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𝐗𝐗𝐈𝐗. 𝐔𝐧 𝐠𝐫𝐚𝐧 𝐛𝐞𝐥 𝐜𝐚𝐬𝐢𝐧𝐨


Noah aveva appena finito di prendere le medicine che gli erano state prescritte quando udì il campanello alla porta trillare. Sospirò e per un po' rimase di fronte allo specchio, incrociando lo sguardo di un uomo dall'aria stanca e provata, un uomo che aveva accarezzato e per un soffio abbracciato l'esaurimento nervoso, suscitando tanta di quella preoccupazione nei familiari da spingerli, alla fine, a convincerlo a parlare con uno psichiatra.

Il medico in questione, di fronte alla sua insistenza, al suo rifiuto di accettare la realtà dei fatti e ripudiare una volta per tutte la storia sugli Alphaga e Caverney Town, aveva deciso di andare per gradi, ma anche di agire immediatamente: gli aveva prescritto delle medicine che doveva prendere regolarmente in modo da arginare la psicosi. Era così che aveva definito il suo problema.
Noah, sfibrato e sconfitto, aveva gettato le armi, convincendosi che forse fosse davvero stato tutto un'invenzione della sua mente, la mente di un uomo che ancora non aveva neppure accettato la morte della moglie, il ritrovarsi al momento con l'acqua alla gola in campo finanziario e via discorrendo. Era chiaro che avesse scelto di fuggire da tutto quanto in un attimo di estrema debolezza e fragilità, era quello il motivo per cui era sparito dalla circolazione e per quanto concerneva la misteriosa figura di Casey, la faccenda degli Alphaga e di quella città inesistente, Caverney Town, il medico aveva definito ogni cosa frutto di allucinazioni, parte integrante del disturbo psicotico.

Sua sorella Annika, solo il giorno prima, si era finalmente convinta a tornare a casa dove l'attendevano il suo lavoro e la sua vita privata. Era stato Noah a implorarla di farlo, di lasciarlo da solo.
Fra una cosa e l'altra era trascorso un mese o qualcosa di simile, non riusciva più a distinguere lucidamente il tempo. Qualche giorno prima aveva quasi abbracciato la tentazione di farla finita per sempre.
Innamorato del prodotto delle proprie allucinazioni, impazzito, disoccupato e solo...
Tutte valide ragioni per mollare la presa, certo, ma a un certo punto si era fermato, non aveva avuto il coraggio di andare fino in fondo.

Perciò eccolo lì, a trascinarsi in un'esistenza che in realtà non aveva alcun valore.

Il campanello suonò una seconda volta, una terza, con più insistenza, e allora si decise a uscire dal bagno e andare ad aprire, sperando che non fosse sua sorella o, ancora peggio, i suoi genitori. Mal aveva sopportato, i primi tempi in seguito al crollo nervoso, di leggere nei loro sguardi la compassione e il dolore; non se la sentiva di affrontarli in quel momento, proprio quando si sentiva sull'orlo di un pericoloso abisso.

Dimmi che non è successo niente di male, pregò tra sé. Non era nelle condizioni di tollerare altre brutte notizie.

Come un automa tolse i catenacci e girò il pomello, ma trattenne il fiato e fece due passi indietro appena scorse una persona che credeva esser parte dell'articolato mondo di allucinazioni che aveva creato. Cercò di parlare, di dire qualcosa, ma non ce la fece.

Non poteva essere... aveva sempre preso le medicine!

Vide la donna entrare e chiudersi la porta alle spalle e, nel mentre, squadrarlo con aria tesa. «Noah, mi dispiace se non ci siamo fatti sentire fino ad ora, ma ci sono stati dei problemi e...»

Noah per un pelo si trattenne dal crollare in ginocchio e lo scoppiare in lacrime. «N-Non sei reale» mormorò. «Non sei reale.»

Lei si accigliò. «Ti... ti senti bene?» chiese esitante.

L'uomo prese a respirare con affanno, come se da un momento all'altro stesse per urlare come un matto; si abbandonò contro la parete, scivolando poi fino a terra e tenendosi la testa. Irene non era reale, proprio come tutti gli altri. Non era reale, non poteva esserlo, glielo avevano ripetuto tutti fino alla nausea.

Irene capì che gli era successo qualcosa ed evitò di avvicinarsi più del dovuto. «Noah, io... non so cosa ti sia capitato, ma abbiamo davvero bisogno di te. È stato un mese terribile e mi pento di non esser venuta da te prima. Pensavo avresti ricordato cosa accade alle persone esterne alla città, una volta che la abbandonano.» Dire che era mortificata non avrebbe neppure lontanamente reso l'entità del dispiacere che provava.

