» si offrì subito Noah, restio a permettergli di compiere sforzi non richiesti né necessari, ma Casey scosse la testa e, testardo come al solito, volle fare da solo. Riprese in mano il manico della valigia e sollevò quest'ultima da terra, cercando di non fare caso alla schiena che implorava pietà. Provò per ben due volte, ma alla fine dovette rinunciare. Sbuffando fece un passo indietro e si posò una mano alla base del ventre, sulle labbra un broncio che McKay, tra sé e sé, trovò adorabile. «Okay, fai tu» borbottò il ragazzo, sperando che quella tiritera potesse finire al più presto. Non gli piaceva esser trattato come un malato o qualcosa di molto fragile, mai gli era piaciuto essere accudito da quando aveva imparato a essere indipendente.

Una smorfia leggera gli contrasse le labbra quando poi, in camera, aprì la valigia e iniziò a tirar fuori i vestiti.

«Stai bene?» gli chiese Noah, di nuovo cauto.

Casey si limitò ad annuire un paio di volte. «Sì. Sono... sono solo stanco, credo. La fuga, il viaggio in macchina e in aereo, nonché altri vari sballottamenti...! Era ovvio che prima o poi chiedessero il conto, no?» Prese un po' di abiti fra le braccia, si diresse all'armadio e iniziò a stiparveli dentro, cercando di essere il più ordinato possibile. Non fu cosa da poco visto che lui e l'ordine erano due cose totalmente agli antipodi, cambiamento o meno.

Noah gli diede una mano e si rivelò leggermente migliore di lui nel mettere a posto i vestiti e il resto dei suoi pochi averi. Appena ebbero terminato, McKay vide il giovane Indigo avvicinarsi al letto e buttarsi su di esso stancamente.

«Cristo!» si lamentò Leroin. «Ho di nuovo fame.» Guardò implorante quello che poteva considerare a tutti gli effetti il suo compagno. «Noah, non potresti...?»

McKay sorrise di sbieco. «Ricevuto, Volpacchiotto. Faccio un salto al ristorante qui vicino. Ti va qualcosa in particolare?»

«Ucciderei per delle lasagne, ora come ora. Se non le hanno, andrà comunque bene qualsiasi altro tipo di pasta. Basta che sia saporita, magari piccante.»

«Certo che hai dei gusti strani» commentò ilare Noah. «Oh, beh! Vedrò di accontentarti. Torno il prima possibile, va bene?» Fece per uscire dalla camera da letto, ma Casey lo richiamò e gli fece cenno di avvicinarsi. Lui lo fece e non appena fu ad appena dieci centimetri di distanza dal comodo giaciglio, il giovane Indigo si tirò su, si sporse e, presogli il viso tra le mani, lo baciò. «Ancora non so se ti amo, ma sappi che per il momento ti adoro come adoro i popcorn al caramello salato» disse poi, tra il serio e il faceto. Gli occhi che brillavano come se in essi la vita stesse pulsando al pari di luce siderale. 

Noah, conscio che non sarebbe riuscito a comunicare con le parole ciò che stava provando in quel preciso momento, decise di tornare a baciare il ragazzo con dolce e delicato trasporto. «Devi lavorare un po' sulle metafore, comunque» lo punzecchiò sottovoce. 

«Ma cosa dici? Cibo e galanterie vanno a braccetto, McKay. Aggiornati un po'» lo rimbeccò Casey, pur sapendo di aver appena detto una scemenza. 

«Come no!» rise Noah.

«E sempre parlando di cibo, sbrigati ad andare o stavolta comincerò sul serio a rosicchiare tutti i mobili!»

Capendo la solfa, McKay lo baciò un'ultima volta prima di congedarsi e assicurargli che sarebbe tornato il più in fretta possibile.

Cinque minuti dopo che Noah se n'era andato, tuttavia, Leroin finì per addormentarsi, non facendocela oltre e avvertendo il bisogno di farsi anche lui una dormita decente dopo tanto tempo trascorso nel terrore di addormentarsi con la paura di non risvegliarsi più o, peggio ancora, di ridestarsi di nuovo in un'angusta cella della prigione.

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