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𝐗𝐗𝐗𝐕𝐈𝐈.𝐕𝐚𝐫𝐠𝐨𝐬


Capirono di esser stati finalmente graziati dalla fortuna quando riuscirono a raggiungere l'aeroporto senza intoppi, a ottenere i biglietti e ad imbarcarsi per il volo che li avrebbe condotti in Louisiana dove avrebbero potuto sul serio tirare un sospiro di sollievo.

Il viaggio durò sulle tre ore e in tale lasso di tempo Casey dormì quasi sempre. Noah, Irene, Milton e Lidia, invece, rimasero svegli e all'erta, non del tutto certi che fosse arrivato il momento di rilassarsi e cantare vittoria. McKay, poi, si ritrovò soggetto a una ancor più forte tensione quando, a un certo punto, dopo essersi scambiato di posto con Lidia per concedere alla donna di sedere accanto al figlio, dovette dunque accomodarsi accanto a Milton. Irene sedeva ad almeno due metri di distanza da loro e pareva impegnata a intrattenere una conversazione con la ragazza che le stava accanto e pareva avere un forte accento tedesco.

Ciò che Noah temeva era che Milton avesse potuto udire lui e Casey darsi alla pazza gioia fino a tarda ora. Non solo ciò lo avrebbe sottoposto a un tremendo imbarazzo, ma anche alla paura che l'anziano Alfa decidesse di rifilargli una metaforica tirata d'orecchi come aveva fatto con Samuel. Ad ogni modo, Milton non diede l'impressione di aver qualcosa da rimproverare a McKay e si mostrò con lui piuttosto interessato ad argomenti del tutto normali e tipicamente da conversazione.
Noah alla fine si rilassò e parlò con il nonno di Casey senza farsi problemi, rispondendo alle sue domande che avevano il vago sapore di una sorta di scrutinio, il tipico terzo grado di un nonno che voleva a tutti i costi sapere di più sul conto della persona frequentata dal suo adorato nipote.

«So a cosa stai pensando» disse poi Milton, sorridendo di sbieco. «È vero: in parte voglio conoscere meglio l'uomo per il quale Casey ha perso la testa, ma... dall'altro mi piacerebbe sapere che hai avuto una vita tutto sommato tranquilla e appagante.»

Noah capì all'istante a cosa alludeva. Sapeva dei trascorsi di Milton con i Rivera e probabilmente il vecchio Leroin si era sentito per anni e anni in colpa per non aver saputo aiutare due persone che gli erano molto care né il figlio della coppia, ovvero lui. «Signor Leroin...»

«Bah! Chiamami Milton, ragazzo» lo interruppe l'anziano Alfa. «Niente formalità. Ti conosco da quando eri nel grembo di tua madre, dopotutto.»

Seppur abituato a dare del lei per puro rispetto a una persona anziana, Noah decise di dargli del tu come gli era stato intimato di fare: «Se ho ben capito, all'epoca avevo appena un anno. Non ricordo nulla di quella notte, ma penso che... quanto accaduto ad Amos e a Meghan nessuno avrebbe potuto impedirlo o prevederlo. Di certo non è stata colpa tua».

«Lo è stata eccome» lo contraddisse amareggiato Milton. «Conoscevo Olegov e la sua terribile fama. Sapevo cosa pensava del fatto che un ibrido fosse venuto al mondo nella città che considerava sì e no di sua proprietà e conoscevo la sua opinione sui Rivera. Li odiava perché erano amati e potenti, rispettati dalla comunità. Amos, poi, a più riprese aveva dimostrato di essere uno che non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa da un prepotente, neppure se si chiamava Stefan Olegov.» Sospirò. «Vedi, Noah... Amos era ciò che potremmo definire un attivista, per certi versi. Si impegnò molto per cause che tanti altri reputavano perse in partenza. All'epoca, alla fine degli anni Ottanta, tra gli Alphaga, in ogni città e distretto appartenente ai loro domini, vi furono dei tumulti, a volte molto violenti. Diamine, pareva il finimondo! Omega che si riunivano e protestavano, che marciavano per le strade chiedendo che i loro diritti venissero rispettati, rivisti e ampliati. Facevano paura a tanti di quelli che invece avevano una mentalità ferma ai principi di una volta. L'emancipazione è una spina nel fianco per chi desidera che tutto rimanga esattamente com'è.»

«Che cosa li spinse ad alzare la voce?» incalzò Noah, incuriosito dalla storia in sé per sé e volendo anche sapere quale fosse stato il ruolo di Amos Rivera in tutto ciò.

«Mettiamola così: all'epoca era ancora concesso a un Omega di frequentare la scuola solo fino ai quindici anni. Dopo ciò il loro percorso di istruzione terminava perché, a detta di certi parrucconi, non avevano bisogno di un titolo di studio per fare ciò che erano nati per fare: sposarsi, sfornare marmocchi che a loro volta avrebbero trattato come feccia individui tali e quali a chi li aveva messi al mondo e, nel frattempo, star zitti e tenere la testa bassa mentre si occupavano di tenere la casa in ordine e far trovare ai compagni un pasto caldo in tavola. Un pianto, in breve.»

«Aspetta, vuoi dirmi che non era concesso loro studiare né magari trovarsi un lavoro?»

«Proprio così. Questo, come puoi immaginare, li rendeva del tutto succubi dei loro compagni, costretti a vivere sotto lo stesso tetto con qualcuno che nella metà dei casi non erano stati loro a scegliere di sposare. Spesso accadeva loro cosa accadde prima a mia figlia e poi a mio nipote: un Alfa bastardo li prendeva con la forza, li metteva nei guai e poi, come se nulla fosse, li accalappiava e costringeva a recitare la parte della coppietta felice. Erano gli stessi che poi, magari, tornavano a casa sbronzi fino all'osso, discutevano con il poveretto al quale avevano rovinato l'esistenza e per farlo stare zitto lo picchiavano selvaggiamente fino ad ammazzarlo. Accadeva spesso, in realtà succede ancora e non tutti sono così fortunati da nascere in una famiglia che vive nel presente.»

«Oh, Dio» esalò McKay, disgustato e inorridito. 

«Quello che però accese la scintilla delle proteste fu il caso di Blair Morrison. Ricordo ancora quando lo lessi sul giornale, ovviamente uno di quelli che divulgavano notizie solamente sulla mia specie. Mi vennero i brividi.»

«C-Che cosa gli accadde?»

«Il poveretto venne ammazzato. Aveva la stessa età che ora ha Casey: vent'anni. Vent'anni e con già tre figli a carico. Scrissero che, in base alle testimonianze dei parenti e i pochi amici che aveva, fosse scappato di casa per sfuggire a un matrimonio dove gli abusi erano all'ordine del giorno. Si era sposato a sedici anni con un Alfa ventunenne con il quale era stato una sola volta e che lo aveva messo in guai che sicuramente avrai già indovinato. Non ebbe scelta e le loro famiglie li costrinsero a sposarsi prima che la pancia fosse troppo visibile. Purtroppo, però, perse il bambino un mese dopo il matrimonio e dicono che da allora in avanti la relazione iniziò a logorarsi sempre di più. Quel delinquente tornava dal lavoro e trovava sempre una scusa buona per insultarlo e denigrarlo. Blair, stando al parere dei genitori, aveva un carattere esuberante e rispondeva alle provocazioni che lo portavano però a subire violenza fisica, non solo verbale. Beh... dopo quattro anni di questo scempio Blair ne ebbe abbastanza e se ne andò di casa portandosi dietro i figli avuti uno dietro l'altro dopo lo sfortunato aborto spontaneo. Si diceva che non avesse fatto in tempo a darne alla luce uno prima di ritrovarsi nuovamente in stato interessante. Comunque... disse solo a un paio di amici dove sarebbe andato e loro provarono ad aiutarlo a trovare un posto dove stare, a procacciarsi un lavoro, ma nessuno voleva assumere un Omega, specialmente uno sposato e con dei figli a carico. La gente lo trovava disdicevole. Era inappropriato che volesse lavorare anziché tornare a casa dal marito che lo avrebbe mantenuto senza problemi.»

Noah non poté ripensare a Casey, alle volte in cui gli aveva detto che Simon lo avrebbe costretto a sposare Dominic. Probabilmente, se le cose non avessero preso una piega diversa, Casey avrebbe fatto la fine di quel ragazzo, di Blair Morrison.

Milton si sfilò gli occhiali da vista e si passò due dita sugli occhi. «Non si sa bene come se la passò in quei mesi Blair, ma si sa che alla fine fu costretto a fare l'unico lavoro che un Omega senza soldi, con dei figli e disperato, poteva fare in una società come quella: vendere il proprio corpo e prostituirsi in cambio di guadagni miseri. Chi lo aveva conosciuto in quel periodo lo descrisse come un ragazzo silenzioso e remissivo, uno che faceva tutto senza protestare e poi, appena aveva racimolato abbastanza soldi, correva in negozio a prendere ciò che gli serviva per nutrire i tre bambini che aveva con sé. Lo vedevano continuare a lavorare anche se aveva un occhio nero o una costola incrinata. Tanti clienti si comportavano come bestie e sembravano accanirsi su chi era giovane e attraente come Blair.»