McKay scosse il capo, coprendosi le orecchie pur di non ascoltarla. Forse, se l'avesse ignorata, l'allucinazione se ne sarebbe andata.

Irene proseguì, intuendo in un certo senso che Noah dovesse esser riportato alla realtà. «Casey è nei guai, in pasticci più grossi di quanto pensi» proseguì torcendosi le mani, esitando più di prima. Non era sicura di come avrebbe reagito l'uomo a una simile notizia. Per farsi forza e temporeggiare prese a camminare nell'ingresso e a guardarsi attorno, quasi nella speranza di trovare da qualche parte il coraggio di parlare. Le ci era voluto un bel po' per rintracciare Noah e la sua attuale dimora; Casey le aveva riferito l'indirizzo dell'appartamento dove McKay lo aveva ospitato per un po', ma appena era giunta sul posto si era ritrovata davanti a un inquilino ben diverso e aveva scoperto che Noah aveva perso il possesso sull'immobile proprio nel periodo in cui era svanito dalla circolazione. Irene aveva quindi chiesto aiuto a una sua conoscenza fidata per rintracciare in fretta Noah e chiedergli aiuto, ma da quando lo aveva visto, minuti prima, non faceva che chiedersi se fosse saggio coinvolgerlo di nuovo in quella faccenda. Pareva distrutto e non completamente in sé.
Proseguì ed evitò di guardarlo: «Simon è morto, Noah. È stato Casey a ucciderlo. Gli ha sparato e nel farlo ha ferito anche Dominic. Saremmo dovuti fuggire mentre mia madre e Nic pensavano a trattenere nostro padre, ma Simon ci ha scoperti e tutto è andato in malora. Casey non ha avuto altra scelta». La sua voce, mano a mano che il racconto andava avanti, si faceva sempre più flebile e tremante. La ragazza si asciugò una guancia velocemente. «Nic attualmente è in coma. Io, Casey, la sua famiglia e mia madre abbiamo tentato di scappare più lontano che potevamo. Ce l'avremmo fatta se solo non fossero riusciti a rintracciarci all'aeroporto.»

Irene non riuscì a trattenere oltre il pianto e cominciò a singhiozzare come una bambina. «Hanno arrestato Casey davanti a tutti, p-prima che potessimo fermarli! Tra qualche giorno ci sarà il processo, Noah, e rischia la condanna a morte!»

Noah per tutto il tempo non aveva fiatato, ma a un certo punto si era arrischiato a togliere le mani dalle orecchie e ad ascoltare Irene. Quando il resoconto ebbe fine, rimase a fissare intontito la donna; poi, un poco alla volta, cominciò a realizzare. La sua mente prese a strattonare ancora e ancora le catene che la tenevano imprigionata nella convinzione inculcatagli dallo psichiatra e dalla sua stessa famiglia. Dentro di sé saggiò più e più volte quel nome, Casey, e le ultime parole circa la probabile sorte dell'Indigo.

Casey...

In arresto...

Morte...

Di nuovo andò in iperventilazione mentre si risollevava da terra barcollante e cercava di mantenere la calma, la lucidità mentale, ma era come se stesse per impazzire, impazzire sul serio. Il cuore gli rimbombava nelle orecchie, pulsava furiosamente. «C-Cosa... cosa vuol dire... cosa...» biascicò.

Irene tentò di riprendere il controllo di sé e fece un lungo respiro. «Non farmi ripetere, ti prego. Dirlo una volta ha già fatto fin troppo male.» Gli si avvicinò. «Noah, devi... devi fare qualcosa, devi aiutarlo. Casey ha rifiutato di avere un avvocato difensore e a Caverney Town, tra gli Alphaga, se si fa come lui, si affronta il processo senza un legale offerto dal tribunale. Sarà da solo di fronte a persone che non aspettano altro se non condannarlo. Sono corrotti, tutti loro. Sono sotto l'influenza di suo padre, un essere spregevole. È stato lui a farlo arrestare.»

Noah sbarrò gli occhi, mandando nel frattempo al diavolo la sanità mentale, le parole dello psichiatra e tutto il resto. L'angoscia che provava, l'orrore che gli scuoteva le membra, non potevano esser solo immaginari o provocati da allucinazioni. Un essere immaginario non avrebbe mai suscitato tante emozioni nel suo animo come stava facendo Casey. Non era frutto della sua fantasia, non lo era il suo amore per lui né tutto quello che avevano passato insieme.

Se tutto era reale, però, lo era anche l'arresto, l'imminente processo e la probabile pena capitale che pendeva sulla testa di Leroin come la spada di Damocle.

Irene non resse oltre e gli afferrò le mani, lo sguardo implorante e arrossato. Sembrava stanca, l'ombra della ragazza sempre in ordine che era stata una volta. «Ieri io e sua madre abbiamo tentato di incontrarlo e lui ha rifiutato. Siamo tornate a casa senza averlo visto. Non sappiamo come stia realmente né cosa gli stiano facendo in quel posto. Sei l'unico che possa farlo tornare sui suoi passi, perciò non abbandonarlo. Ti prego, Noah!»

Noah, con la gola secca e la testa sovraccaricata da tutte quelle informazioni, si guardò attorno. I suoi occhi spaziarono in qui e là nello squallido ingresso di un altrettanto squallido appartamento. Per un attimo gli parve di rivedere Casey, ancora fradicio di pioggia come un pulcino e in piedi, a poca distanza da lui, in un ambiente poi non tanto differente da quello attuale, forse meno impersonale.

Lo rivide vagare nel vecchio appartamento, ora con addosso uno dei suoi pigiami troppo grandi per uno minuto come lui; vide il suo spettro appena uscito dalla doccia e con solo un asciugamano a celare il suo corpo nudo; la sua voce sbraitare dalla cucina per la perenne scarsità di cibo o canticchiare le canzoni che una volta lo aveva sorpreso ad ascoltare in camera da letto col suo pc portatile vecchio d'un decennio; eccolo lì, di nuovo a guardare qualche vecchio film che Noah anni prima aveva scaricato da Internet.

Tante furono le immagini che gli passarono di fronte agli occhi e ognuna di esse riaccese in lui un fuoco che mai si era realmente spento. Sbatté le palpebre un paio di volte, come se fosse stato in preda a un incantesimo per tutto quel tempo.

Ha ragione lei. Devo tornare da Casey prima che lo uccidano. Devo... devo proteggerlo, costi quel che costi.

Deglutì a fatica. «Possiamo partire anche ora» disse alla fine, la voce di colpo sicura e diretta come un proiettile.

Irene annuì. «Andiamo. Più aspettiamo e più sarà difficile salvarlo. Ti spiegherò meglio tutto in auto.»

Noah si premurò di recuperare giusto il portafogli, il telefono e qualche altra cosa prima di seguire Irene fuori dall'appartamento, in ascensore e infine fino alla macchina del parcheggio sotterraneo. Salì al posto del passeggero e dopo qualche minuto in seguito alla partenza, si decise a chiedere: «Hai parlato del padre di Casey, che è stato lui a farlo arrestare. È lo stesso che...»

Irene sospirò e cambiò marcia. «Sì, è quello che uccise i tuoi veri genitori insieme a Simon.»

«Come si chiama, oltre a Emerito bastardo impenitente?» incalzò Noah, passandosi le mani sul viso un secondo.

La ragazza si umettò le labbra. Pareva quasi aver paura di pronunciare quel nome. «Stefan, Stefan Vladimir Olegov. Quando non se ne va in giro per il mondo a far danni, a Caverney Town è considerato un pezzo grosso, uno di quelli definiti ‟intoccabili". Tutti sanno cos'è capace di fare, cosa ha fatto, eppure nessuno si fa avanti.»

Noah serrò i pugni sulle ginocchia. «Perché nessuno gli dice niente? Si può sapere cos'ha di così spaventoso?»

«È un Alfa e per giunta molto forte. Girano molte voci su di lui, non so quanto vere. Dicono che da ragazzo riuscì a fuggire da un laboratorio dove...» Irene esitò. «Sembra che quegli scienziati fossero a conoscenza della nostra specie. Ne rimasero talmente affascinati che decisero di usare alcuni Alphaga come cavie per esperimenti che di solito non si riserverebbero neanche a degli animali. Stefan, in effetti, sparì per tre anni, all'epoca, finché non fece ritorno e riprese il controllo sulla città insieme a quel poco che restava della sua famiglia. Coinvolsero altri nuclei familiari di Alphaga, uno dei quali rispondeva al cognome Tarren. Mio padre lo ha sempre seguito ciecamente.»

«E come diavolo riuscì a tornare, se lo tenevano segregato in qualche laboratorio degli orrori?» incalzò Noah perplesso.

La giovane Tarren si strinse nelle spalle. «Vallo a capire. Considerando che poi nessuno venne a cercarlo né si prese la briga di dargli la caccia, oserei ipotizzare che quegli scienziati non fecero una bella fine. Avevano scelto l'Alfa sbagliato a cui pestare la coda, suppongo.»

«Quindi... mi stai dicendo che c'è di mezzo una sorta di oligarchia capitanata da gente come lui e tuo padre?» chiese ancora Noah, incredulo.