Noah non era sicuro di voler sapere cosa fosse accaduto di preciso a quel ragazzo. Storie del genere lo facevano stare male per tanti e ovvi motivi. «Possibile che non ci fosse una specie di ente, un'organizzazione statale o roba simile? Qualcuno al quale potesse rivolgersi per avere un aiuto?»

«C'erano e ci sono tutt'ora, ma servono a ben poco e non vengono finanziati più di tanto. E comunque l'opinione di tanti era che Morrison se la fosse andata a cercare. Aveva abbandonato il marito e lo aveva persino privato della possibilità di vedere i figli. Secondo tanti si era meritato la fine che fece cinque mesi dopo essersene andato di casa.» Milton fece una pausa. «A chiamare le autorità fu un tizio che abitava vicino a lui, nello stesso palazzo malfamato: aveva sentito delle grida provenire dall'appartamento di Morrison, qualcuno discutere in modo acceso. Suoni di vetri che si infrangevano e il pianto terrorizzato dei bambini. Quando finalmente la polizia arrivò... trovò solamente il corpo senza vita di Blair Morrison: era stato picchiato e poi ucciso con un pezzo di vetro che...» L'anziano Alfa si passò l'indice sulla gola. «I figli non c'erano più. Le indagini vennero fatte e alla fine si scoprì che il marito era riuscito a rintracciarlo. Avevano discusso e Blair le aveva prese come al solito, ma il suo compagno quella volta si era talmente infuriato da aver ceduto a un raptus. Aveva visto i vetri a terra e fatto quel che aveva poi fatto, per giunta mentre il loro primogenito assisteva a tutto a sua insaputa. Quel bambino aveva solo quattro anni e aveva appena visto uno dei genitori massacrare l'altro a morte. Il più piccolo aveva meno di un anno e piangeva nella piccola culla che Blair era riuscito a portar via da casa. Uno dei figli aveva visto tutto, ma non venne considerato attendibile come testimone perché era troppo piccolo e quell'uomo, alla fine, se la cavò con appena cinque anni di detenzione. Le prove c'erano, le sue impronte erano ovunque sul corpo del suo sposo, ma era il figlio di un tizio con i soldi e aveva per giunta ucciso un Omega, il compagno che gli aveva portato via i figli e aveva violato le promesse matrimoniali concedendosi ad altri Alfa. All'epoca venivano perdonati questi crimini che servivano a ristabilire l'onore di un Alfa che era stato privato di rispetto e dignità agli occhi di tutti, ma chi era un Omega e aveva saputo di questa storia ne ebbe abbastanza. Era l'ennesimo crimine, l'ennesima vittima di un sistema corrotto che tutelava i forti e abbandonava a se stessi i più fragili.»

Milton sorrise mestamente. «Amos era fra gli avvocati dell'accusa che tentarono fino all'ultimo di ottenere giustizia per Blair Morrison» rivelò infine. «Si era trasferito proprio in quella stessa città per lavorare e farlo contando solo sulle proprie forze, senza avere l'aiuto dei genitori. Voleva cambiare le cose e sapeva che il caso Morrison poteva fare la differenza, per quanto orribile e ingiusto. Purtroppo lui e i suoi colleghi non vinsero la causa e fu solo perché in quel tribunale l'omertà regnava sovrana. Lui pensava che delle riforme che tutelassero gli Omega dovessero finalmente venir create e applicate con rigore e anche per questo scelse di tornare a Caverney Town: voleva portare nella città in cui era nato e cresciuto il cambiamento. Voleva una società migliore, perciò puoi ben immaginare cosa pensasse di uno come Olegov, Noah. Due giorni prima della sua morte e di quella di Meghan, io e lui parlammo. Mi disse che Stefan gli aveva fatto visita e in un certo senso lo aveva messo in guardia e avvertito che se non si fosse sbarazzato della sua compagna umana, ci sarebbero state gravi conseguenze davanti a un simile affronto per la loro specie. Aveva paura, glielo lessi negli occhi, ma non abbastanza da rinunciare a Meghan e a te. Soprattutto a te.»

Quando guardava Noah, Milton non poteva far a meno di rivedere quel frugoletto di appena un anno di vita che gattonava verso il padre e levava le piccole braccia verso di lui per farsi prendere in braccio. Rivedeva la solare e radiosa Meghan portarlo a spasso con la carrozzina lungo i marciapiedi bianchi della città in compagnia di Amos e fermarsi per rimboccare al bambino le coperte.
Lo rassicurava che Noah avesse avuto comunque una famiglia accanto che si era presa cura di lui e gli dispiaceva che poi la sua vita avesse preso una triste e brutta piega quando la moglie era venuta a mancare.

Noah vinse finalmente la lotta contro il vago senso di colpa che lo coglieva ogni volta che indugiava con i pensieri sui suoi genitori biologici. Si sentiva in colpa nei confronti di coloro che lo avevano adottato, cresciuto e amato, eppure ormai conosceva la verità e sapeva di non esser stato abbandonato intenzionalmente e, anzi, di dovere la vita non soltanto a Meghan, ma a Cora, la moglie di Simon Tarren che all'epoca scelse di fare la cosa giusta, di essere abbastanza coraggiosa da rischiare di venir sorpresa dal dispotico e pericoloso marito e, forse, fare a sua volta una brutta fine.

Irene gli aveva raccontato tutta la verità su quella fatidica notte che aveva cambiato il corso dell'esistenza a tante persone, nel bene e nel male. Sicuramente a John e a Lisa McKay i quali, quando ancora lui non sapeva di esser stato adottato, si erano limitati a dirgli che fosse arrivato in un periodo della loro vita in cui si erano convinti di non poter avere dei figli. La storia li aveva smentiti, visto che poi, alla fine, avevano dato il loro caldo benvenuto ad Annika, ma questo non aveva influito sull'affetto che Lisa e John avevano riservato in maniera equa a entrambi.

A fronte di tutto ciò Noah si sentiva terribilmente diviso. Voleva bene a Lisa e a John, sempre gliene avrebbe voluto e nel suo cuore erano loro i suoi genitori, ma ora che sapeva com'erano andate realmente le cose provava una sorta di rimorso verso Amos e Meghan, coloro che gli avevano dato la vita e concesso la possibilità di proseguirla, anche se questo aveva richiesto un prezzo alto, un prezzo che solo due genitori che amavano con tutto il cuore il loro bambino avrebbero avuto il coraggio di pagare.

Si sentiva un ingrato a non poter neppure ricordare i loro volti o le loro voci. Senza volerlo né saperlo li aveva dimenticati e sepolti in chissà quale anfratto buio e irraggiungibile del subconscio. Aveva ricambiato il loro sacrificio con un inevitabile e doloroso oblio.

Non sapeva neppure quale aspetto avessero avuto in vita e probabilmente mai lo avrebbe saputo. 

«Hai... hai detto che abitavano a Caverney Town, giusto?» disse dopo po', rauco. «Che cosa accadde alla loro casa dopo quella notte?» 

Milton lo guardò. «Non so fin dove tu abbia potuto fare la conoscenza della città, ma...»

«Simon si era convinto a far uscire di casa Casey e me, anche se solo in compagnia di Irene o un altro membro della famiglia.»

«Capisco. Beh, se la metti così, allora...» Il vecchio Leroin sospirò. «Vi è capitato magari di passare per Asphodel Road? È tra i quartieri di Caverney Town più benestanti e altolocati.»

«Asphodel Road?» Noah aggrottò la fronte e provò a ricordare. «Non mi dice niente» sentenziò infine, dispiaciuto.

Milton si aggiustò gli occhiali a mezzaluna sul ponte del naso diritto. «Lo immaginavo, tranquillo. Beh... la casa dove i Rivera hanno vissuto i loro giorni più lieti, dove tu stesso nascesti, si trova proprio là. Parliamo di una via dove abbondano case dall'aria antica e austera con giardini enormi e splendidi. In mezzo a quelle rigide e imbellettate vecchie signore di alta classe, però, c'è una bellezza esotica e diversa da tutte le altre che, nel suo periodo d'oro, sapeva farsi valere e risaltare grazie al sontuoso stile coloniale spagnolo sulla cui base venne edificata. Quella, Noah, è Villa Puesta de Sol, la casa dei Rivera. Ormai, però, è ridotta a un edificio abbandonato da tanti anni con le finestre rovinate, i cancelli arrugginiti e il magnifico giardino che ormai sembra una selva incolta che nasconde la facciata che una volta era stuccata di bianco. Tutti invidiavano ai Rivera Puesta de Sol e, ancora di più, l'aria che tirava fra quelle mura. I tuoi nonni paterni erano persone che non alzavano mai la voce né si scomponevano e tuo padre, Amos, era molto simile a loro, ma era anche un incallito anticonformista. Un rampollo di stirpe nobile che aveva scelto di guadagnarsi da vivere anziché campare di rendita. Pedro e Sarah non furono contenti, all'inizio, che avesse scelto di stare con una donna umana, ma Meghan riuscì a farli ricredere e Sarah, in particolar modo, andava molto d'accordo con la nuora. Alla giovane coppia venne lasciata Puesta de Sol e i genitori di Amos decisero di trasferirsi definitivamente in un'altra residenza di famiglia. La casa rimase così in possesso di Amos e Meghan fino alla sera della loro morte e da allora in avanti nessuno ha più rimesso piede là dentro. I Rivera erano morti, dal primo all'ultimo, e le famiglie con cui erano magari imparentati non vollero saperne di Puesta de Sol.»