Irene annuì cupa. «Sì, e purtroppo anche le nostre autorità sono coinvolte. Per questo Casey non è al sicuro in prigione né lo sarà al cospetto del tribunale. È come se avesse lanciato un guanto di sfida uccidendo mio padre e Olegov detesta chiunque non se ne stia al proprio posto e osi interferire coi suoi piani. Non sarà clemente solo perché si tratta di sangue del suo sangue. Se gliene fosse importato qualcosa di Casey... beh, penso che tante cose sarebbero andate diversamente.»

«Non credo» ribatté Noah, cupo. «Da quel poco che mi ha detto, quel mostro aggredì sua madre e la mise incinta contro la sua volontà. Non credo gli sarebbe in ogni caso importato di Casey in sé per sé.»

Irene esitò. «Ora stai un po' meglio rispetto a prima? Sembravi... ecco...»

«La mia famiglia crede che sia impazzito» snocciolò Noah, la voce insolitamente atona. «So che non avrei dovuto dire loro di Caverney Town e tutto il resto, ma volevo che capissero che non stavo dicendo stronzate, che era tutto vero, che Casey era una persona reale e non frutto della mia immaginazione. Alla fine mi hanno spinto a vedere uno psichiatra che mi ha prescritto dei farmaci. Secondo lui si trattava di una psicosi.»

«Mi dispiace, Noah. Davvero, io...»

«La colpa è stata mia. Non ho ricordato cosa mi aveva detto Casey sul meccanismo che occulta la città agli occhi degli umani. In un primo momento, però, ho pensato... ho creduto che Caverney Town, considerati i miei reali natali, mi avrebbe riconosciuto come uno della vostra specie, almeno per metà. Sono stato un idiota, immagino.»

«No, invece. Sono le nostre regole a essere sbagliate e troppo selettive. Probabilmente è perché sei un ibrido, Noah, e... beh... tanti non considerano gli ibridi dei veri Alphaga. Pensano che il loro sangue sia impuro, corrotto dalla debolezza umana e altre idiozie.»

Noah respirò profondamente. «Lo sapevo che sarei dovuto rimanere. Sentivo che non dovevo partire, che c'era qualcosa che non andava. Avvertivo nell'aria la tempesta, Irene, capisci?»

Irene gli restituì una triste occhiata. «Non sbagliavi, ma ormai quel che è fatto è fatto.»

«Hai detto che non ha voluto vedere né te né sua madre, l'ultima volta che siete andate a trovarlo. Quelle prima, invece? Come stava?»

«Non bene. Insomma... è in galera, Noah, e le prigioni Alphaga non sono esattamente come quelle umane. Lì molti, specialmente gli Omega e chi viene ritenuto inferiore alla classe dominante, non se la passa bene. Spesso li spogliano di ogni diritto e tutti là dentro, dalle guardie ai funzionari, pensano che se si trovano in quel posto, evidentemente se la sono andata a cercare. Sono riuscita a consegnare a Casey la medicina che Connors gli aveva prescritto tempo fa, ma non so se abbia continuato con l'assunzione.» Leroin, la penultima volta che era andata a trovarlo, le era parso deperito e abbattuto, nonché rassegnato. «Non sembra disposto minimamente a lottare e non si tratta solo dell'incarcerazione o dell'aver sparato a Simon. Era giù di corda sin da quando sei partito.»

Noah si passò due dita sugli occhi. «Quante probabilità abbiamo di riuscire a tirarlo fuori da lì? Perché sai... ho una mezza voglia di prenderlo a testate.»

«Non lo so» replicò Irene con onestà. «Forse nessuna, ma dobbiamo comunque tentare. Sono stanca di assistere a questo genere di ingiustizie e non è la prima volta che uno come Casey, una persona che ha solo cercato di difendersi quando le autorità non hanno voluto saperne di muovere un dito, viene colpevolizzato e ritenuto responsabile dei propri problemi. Il sistema è corrotto, ecco qual è la verità, e credo che sarebbe proprio ora che qualcuno fra di noi si prenda la briga di prenderlo a calci.»

McKay sospirò. «Io... io voglio solo che lui esca da lì sano e salvo. Voglio che possa avere finalmente un po' di pace e una vita normale. Ha sofferto troppo e se posso aiutarlo a riconquistare la libertà, allora mi rimboccherò le maniche.» Guardò Irene e cercò di infonderle un minimo di sicurezza e di speranza, anche se la situazione era in sé per sé disperata. «Ci inventeremo qualcosa. Dev'esserci una via di uscita, Irene, e la troveremo.»

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