Non c'era da biasimarli, pensò amareggiato Milton. Lui, all'epoca della tragedia, fu uno dei primi a correre sul posto augurandosi che in realtà la giovane coppia fosse riuscita a sopravvivere in qualche maniera; aveva sperato che la diceria secondo cui il loro unico figlio fosse stato sbranato dagli assassini di Amos e Meghan fosse nient'altro che una sciocchezza, ma aveva dovuto ricredersi non appena aveva visto due coppie di medici legali portare via un paio di barelle sulle quali giacevano corpi senza vita celati dai tipici sacchi per cadaveri. Ignorando lo sceriffo e gli agenti che gli dicevano di non entrare, aveva varcato la soglia dell'abitazione passando sopra la porta scardinata; aveva visto il caos che regnava là dentro, tracce di sangue appartenente sia a Meghan che ad Amos sparse un po' ovunque. Li avevano trovati per strada, poco lontani dalla villa e per quanto Milton avesse continuato a chiedere cosa ne fosse stato di Gabriel, tutti gli avevano ripetuto che il piccolo fosse svanito nel nulla, come se mai fosse esistito. Forse era stato rapito e portato via dagli assassini dei Rivera, forse invece era stato ucciso e abbandonato chissà dove. Lo sceriffo e gli agenti, in un caso o nell'altro, non si erano disturbati a tentare di rintracciare il bambino, sicuramente terrorizzati all'idea di ficcare il naso nei torbidi affari di Simon Tarren e Stefan Olegov.

«Soffrirono molto?» chiese Noah, facendosi finalmente coraggio e affrontando di petto la faccenda. 

Milton deglutì a vuoto. Per un istante vide davanti ai propri occhi il corpo senza vita di Meghan che giaceva su un tavolo da obitorio. Aveva preteso di vederli entrambi, sia lei che Amos. Aveva voluto andare fino in fondo e farsi del male, capire fin dove i loro aggressori avessero osato spingersi con la crudeltà e la violenza.

Meghan era stata picchiata brutalmente e ferita in molteplici parti del corpo dal chiaro passaggio di zanne e artigli. Nonostante ciò, se era vero quel che Irene gli aveva raccontato, era riuscita a resistere il più possibile, a implorare Cora, accorsa per fermare il marito e Olegov, di portare in salvo Gabriel, lontano dalla morte.

Amos, invece, aveva presentato l'aspetto di un guerriero morto combattendo e un'aria tutt'altro che serena e rilassata. 

Stroncati a ventiquattro e trentasette anni. Ancora giovani e con tanto da vivere, da vedere e da fare. Privati del diritto di crescere il figlio che tanto avevano desiderato. 

«Erano persone splendide e con coraggio da vendere» disse infine il vecchio Alfa mentre tornava a posare gli occhi lucidi e color dell'ambra su Noah. «È tutto ciò che ti serve sapere. Non chiedere come morirono, Noah. Chiedi come vissero, piuttosto, e loro vissero da persone corrette e decise a infischiarsene delle malelingue, di quelli che dicevano che Meghan avrebbe dato alla luce un bastardo fragile e che non sarebbe sopravvissuto al primo mese di vita. Dicevano che sarebbe morta anche lei come punizione per aver irretito un uomo come Amos, ma si sbagliavano.» Milton si volse e nel guardare di nuovo Noah un sorriso appena abbozzato, ma velato di dolcezza e calore, prese forma sulle sue labbra. «Si sbagliavano di grosso e conoscevo Amos e Meghan talmente bene da sapere che sarebbero stati fieri dell'uomo che sei diventato e diventerai ancora.»

Quelle parole ebbero su McKay un effetto dalle molteplici sfumature: dentro di sé, infatti, avvertì una sorta di peso sul cuore che andava sempre più sublimando e svanendo; si sentì rincuorato e decisamente meglio rispetto a come si era sentito sin da quando aveva saputo la verità sulle proprie origini. Sarebbe stato bugiardo e ipocrita a negare che quella verità non lo avesse mai minimamente intaccato. All'inizio forse aveva dato prova del contrario, ma più ci aveva riflettuto sopra e più si era reso conto di non poter ignorare quel passato che gli era impossibile ricordare. Era parte di lui, che gli piacesse o meno, e attraverso le parole di Milton finalmente aveva potuto conoscere, in un certo senso, le persone che gli avevano dato la vita e avevano poi dato la propria per il suo bene, affinché fosse lui ad andare avanti e a sopravvivere, a continuare il viaggio. La vita, d'altronde, non era proprio questo? E non era forse vero, purtroppo, che spesso ci si ritrovasse a dover intraprenderlo tramite vie tortuose o secondarie, strade che mai ci si sarebbe aspettati di dover imboccare?

Ripensò alla sera in cui aveva scorto Casey attraversare la strada a rotta di collo e rischiare di venire investito dalla sua auto. Ripensò alla semplice, eppure determinante, decisione di aver scelto di dare un passaggio a quello strano ragazzo, e poi ancora di ospitarlo, aiutarlo perché a suo parere fosse giusto farlo e non fermarsi alle apparenze, alla stranezza della situazione.

Era quasi impressionante realizzare che a esser state determinanti fossero state scelte in apparenza innocue, scelte disinteressate per le quali inizialmente si era preso in giro da solo, ripetendosi di essere il solito scemo che si faceva fregare dal prossimo per l'incapacità di dire di no a chiunque, di guardare altrove e ignorare il dolore degli altri. 

Ripensò anche a Meredith, a Vanessa, a come la morte di entrambe lo avesse reso più attento al dolore e alle difficoltà di chi gli stava di fronte. Prima di quei due tristi e logoranti eventi non era mai stato poi così tanto scrupoloso e capace di ascoltare sul serio, di vedere attraverso il velo invisibile che rendeva gran parte delle persone indifferenti e ciniche. Quel velo, nella sua vita, era stato squarciato dall'aver perso tutto ciò che amava in poco tempo, dall'aver dovuto fare i conti con la realtà e quanto potesse esser crudele e repentina. 

Non era sicuro che una volta, magari dieci anni addietro, avrebbe offerto il proprio aiuto disinteressato a Casey così su due piedi. Probabilmente gli avrebbe permesso di andarsene subito dopo avergli concesso di asciugarsi i capelli e gli abiti zuppi di pioggia. Si sarebbe detto che non fosse mai un bene ficcare il naso negli affari altrui e che comunque i guai di un perfetto sconosciuto non lo riguardassero affatto.

Non poteva non domandarsi, a quel punto, se dietro a ogni singolo attimo della sua vita vi fosse in fin dei conti una sorta di trama, di disegno, o se si fosse sempre trattato di casualità fini a se stesse e prive di un filo logico. 

Non avrebbe mai saputo la verità assoluta, ma gli piaceva pensare che l'esistenza di ogni singolo individuo fosse tutt'altro che casuale e priva di significato. Preferiva credere che ogni singolo gesto, ogni singolo evento, avesse un peso e determinasse il corso della storia del mondo. Magari una goccia solitaria poteva sembrare niente, ma unita a tante, tante altre, formava un intero e sconfinato oceano.

Gli piaceva pensare, a fronte di tutto quanto, che l'incontro con Casey, dopotutto, nel bene e nel male, non fosse stato affatto frutto del caso. Casey gli aveva permesso di trovare finalmente i tasselli della sua vita andati perduti per decenni e di conoscere fino in fondo l'uomo che per trentadue anni lo aveva guardato di rimando nello specchio. 

Sapeva di essere cambiato e quel cambiamento lo spaventava, era vero, ma la presenza di Casey e degli amici che si era fatto lungo quella tortuosa via lo aiutava a confidare nel futuro ed ad accettare che probabilmente sarebbe cambiato ancora e ancora. Il cambiamento era inevitabile, era ciò che rendeva ciascuna creatura viva e capace di adattarsi e di migliorare col tempo.

Forse, dopotutto, nel suo cuore c'era posto anche per Meghan e Amos. Chi poteva stabilire, in fin dei conti, cosa fosse una vera famiglia e quanti membri dovessero farne parte? Voleva bene a Lisa e a John McKay, ma sentiva che non rivolgere un minimo di rispetto e di affetto a coloro che gli avevano permesso di arrivare fino a quel punto incolume e vivo sarebbe stato ingiusto e da ingrati. Era grato loro per tutto quanto, ma soprattutto perché, anche grazie al loro contributo, alla fine era riuscito a ritrovare un punto dal quale ripartire dopo che la sua esistenza si era interrotta con la morte di Meredith. Lo aveva ritrovato nelle vesti di un bizzarro ragazzo dai capelli rossi e con un piccolo, grande segreto celato sotto la maglietta e nello stesso codice genetico.

Casey lo aveva riportato a casa senza saperlo né essersene reso conto e Noah era felice che lo avesse fatto, anche se i momenti che avevano condiviso erano stati spesso tutt'altro che sereni. Era stato grazie a quelli che lui era cambiato e aveva riscoperto dentro di sé una forza che mai avrebbe pensato di possedere: quella di poter fare la differenza e cambiare, almeno un minimo, l'andamento della vita altrui in meglio.

«Milton...» Noah si umettò le labbra, la voce arrochita dal turbine di emozioni che stava provando. «Io... io sono felice di far parte della tua famiglia, della famiglia di Casey. Vorrei solo... vorrei solo che la mia potesse conoscere quella di cui sto entrando a far parte adesso. Vorrei poter dire a mia madre e a mio padre, a mia sorella Annika, tutta la verità. Vorrei che fossero qui con me per vedermi in pace con me stesso e felice.» Abbassò lo sguardo per celare, in un accesso puramente istintivo e dovuto alla sua indole un po' riservata, l'evidente luccichio che in esso campeggiava.

Milton alzò gli occhi al cielo e sospirò, muovendo una mano come a voler scacciare una mosca. «Perdiana, ragazzo! Casey dice che sei sveglio, ma dicendo certe cose mi spingi a pensare il contrario!» Vide l'espressione interrogativa di McKay e sorrise di sbieco. «Non hai ancora imparato, Noah McKay, che la vita è troppo imprevedibile perché qualcuno possa dire che una cosa non potrà mai succedere o avverarsi?»

L'ibrido finalmente capì il senso del discorso e in esso intravide un debole e fragile barlume di speranza. La speranza di poter prima o poi trovare il coraggio di parlare di tutto quanto con la sua famiglia, così come l'immensa fortuna di vedere Lisa, John e Annika credergli e accettare la verità.

L'aereo era appena atterrato all'aeroporto Louis Armstrong quando Noah, tornato accanto a Casey dopo la conversazione avuta con Milton, si vide costretto a svegliare il giovane Indigo e a fargli presente, con calma e pazienza, che erano finalmente arrivati a destinazione.

Casey, ancora assonnato e intontito, si guardò in giro con aria ebete. «Come, di già?» biascicò celando uno sbadiglio dietro a una mano. Si stiracchiò al meglio delle proprie possibilità e, nel farlo, di non cacciare inavvertitamente un occhio a Noah. «Proprio quando stavo facendo un bel sogno dopo mesi e mesi di incubi» aggiunse in un sommesso e polemico borbottio.

McKay soffocò una risata. «E cosa stavi sognando?» incalzò incuriosito. 

Il ragazzo sorrise di sbieco. «Non saprei spiegarlo a voce e anche se so che era bello, non lo ricordo bene. So solo che c'eri anche tu e che mi sentivo felice. Persino in pace.» La sua espressione subì un debole mutamento e non parve più così convinta, tanto che anche Noah smise di sorridere e gli chiese, piuttosto, se qualcosa non andasse. Casey deglutì e si sfiorò il ventre. «N-Niente di che. Una specie di fastidio, tutto qui. Insomma, è normale, no? Guardami! Sembro un palloncino prossimo a esplodere.» Non pensava che qualcuno potesse dargli torto, dopotutto. Dubitava che il suo corpo avrebbe tollerato di ospitare ancora a lungo due gemelli dallo sviluppo ormai così avanzato. Poco ma sicuro, il fatto che fosse mingherlino non aiutava.

Noah lo squadrò con una certa cautela. «Penso che, appena potrai, dovrai andare a farti visitare prima... prima del parto, ecco. Giusto per essere tutti più tranquilli.»

«Credici o meno, non ho nulla da ridire» replicò Casey mentre si alzava dal sedile con l'aiuto di Noah che, non vedendolo molto stabile, non allontanò il braccio con il quale cingeva al ragazzo le spalle. Seguirono Milton, Lidia e Irene lungo il corridoio e poi, pochi minuti dopo, giù per la scaletta. Per almeno due volte McKay dovette frenare con discrezione Casey dal cedere all'impulso di spingere i passeggeri davanti a loro che, a suo parere, stavano scendendo la scala troppo lentamente per i suoi gusti. Il giovane Indigo non volle saperne di smettere di borbottare e inveire contro la gente che se la batteva alla pari con le lumache neppure mentre si spostavano dalla pista di atterraggio all'aeroporto vero e proprio. Ebbe pace solo quando gli altri cedettero alle sue bizze e decisero di fermarsi in uno dei ristoranti all'interno dell'edificio per mangiare qualcosa.

«Per fortuna abbiamo ancora un po' di tempo» disse Irene mentre guardava Casey divorare un cheeseburger a suon di voraci e deliziati morsi. Storse un po' la bocca e arricciò il naso. «Che cavolo, Cas! Sul serio, ha ragione Milton quando dice che mangi come un cane randagio che non tocca cibo da settimane!»

Il ragazzo scoccò un'occhiataccia al nonno e quest'ultimo tossicchiò. «Beh, non ho proprio torto» si difese. «E poi dovresti mangiare qualcosa di sano e sostanzioso.»

«Al diavolo. A casa sua mi rifilavano fegato e spinaci» bofonchiò Casey accennando a Irene e alludendo alla dieta cui i Tarren lo avevano costretto durante i primi mesi di forzata permanenza a Daffodil Manor. 

Irene sospirò. «D'accordo, un punto per te, ma non dovresti passare da un estremo all'altro» disse accomodante. «Giusto, Noah?»

McKay fece la spola con gli occhi da lei a Casey e viceversa. Non poté non sentirsi vagamente sotto processo. «Uhm... beh... penso che per una volta non possa fargli così tanto male» decretò alla fine, preferendo una via di mezzo che accontentasse ambo le parti. «Cambiando argomento, Irene: ora che siamo qui all'aeroporto e a New Orleans, cosa si fa?» A suo parere sarebbe stato meglio adoperarsi per chiamare un paio di taxi o qualcosa del genere. 

«Non preoccuparti, Noah» intervenne Lidia. «Irene ha pensato anche a questo.»

«Ben detto» fece la ragazza con un bel sorriso. «Quando prima ho detto che avevamo ancora un po' di tempo, intendevo dire che tra non molto verrà qualcuno a prenderci per accompagnarci a Mythfield.»

Casey, il quale intanto aveva terminato il panino e iniziato a gustarsi le patatine guarnite da una cremosa salsa al cheddar, fu il primo a capire al volo e spalancò gli occhi: «Vuoi dire che sarà Vargos stesso ad accompagnarci?»

«Esatto. In teoria avrebbe voluto chiedere a Ragos di occuparsene, ma lui non era disponibile.»

«Non poteva incaricare qualcun altro? Voglio dire... se ho ben capito... è il capo della città, del distretto locale e tutto il resto. Non sarà già abbastanza subissato d'impegni?» incalzò Noah, un po' perplesso. 

«Beh, è una situazione molto delicata e diversa dal solito» spiegò la giovane Tarren. «È buono come il pane, ma non un ingenuo e non si fida a priori di tutti quelli che lo circondano, specialmente quando la situazione è legata strettamente a Olegov. Non mi sorprende che abbia scelto di venire lui stesso qui per scortarci al sicuro nella sua città. Non vuole correre insensati rischi e penso che in fin dei conti sia curioso di conoscervi dopo che per telefono gli ho raccontato per filo e per segno tutta la storia o quasi.» Rivolse un'occhiata complice a Noah. «È rimasto colpito soprattutto dalla tua situazione. Non credo abbia mai avuto modo di incrociare un ibrido ed è famoso per essere curioso come un furetto.»

Noah arrossì lievemente. «Pensavo che magari a Mythfield avrei trovato qualcuno che fosse simile a me» ammise. «Non ci speravo troppo, però. Se gli ibridi sono rari le probabilità di incrociarne altri sono scarse, suppongo.»

«Non hai nulla di diverso da noi» gli ricordò Casey in tono deciso. «Non parlare di te stesso come se fossi qualcosa di diverso dal resto degli Alphaga. Siamo tutti uguali.»

Milton intervenne e lo fece con discrezione: «Per quanto il tuo discorso sia corretto dal punto di vista morale, ragazzo, credo che tu non abbia del tutto compreso bene cosa significhi appartenere a due specie diverse come quella umana e quella Alphaga. Non è affatto la stessa cosa, Casey, e credo che Noah questo lo abbia capito sin da quando ha scoperto di non essere un semplice essere umano».

«Non sbagli» ammise McKay. «E un po' mi spaventa che molti Alphaga vedano quelli come me come creature che non dovrebbero esistere, come... abomini.»

«Noah...»

«Pensaci, Casey» continuò Noah, interrompendo il giovane Indigo che sicuramente voleva contraddirlo. «Sembra quasi che avere a che fare con un ibrido non porti che guai. I miei veri genitori ci hanno rimesso la vita e qualcosa mi dice che se il sottoscritto non fosse nato, magari Olegov li avrebbe lasciati in pace o loro avrebbero comunque avuto più possibilità di cavarsela. Forse ora Amos e Meghan sarebbero ancora vivi.»

«Ciò non significa che loro abbiano sbagliato a proteggerti» insisté Casey con durezza. «E non vuole neppure dire che a Mythfield ci siano individui che la pensano come Olegov.»

«Dillo ai bastardi che hanno fatto fuori la cugina di Idris» si lasciò sfuggire Noah. Appena si rese conto di aver detto qualcosa che non avrebbe dovuto dire, non senza il benestare di Pothier, trattandosi di un argomento estremamente personale e confidenziale, capì che era tuttavia troppo tardi.

«Che vuoi dire?» fece Irene perplessa.

McKay, pur odiandosi per aver parlato troppo, si arrese e spiegò a tutti loro cosa era accaduto a Olivia, la cugina ormai defunta di Idris. Spiegò anche di come fosse stato proprio l'assassinio brutale e ingiustificato di quella ragazza ad aver condotto Idris a conoscere Vargos Elimar e, dunque, a ritrovarsi in debito con quest'ultimo. «La uccisero solo perché non voleva aver a che fare con loro né accontentarli. Per un semplice rifiuto, certo, ma anche perché era una strega e agli occhi di quei delinquenti era un essere inferiore che avrebbe dovuto solamente tacere e obbedire ai capricci di Olegov. Chi uccise Olivia risiedeva molto probabilmente a Mythfield e questo significa che qualcuno la pensa ancora alla vecchia maniera su tante cose.»

«Mio Dio» esalò Lidia, inorridita e angosciata. «Povero Idris! E quella ragazza...» non aggiunse altro, incapace di esprimersi riguardo ciò che pensava sul conto di una faccenda così terribile e triste. Era anche furiosa, però. Furiosa con Stefan Olegov che sembrava aver consacrato la propria intera esistenza a far del male al prossimo. Nessuno meglio di lei sapeva quanto quell'individuo sapesse essere perverso e privo di coscienza. 

«Decisamente nello stile di quel farabutto» commentò sprezzante Milton. «Arriva e spadroneggia su chiunque convinto di poter avere sempre ciò che vuole. Dopo ciò che ha fatto alla mia famiglia non rimango più stupito di fronte a niente che abbia a che fare con Olegov.»

Casey, tuttavia, stava pensando a qualcos'altro. «Non riesco a capire a cosa gli servisse l'operato di una strega» disse pensieroso. «Non capisco se abbia a che fare con quella storia del sacrificio degli Indigo, di Lykos e tutto il resto, o se abbia anche altri piani in mente. Idris non ti ha detto che cosa volevano quegli Alfa da sua cugina?»

«No» sospirò Noah. «E non mi sembrava appropriato insistere. Mentre mi raccontava tutto Idris pareva ancora scosso, anche se penso che siano passati degli anni dalla morte di Olivia. Era evidente che fosse importante, però, così tanto da valere la vita di una ragazza innocente.»

«Magari lui e Vargos ne parlarono, almeno una volta, mentre collaboravano per trovare i responsabili della morte di Olivia» ipotizzò Irene. 

«Sarebbe troppo chiedere a Vargos qualche spiegazione in più, non appena sarà qui?» domandò Casey, speranzoso. 

«Potrebbe andare, ma secondo me dovrebbe farlo Noah. Così almeno darà l'impressione di aver mantenuto con noi il silenzio sulla questione di Olivia.»

«Non sarebbe un po' troppo azzardato fargli una domanda del genere a bruciapelo? Voglio dire... prima gli stringo la mano e mi presento e poi, cinque minuti dopo, ecco che sono lì a chiedergli dettagli su una questione che non mi riguarda?»

«Oh, andiamo, Noah!» si lamentò Casey dopo aver ingollato l'ultimo boccone di patatine. «È importante! La questione di Olivia potrebbe anche essere connessa a cos'è successo a me, per quel poco che ne sappiamo. Olegov ha dei piani ben precisi e io intendo mandarli tutti all'aria. Non ho intenzione di restarmene nascosto a Mythfield senza approfittarne per vendicarmi a dovere di quel che ho dovuto passare nell'ultimo anno. Quello lì merita solo di esser preso a calci nei denti!»

«Tesoro...» 

«No, mamma. So cosa vuol dire quella faccia e la risposta è no: non lascerò stare. Olegov la deve pagare!» 

Lidia sospirò. «Lo so, ma non voglio che tu corra altri rischi» replicò, quasi supplicando. «È troppo pericoloso.»

«Non se non sarò da solo. Ho dalla mia parte Noah e Irene» insisté il ragazzo, accennando con l'indice prima a McKay e poi alla giovane Tarren. «E se ho ben capito, anche Vargos la pensa come noi. Anche lui vuole che Olegov la smetta di essere una spina nel fianco per il mondo intero. Unendo le forze potremmo farcela benissimo.»
Milton schiarì la voce. «C'è dell'altro che dovresti considerare, però» intervenne. «Fare quello che vorresti fare tu potrebbe scatenare nuove lotte intestine, persino una guerra tra clan. Parli senza neppure immaginare quale disastro potrebbe verificarsi, Casey. Chiedi a Vargos cosa significa assistere a una guerra che viene combattuta per le strade della città in cui sei nato, una guerra in cui senti urla, pianti, ruggiti di belve che si azzannano alla gola e ormai sono assuefatte al versare il sangue dei propri simili. Ora, come se non bastasse, possediamo molte più armi, tanto da non aver più bisogno di trasformarci per ammazzarci gli uni con gli altri. Sarebbe una carneficina e sai già che gli Alphaga continuano a diminuire di decennio in decennio. Se scoppiasse una guerra fra i vari clan, fidati che tra cento anni a venire non rimarrebbe più niente di noi.»

«Ma noi non vogliamo una guerra, Milton» si intromise Noah, ragionevole. «Vogliamo giustizia. Io, personalmente, voglio impedire a quel mostro di far del male ad altri come ne ha fatto a me, a Casey e a tutti quelli che sono presenti a questo tavolo. Qualcuno lo deve fermare.»

«Senza contare che non ho intenzione di vivere nel terrore di ricevere prima o poi una visita da parte di Stefan o dei suoi seguaci. Non voglio guardare i miei figli e avere sempre paura che possano venire rapiti o peggio. Meritiamo di vivere sereni, nonno, e togliere di mezzo Olegov è l'unica soluzione.» Casey afferrò il proprio bicchiere e ingollò un sorso d'acqua. «Non voglio che la nostra gente si faccia la guerra. Voglio solo vivere in santa pace, va bene? Non sono l'unico Indigo. Saremo pur rari, ma ce ne sono altri come me e in questo momento potrebbero essere a loro volta in serio pericolo. A differenza nostra gli Alfa vivono a lungo, nonno, e Stefan sembra godere di una durata vitale addirittura superiore alla media. Lo hai visto di recente? Non è un Alphaga normale. Ha sessantasette anni e al massimo sembra dimostrarne una quarantina ed è in forma smagliante. Non è normale, ti ripeto, e questo lo rende ancora più pericoloso.»

Irene deglutì e incrociò lo sguardo di Noah per un paio di secondi, poi: «Magari è vero quel che si dice sul suo conto. Magari venne sul serio sottoposto a degli strani esperimenti e forse... beh... quello di cui parli potrebbe essere uno dei tanti risultati di ciò che gli è stato fatto».

«Oppure ha a che fare con la stregoneria» rilanciò McKay. «Ho il dubbio che Olivia non sia stata la prima strega a venire interpellata da Olegov. Magari ha già avuto a che fare con le streghe.»

«Dimentichi che disprezza quella gente» gli ricordò Milton.

«Ciò non toglie che potrebbe aver comunque deciso di ingaggiare qualcuno con dei poteri magici che potesse soddisfare le sue assurde richieste. Non sarebbe la prima volta, nella storia, che qualcuno sfrutta qualcun altro per i propri scopi, pur disprezzandolo e ritenendolo inferiore» insisté Noah. «Appena avremo un attimo di tranquillità chiamerò Idris e gli parlerò di questa teoria. Forse potrebbe scoprire qualcosa o indagare.»

«Ottima idea» sentenziò Casey con un sorriso storto. «Cavolo, Noah, non ti facevo un Poirot sotto mentite spoglie.»

«Sta' zitto» lo rimbeccò McKay, sorridendo sotto i baffi. 

«Beh, sarà meglio andare» disse poi Irene in tono pratico, controllando l'orologio sullo schermo del telefono. «Tra pochi minuti Vargos sarà qui.»

Erano usciti dall'aeroporto da almeno venti minuti buoni quando Casey, per la sesta volta, chiese ad Irene: «Ehi, Barbie, sei sicura che il tuo amico non si sia dimenticato di venire a prenderci?»

Forse era lui a essere diventato oltremodo impaziente, ma iniziava ad averne abbastanza di starsene lì in piedi a guardare la gente andare e venire dentro e fuori dall'edificio alle loro spalle. Gli dolevano i piedi e aveva un gran fastidio alla schiena e ciò non faceva che esacerbare l'incipienza del cattivo umore che stava iniziando ad accusare e accumulare.

Irene sbuffò. «Ma che dici! Siamo in perfetto orario, invece.»

Leroin aprì la bocca per replicare in maniera ben poco garbata, ma la richiuse vedendo l'amica sorridere, sollevare un braccio e salutare qualcuno da lontano. Il resto del gruppo guardò nella medesima direzione in tempo per scorgere un uomo scendere da un van grigio chiaro e venire loro incontro mentre rispondeva al saluto di Irene e ricambiava con altrettanto calore il sorriso che la ragazza sfoggiava.
Lei, che era visibilmente contenta e sembrava non stare più nella pelle, scattò e lo raggiunse di corsa per abbracciarlo al volo. 

Doveva trattarsi, naturalmente, di Vargos: alto, prestante come un atleta dell'antica Roma, dotato di una folta chioma bionda come il grano maturo lunga fin oltre il collo che lo faceva sembrare un surfista saltato fuori da una serie televisiva degli anni Novanta. Gli occhi, protetti da lenti scure, erano pressoché impossibili da vedere. Su una cosa Irene e Idris avevano ragione: con addosso quei jeans attillati e scoloriti, la maglietta grigia e il giubbotto da biker dall'aria vissuta quell'uomo sembrava davvero un motociclista, uno di quelli che di solito era meglio non contraddire né provocare.

Casey dovette ammettere con se stesso che Vargos fosse proprio un gran bel ragazzo, ma tale pensiero lo indusse subito ad avvampare e a provare vergogna. Lanciò un'occhiata a Noah e si sentì male per aver pensato certe cose di un altro uomo subito dopo aver deciso di fare coppia con McKay.

Osservandolo, tuttavia, Leroin capì che anche Noah non era del tutto indifferente al bell'aspetto da moderno vichingo di Elimar. Quel tipo, semplicemente, era impossibile da ignorare e da fissare senza avere un po' di bava alla bocca.
Se tutto ciò si sommava al fatto che in quel momento, mentre procedeva verso di loro con accanto Irene, la luce del sole rifulgeva alle spalle di entrambi, ecco che Vargos sembrava quasi... un santo, una figura uscita direttamente da un quadro, di quelli che rappresentavano individui dall'aura mistica e trascendentale. 

Beh, accidenti, si disse Noah, avvertendo un certo senso di inferiorità nei riguardi di quell'uomo. Non era solo per via dell'aspetto esteriore, ma anche di qualcos'altro che avvertiva in ogni singola cellula del proprio corpo. Forse, si disse, la sua natura Alphaga aveva capito all'istante che nei paraggi vi fosse un Alfa, ovvero un altro esponente della specie superiore per forza fisica e anche dal punto di vista gerarchico.  Quella sensazione, per un attimo, parve voler imporgli a tutti i costi di retrocedere, persino scappare. Vargos non era minaccioso ed emanava senza dubbio vibrazioni positive, ma la sua natura di Alfa aveva comunque una certa incidenza e, secondo quanto spiegato da Casey, non ci si poteva fare granché. 

«Ehi, rilassati» gli disse a bassa voce Casey, rifilandogli una scherzosa gomitata. «So come ti senti, ma è normale.» 

«Lo so» replicò McKay. «Non ci sono ancora abituato.» Ancora una volta scandagliò l'alta figura che ormai era a meno di un metro di distanza da loro e, cedendo a un impulso del tutto istintivo che nulla aveva a che vedere con la ragione, strinse di più a sé Casey e fece scivolare il braccio dalle spalle del ragazzo ai fianchi che avvolse in una stretta sì delicata, ma salda, quasi territoriale. Con la coda dell'occhio vide le gote di Leroin assumere una vaga sfumatura rosea e le sue labbra da cherubino trattenere un sorriso. 

Irene, intanto, si era fermata accanto all'amico di vecchia data. Accennando a quest'ultimo con un gesto del braccio plateale disse: «Vi presento Vargos Elimar, ragazzi!»

Vargos si tolse gli occhiali da sole e nel farlo rivelò due occhi dalla conformazione leggermente a mandorla nei quali erano incastonate iridi grigie, limpide e magnetiche. Lo stesso colore dell'acciaio quando era stato appena tirato a lucido. Malgrado il loro colore freddo, ispiravano fiducia e mostravano con una buona dose di discrezione, anzi di autentica timidezza, un animo buono. Casey stesso, per quanto fosse un malfidente sì e no cronico, si ritrovò a non poter in alcun modo nutrire diffidenza nei riguardi di colui che, in fin dei conti, si era a sua volta messo in gioco per farlo fuggire di prigione tramite l'aiuto di Idris Pothier.

Vargos era proprio come Irene lo aveva descritto, specialmente riguardo al magnetismo naturale che egli emanava, il carisma spontaneo e la naturale propensione a essere un leader. Lo si avvertiva da metri di distanza che quell'uomo, buono come il pane o meno, era capace eccome di ispirare rispetto e non farsi mettere i piedi in testa, e ciò andava oltre il suo essere un Alfa.

Dominic Tarren, ad esempio, aveva sempre suscitato impressioni ben differenti in Casey e fra di esse il rispetto mai era saltato fuori.

Veniva quasi da pensare che Elimar fosse il JFK della società Alphaga della Louisiana e a quel punto non si poteva che sperare che non facesse la medesima fine di Kennedy. 

«Piacere di conoscervi» esordì Vargos, accogliendo subito la stretta di mano che Milton per primo volle scambiarsi con lui. «Lei dev'essere il signor Leroin, giusto?»

«Proprio così» affermò in risposta l'anziano Alfa. «Per me è un piacere conoscerla, signor Elimar. So di dover ringraziare anche lei se mio nipote è riuscito a sfuggire alle grinfie di Stefan Olegov.»

Elimar scosse la testa. «La prego, non mi dia del lei. Non ce n'è bisogno» fece, quasi fosse lui a sentirsi in soggezione nei riguardi di Milton. Probabilmente era per via della differenza di età e, pensò Casey, anche perché Milton, senza saperlo, era uno degli ultimi esponenti di un'autentica stirpe reale. «È stato un piacere rendermi utile e spero che il viaggio non sia stato troppo faticoso.»

«Oh, nessun problema!» lo rimbeccò il vecchio Leroin. «Sarebbe stato peggio fare tutta questa strada in auto, dopotutto.» Si volse e accennò alla madre di Casey. «Lei è mia figlia: Lidia.» 

Vargos strinse la mano anche a lei. «È bello conoscerla, signora Leroin. Appena ha saputo che l'avrei incontrata, Reese Alston mi ha chiesto di salutarla, a proposito.»

Lidia si bloccò e accigliò, poi parve finalmente capire di chi si trattava e spalancò gli occhi. «Oh, Dio! Reese?» esclamò incredula. «Ora ricordo! Andavamo a scuola insieme, almeno finché non si è trasferito con sua madre proprio qui in Louisiana! Era il mio migliore amico!»

«Adesso è il sindaco della città» la informò Vargos, sorridendo. 

«Accidenti! L'ultima volta che ci siamo sentiti aveva avuto un bambino e ora scopro che è diventato sindaco» commentò spiazzata Lidia. Non era comune venire a sapere che il sindaco di una città Alphaga fosse un Omega. Come disse subito dopo a Vargos, le era dispiaciuto che si fossero via via persi di vista per via della lontananza e della vita che, fra tanti impegni, lasciava poco spazio alle amicizie a distanza.

«Mi farebbe davvero piacere rivederlo dopo così tanto tempo. Sarebbe meno traumatico per me avere vicino una vecchia amicizia in una città che non conosco.»

Elimar fece un lieve cenno con il capo. «Quando saremo a Mythfield, allora, se vorrai ti accompagnerò al municipio.»

«Sarebbe perfetto» ribatté Lidia, realmente contenta all'idea di incontrare di nuovo Reese. 

Vargos, dunque, rivolse l'attenzione agli ultimi membri del gruppo. «Voi invece siete Noah e Casey, giusto?» li apostrofò entrambi con garbo. Era proprio vero che malgrado l'apparenza fosse da reputarsi un gentiluomo sotto mentite spoglie. Le sue maniere e il suo atteggiamento suggerivano che fosse stato cresciuto e istruito in un modo ben preciso che non poteva far a meno di emergere quando si relazionava col prossimo. «È bello conoscervi di persona, credetemi.»

«I soli e gli unici» rispose il giovane Leroin in tono lievemente ironico. «A proposito... grazie per aver chiesto a Idris di aiutare Noah e Irene a farmi fuggire da quel posto infernale. Pensavo di essere ormai spacciato, non lo nego.»

«Non ti biasimo» ammise Vargos, tornando serio e facendosi comprensivo. «Purtroppo ogni distretto Alphaga ha la possibilità di gestire certi luoghi come meglio crede e quello della Virginia e della Virginia del Nord ha opinioni parecchio discutibili su come indurre gli altri a rispettare le leggi. Le prigioni di quelle zone sono fra le peggiori e meno tolleranti.»

Casey si accigliò. «Vuoi dire che ogni distretto è libero di fare come gli pare? Voglio dire... non c'è un'autorità sopra le altre, persino sopra chi gestisce i distretti? Tutti pensano al loro orto e se ne fregano del resto?»

«In termini popolari, sì. Tempo fa, anzi molto tempo fa, era diverso, ma poi, come tutti sanno, la monarchia crollò e a quel punto vennero istituiti i moderni distretti che tu conosci. Non nego che si potrebbe fare di meglio, ma nel mio piccolo cerco di rendere il distretto della Louisiana un posto migliore e civile.»
Casey capì a cosa aveva appena alluso Vargos: la famiglia reale, ovvero gli antenati dell'attuale famiglia Leroin. «Beh, per fortuna ci sono anche persone come te che sanno ancora cosa sia la vera giustizia» concluse. «Detto fra noi...» si avvicinò e abbassò il tono di voce. «Mio nonno non sa nulla della questione del sangue blu e tutto il resto. Credo sia meglio farlo rimanere nell'ignoranza, almeno per il momento.»

Elimar si strinse nelle spalle. «Non preoccuparti. Nessuno a Mythfield ne farà parola. È acqua passata, ormai, e non sono d'accordo con i pochi che dicono che si stava meglio quando a capo di tutto c'era un solo individuo. Quel tipo di gestione ha portato a guerre tra clan infinite e alla morte di fin troppi innocenti. In tutta franchezza sono uno strenuo difensore della democrazia.»

Casey non poté far a meno di sorridere. «Siamo in due, allora. A me piace vivere da persona comune. Come ho detto ad Irene, non mi importa del passato, di chi erano i Leroin una volta. Ora siamo ciò che vedi e mi va bene così.» Il ragazzo guardò alle proprie spalle e fece cenno a Noah di accostarsi a loro. «Dai, Noah, non fare il timido» lo spronò, nella voce una sfumatura di tenerezza che indusse McKay a superare il nervosismo iniziale e a farsi avanti per scambiarsi una stretta di mano con Elimar. «P-Piacere di conoscerti» fece, quasi biascicando. «Suppongo tu sappia già chi e cosa sono.»

Vargos sghignazzò. «Sì, Irene è stata molto prolissa nel descriverti» commentò divertito. «E io... devo ammettere che ero curioso di conoscerti di persona, Noah. Non perché sei un ibrido e un Rivera, ma... per come sei riuscito a superare tutto ciò che è accaduto da quando hai incrociato Casey. Irene mi ha raccontato anche di quella faccenda, di Dominic, di Simon e di come poi tu abbia deciso di tornare per affrontare Olegov, un individuo che altri mai si sarebbero sognati di sfidare. Non capita spesso di incontrare qualcuno capace di fare la cosa giusta malgrado tutto.»

Noah non poté non rimanere colpito. «Beh, ma... dicono che Olegov non si sia ancora sognato di infastidire te o la tua città» disse, non poco perplesso. «E poi non sarei andato lontano senza Irene e senza Idris. Soprattutto senza Idris. Lui è stato di enorme aiuto, anzi fenomenale!»

«Eppure gli sei sfuggito dalle grinfie in più di un'occasione» gli ricordò con calma Vargos. «Magari per te sarà una semplice questione di fortuna, di aver ricevuto un aiuto enorme da parte di altre persone, ma... a conti fatti, Noah, sei uno dei pochi a poter dire di aver messo nel sacco quel mostro più volte e di essere ancora vivo per raccontarlo. Altri, molti altri, hanno subito una sorte peggiore.»

«Come i miei genitori, per esempio?» suggerì Noah.

«Come i tuoi genitori» confermò Vargos abbozzando un mesto sorriso. 

«Ehi, come mai tu e tuo fratello vi siete scambiati il compito di venire qui in aeroporto?» intervenne Casey per cambiare argomento. Ignorò appositamente l'occhiata torva di sua madre mentre Elimar rispondeva: «Da quel che ne so, aveva delle faccende da sbrigare a Shreveport.»

«Non potevi fargli presente che hai una intera città da tenere a bada?» lo apostrofò Irene, alzando gli occhi al cielo. 

«Beh, ormai siamo entrambi adulti e non posso impedirgli di fare quel che vuole, e poi sembrava aver davvero bisogno di cambiare aria per qualche giorno. Non me la sentivo di insistere troppo.»

Noah lo squadrò dubbioso. «Non ti dà granché retta o sbaglio?»

«In effetti non lo fa, ma... penso sia molto più giusto e sensato permettergli di fare le sue scelte. Io non posso che limitarmi a dargli dei consigli e sperare che decida di seguirli.»

«Così, però, non rischia di fare uno strafalcione?» chiese Casey, perplesso. «E comunque tu resti il capo.»

Vargos sghignazzò. «Sì, mi chiamano così, ma in realtà odio questa definizione. A Mythfield ci piace pensare alla nostra comunità come a una famiglia allargata e comportarci come tale. Non ci sono veri padroni o capi. Mi vedono come un punto di riferimento, come una volta facevano con mio padre, anche se a volte...» Scosse la testa. «Ah, non importa!» Sorrise di nuovo e agitò la mano per scacciare la questione, ma dall'espressione di Irene fu chiaro che lei avesse percepito che qualcosa in lui non andava.

«Puoi parlarne con noi» si permise di dirgli la ragazza.

«Non è importante, davvero» la rassicurò Elimar cristallino.

Il giovane Leroin, tuttavia, non riuscì a non pensare che quel tipo fosse uno di quelli che si preoccupavano troppo del prossimo e troppo poco per se stessi, tanto da arrivare a trascurarsi imperdonabilmente.

Noah schiarì la voce. «Non ti conosco abbastanza bene da sapere cosa stai passando o quali siano i tuoi pensieri» disse, «però credimi, Vargos: non bisogna mai commettere l'errore di dimenticarsi di se stessi. È il primo passo per prendersi cura veramente, e per bene, del prossimo. Io ne so qualcosa.»

Elimar deglutì. «Lo... lo capisco, ma... insomma, non è facile pensare alle mie necessità quando gli altri tendono sempre a rivolgersi a me per qualsiasi problema. La gente conta su di me e io non posso permettermi di deluderla o di essere egoista.»

«Il mondo non crollerebbe se ti prendessi una piccola pausa ogni tanto!» Noah gli fece l'occhiolino, anche se sapeva di non poter capire come dovesse essere avere così tante aspettative da rispettare e da onorare. Per un attimo, uno soltanto, gli parve quasi di scorgere negli occhi grigi di Elimar qualcosa simile allo sguardo di un prigioniero che implorava di essere liberato. Fu solo un momento, per l'appunto, poi tutto svanì e Vargos tornò ad essere tranquillo, amichevole ed espansivo. «Sarà meglio andare, adesso. Sicuramente sarete stanchi e ci vorrà un po' per arrivare a Mythfield.»

Il giovane capo degli Alphaga della Louisiana si offrì di portare almeno i bagagli di Casey, così da non fargli compiere troppi sforzi. «Tu non hai portato niente con te?» chiese confuso a Noah.

McKay si strinse nelle spalle. «Sono tornato a Caverney Town in tutta fretta, come sai, e nel trambusto generale non ho pensato a nient'altro che a tirar fuori Casey da quel posto. Non potevo aspettare oltre, non dopo aver saputo che lo avevano arrestato e tutto il resto.»

«Lo capisco» commentò Vargos. «Non preoccuparti. Appena saremo arrivati, troverai tutto ciò di cui hai bisogno.»

Benché avesse l'aspetto al massimo di un venticinquenne, quel giovane leader, come ebbero modo di constatare Noah e Casey durante il viaggio, possedeva una maturità non indifferente e una capacità di giudizio che lo rendeva comprensivo e altruista, almeno con chi se lo meritava.

Casey si sporse per incrociare il suo sguardo nello specchio retrovisore. «È sempre stato così a Mythfield? Voglio dire... siete sempre stati tutti in pace gli uni con gli altri?»

Gli parve di intravedere un sorriso appena accennato e malinconico sulle labbra di Vargos.

«No, in effetti no. Per un bel po' di tempo ci sono state faide su faide, per il territorio e il fatto che alcuni fossero a favore della politica d'uguaglianza della mia famiglia, e altri invece volevano adottare il medesimo regime che tu conosci bene. Alla fine vinsero i progressisti, ma fu allora che mia madre morì, durante uno degli ultimi scontri decisivi. Fu una lotta sanguinosa, fratelli che sbranavano fratelli, era un vero inferno e io, purtroppo, per sì e no gran parte della mia infanzia, fino agli undici anni, fui costretto ad assistere impotente allo svolgersi di quella guerra.»

Ci fu un attimo di silenzio.

«Ricordo in particolare una notte che per me fu davvero terribile. Avevo sei anni, mio fratello a malapena due. Ragos si aggrappava a me mentre cercavo di spiare dalla finestra e capire cosa stava accadendo. Inizialmente credemmo si trattasse di fuochi d'artificio, ma presto io capii che erano spari misti ai ruggiti di alcuni Alphaga che si erano trasformati e lottavano servendosi delle loro bestiali sembianze. Vedevo la gente correre, picchiarsi, uccidersi per le strade. Alla fine non ce la feci più: mi misi giù accanto a Ragos e lo strinsi forte a me, gli tappai le orecchie così da impedirgli di ascoltare oltre quella maledetta carneficina. Piangemmo entrambi finché tutto non si placò e udimmo finalmente i nostri genitori rientrare. Da allora, per diversi mesi, tutti e due volemmo dormire insieme a loro. Credo avessimo paura di vederli sparire da un momento all'altro e, purtroppo, fu così, almeno per mia madre.»

Noah e Casey videro Irene, la quale sedeva accanto a Vargos, allungare una mano e stringergli una spalla come a voler distoglierlo da quei ricordi e calmarlo. Sembrava davvero affezionata a lui, ma in modo fraterno, nessuna attrazione di mezzo, proprio come aveva racontato a Casey e agli altri.

Vargos le sorrise con autentica gratitudine prima di proseguire con la narrazione: «La guerra terminò cinque anni dopo la notte terribile che io e Ragos trascorremmo quella volta. Cinque anni trascorsi a temere l'arrivo del giorno successivo e ancor di più il calare della sera. Quando stava per terminare mia madre morì. Non vide mai giungere la tanto agognata pace per la quale i lei e mio padre avevano lottato per ben quindici anni. I dissidenti scelsero di abbandonare il territorio e chi rimase si arrese alla maggioranza e si rese conto che in fondo le idee politiche della mia famiglia non fossero poi tanto sbagliate e orrende. Ed eccoci qui: io ho ereditato il posto di mio padre e se anche dovesse per assurdo accadermi qualcosa, ci sarebbe mio fratello a tenere a galla tutto quanto.»

Casey si sporse un po'. «Che tipo è Ragos?» domandò incuriosito.

«È un po' una testa calda. A primo acchito sembra tutto fuorché uno zuccherino, devo ammetterlo, ma quando si inizia a conoscerlo meglio ci si rende conto che il suo è solo un metodo di semplice difesa. Sotto sotto è buono come il pane e non mi ha mai dato troppi grattacapi, salvo sporadici casi.»

«Si sente che gli vuoi bene, sai?» disse Casey con un sorriso sghembo. «Dev'esser bello avere un fratello.»

«Ci si sente meno soli contro il mondo intero, hai ragione» convenne Vargos.

Noah intervenne: «Anche voi usate quel metodo strano per evitare che gli umani vengano a curiosarvi, quindi? Dove si trova, di preciso, la città?»

«Sì, ricorriamo allo stesso sistema. Mythfield, comunque, si trova nelle Piney Woods e il più lontano possibile dai centri abitati degli umani. Siamo protetti non solo da una barriera, ma anche dalla natura in generale.»

Casey, il quale era fin troppo curioso, chiese ancora: «Laggiù ci sono, o ci sono mai stati, Alphaga come me?»

«Intendi degli Indigo?»

«Esatto.»

«In realtà sì, più di quanti immagini. Non so perché, ma solo negli ultimi cinquant'anni ce ne sono stati almeno quattro.»

«E sai, per caso, delle loro sorti?»

«L'ultimo Indigo lo conobbi da piccolo. Non ricordo bene, ma mi risulta che scelse di non fare mai coppia con nessuno. In tutta franchezza comprendo la sua scelta e non lo biasimo affatto per essersi voluto tenere ben lontano da qualcosa che lo avrebbe solo messo in pericolo. Con mio padre al comando nessuno si permise mai di attentare alla sua dignità o di reclamarlo con la forza.»

«Ed è ancora vivo?» chiese speranzoso Casey.

«No, purtroppo no» replicò rattristato Vargos. «Morì a poco più di trent'anni, mi sembra per... per via di un male incurabile, almeno così mi venne detto da papà qualche anno dopo, quando ero abbastanza grande da capire che neppure gli Alphaga sono del tutto immuni da certi aspetti della vita. Quella malattia si portò via la povera anima in questione nel giro di qualche mese e non ci fu niente da fare.» Una piccola pausa. «Mio padre era suo fratello e ne rimase distrutto. Io a volte restavo con mio zio e cercavo di alleviare il suo calvario come potevo o, semplicemente, gli tenevo compagnia. Spesso mi recavo in giardino e coglievo tutti i fiori che riuscivo a trovare per portarglieli. Gli piacevano e io volevo alleviare le sue sofferenze, a modo mio. Era lo zio migliore che mi sia mai capitato, per quanto posso rimembrare, e fu orribile anche per me perderlo. Quando mi dissero che non c'era più non capii subito cosa volesse dire, ero solo un bambino e la morte non rientrava negli argomenti che potevo facilmente assimilare, ma poi lo vidi in quel sudario bianco sulle lenzuola nere, il giorno delle sue onoranze funebri, e... mi pare che lo fissai a lungo in attesa che si risvegliasse e, ovviamente, non accadde. Vidi, in seguito, mio padre prenderlo fra le braccia come se fosse stato un bambino e portarlo fuori da casa, diretto sicuramente al cimitero. Sembrava così fragile in braccio a un uomo grosso e prestante come papà...»

Noah, amareggiato e col cuore che batteva freneticamente nel petto, avvolse un braccio attorno alle esili spalle di Casey. Quella storia l'aveva rattristato non poco, ma erano due casi molto diversi. Lo sperava, più che altro.

«Come si chiamava? Te lo ricordi?» incalzò il giovane Leroin mentre rivolgeva a Noah un'occhiata volta a rassicurarlo. Sapeva che era preoccupato per lui e, pur non potendo biasimarlo, non gli andava che quell'uomo continuasse a flagellarsi di timori e dubbi fino al giorno del parto. Non serviva a niente.

«Caelan» fu la risposta di Vargos. «Un nome appropriato e che rispecchiava sul serio il suo aspetto: aveva i capelli così biondi che parevano immacolati, quasi argentei, pelle color del marmo e occhi di un colore particolare: per quel che ricordo erano di un rosso molto diluito che poteva passare per rosa. Credo... credo fosse sempre stato di salute cagionevole e anche per questo scelse di restare da solo. Non voleva far soffrire nessuno, soprattutto la sua famiglia o un eventuale compagno. Col senno di poi, da adulto, sono venuto a patti con la possibilità che i suoi così particolari occhi celassero in realtà tanta solitudine e amarezza, quando non guardava me e il resto della famiglia. Prima che morisse, alcune settimane prima, se non ricordo male, una volta lo sorpresi a guardare fuori dalla finestra poco distante dal letto e nel suo sguardo c'era tristezza e... penso vi fosse anche del rimpianto. Avrebbe meritato una vita migliore di quella che alla fine gli è stata riservata, ma fu amato da tutti noi, gli restammo accanto fino all'ultimo e penso che ciò, in minima parte, abbia ovviato a tante altre mancanze. Se ne andò, è vero, ma lo fece circondato da affetto e vicinanza, sapendo di essere al sicuro insieme a noi.»

Per un secondo a Vargos tornarono in mente i confusi ricordi dei dolci e malinconici tratti del viso di Caelan, di quel giovane e affettuoso zio che aveva fatto comprendere a suo padre l'importanza di tanti valori. Era rimasto sempre puro di cuore, immacolato come una pernice d'inverno e la morte, di fronte a tanta purezza, non aveva resistito a gettare le proprie oscure reti e a catturare con esse la fragile anima di quell'Indigo, l'ultimo in assoluto che avesse solcato le strade di Mythfield.

In fin dei conti si tendeva sempre a recidere, per un mazzo, i fiori più belli e profumati, e la Rosa Bianca del Clan Elimar – così era stato soprannominato Caelan – aveva fatto non poco gola alle aride e secche aiuole della Mietitrice.

Quando Caelan era morto, per la prima volta Vargos aveva visto suo padre piangere come un ragazzino ed era stato destabilizzante perché sempre aveva pensato a quell'uomo come a una roccia salda e impossibile da scalfire. Nulla gli avrebbe mai impedito di pensare che suo padre, il buon vecchio e ormai defunto Farron Elimar, avesse ricevuto un brutto colpo dopo l'altro perdendo prima l'amato fratello e poi l'adorata consorte durante la guerra fra clan.

Niente era stato più lo stesso e da allora nella loro antica dimora pareva esser calato un impenetrabile velo di tristezza e inquietudine, tanto da aver infine spinto lui, Vargos, ad andarsene da lì poco dopo la dipartita di Farron. Lui non aveva voluto saperne di rimanere fra quattro mura capaci solo di ricordargli quante persone estremamente care avesse perso là dentro, ma Ragos, che sempre era stato più fragile e testardo, ancora abitava lì, malgrado il silenzio e la solitudine quasi totale, se si escludevano i pochi domestici ancora al loro servizio.

Ragos, ultimamente, non se la passava propriamente bene e la paura di Vargos era di perderlo come aveva già perso il resto della loro famiglia. Era come se quella casa, silenziosamente, fosse un immobile mostro in attesa di fagocitare pian piano un Elimar dopo l'altro senza mai essere del tutto sazio. C'era qualcosa di sbagliato, là dentro. Qualcosa che si era sedimentato sulle pareti e su ogni asse del pavimento e che, secondo certe chiacchiere da comari, forse avrebbe finito per prendersi Ragos che, per quanto giovane, di appena ventun anni, a modo suo aveva già subito fin troppe perdite importanti nella sua vita. Perdite delle quali Vargos non amava parlare.

Sospirò. «Spero solo che mio fratello torni presto» disse, cambiando argomento. «Gli farebbe bene farsi nuovi amici e incontrare quelli di vecchia data.» Sorrise ad Irene e cambiò marcia ignorando lo sguardo attento e inquisitore della ragazza. Irene aveva già troppi problemi per conto proprio e lui non se la sentiva di caricarla di questioni che, ne era sicuro, poteva gestire da solo.

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