𝐗𝐗𝐈𝐈𝐈. 𝐓𝐢 𝐚𝐬𝐩𝐞𝐭𝐭𝐞𝐫ò
Un paio di giorni seguenti alla sua rappacificazione con Casey, finalmente a Noah venne concesso di poter usare un computer e di rimettere in funzione il cellulare. Fino ad allora gli era stato proibito godere di queste due precise libertà, ma Irene in un modo o nell'altro era riuscita a far ammorbidire il fratello che, all'insaputa di Simon, aveva detto che in fin dei conti non v'era ragione per cui McKay non potesse far uso di quei due apparecchi. Il motivo per cui Simon Tarren sembrava attualmente con la testa altrove, impegnato in affari dei quali non parlava mai a casa, era un vero mistero. Dominic, tuttavia, un giorno lo aveva per puro caso udito parlare con qualcuno al telefono; non erano stati fatti nomi, ma da quel poco che era riuscito a carpire era infine emersa un'informazione preoccupante: durante la telefonata era stato invece nominato Casey e Simon, così come l'altro misterioso individuo, sembrava avere progetti più oscuri del previsto per il giovane Indigo.
Purtroppo non c'era modo per approfondire la questione e nessuno, né i fratelli Tarren né Noah o Casey, era talmente stupido e cieco da voler arrischiarsi a fare domande che avrebbero fatto insospettire il capofamiglia.
Ad ogni buon conto, per evitare eventuali problemi, era stato chiesto a Noah di far uso del cellulare o del PC solamente quando Simon non era in casa. Meglio di così, purtroppo, al momento non era possibile fare.
Malgrado tali concessioni McKay aveva fino ad allora avuto il coraggio di far uso, di tanto in tanto, del computer. Pur sapendo di sembrare un vigliacco, non aveva avuto la spina dorsale necessaria a scoperchiare il vero vaso di Pandora, ovvero il telefono. La paura di fronteggiare chissà quanti messaggi e quante chiamate perse da parte della sua famiglia al completo lo paralizzava e continuò a farlo finché, un giorno, verso le nove di mattina e poco dopo aver terminato di fare colazione, Noah non fece ritorno nella propria stanza al piano di sopra ed estrasse dall'armadio una borsa. In essa vi erano contenuti i suoi effetti personali requisiti dagli sgherri dei Tarren che avevano frugato nella sua macchina.
Fece scorrere la zip e tirò fuori il portatile che Irene gli aveva procurato lo scorso pomeriggio, poi riaccese il cellulare, lo collegò al PC tramite il cavetto apposito e con ansia attese che si caricasse, ma quando ciò avvenne la realtà gli piombò addosso come un treno, decisamente più orribile di quanto si fosse aspettato fino ad allora. Si era completamente estraniato dal mondo esterno e aveva praticamente dimenticato di essersi lasciato una vita alquanto incasinata alle spalle: c'erano un'infinità di chiamate e messaggi da parte di Annika e anche di sua madre, e solo questo gli fu sufficiente per sentirsi un emerito bastardo.
Con le dita che non smettevano di tremare decise di iniziare dai messaggi lasciati in segreteria e li avviò uno ad uno, finché a un certo punto fu costretto a riascoltare il penultimo: era sua madre, sembrava in pieno panico. Il messaggio risaliva più o meno una settimana di distanza dal giorno in cui lui era stato rapito dai Tarren insieme a Casey: ‟Noah, dove sei? Ti prego, rispondi! Non so cosa fare e stasera tua sorella aveva una cena di lavoro! Tuo padre non si sente molto bene, raggiungici appena senti il messaggio!"
Col cuore in gola avviò il successivo, le dita tremanti; udì sua madre piangere e singhiozzare penosamente: ‟N-Noah... non so perché continui a non rispondere, m-ma... tuo padre ha avuto un infarto e... adesso siamo in ospedale. Forse ce la farà... n-non lo so, nessuno vuole dirmi niente, qui! Ti prego, tesoro, arriva! Lui ha bisogno di noi, adesso! So che per te è un periodo difficile, ma si tratta di tuo padre! Per favore, richiamami!"
Lasciò cadere il cellulare sul letto e si portò una mano alla fronte, lo sguardo perso nel vuoto. Suo padre aveva rischiato di morire e lui non si trovava lì insieme alla sua famiglia. Aveva visto altre chiamate perse, altri messaggi, gli ultimi più inquieti che mai, poi più niente. In quello che risaliva a circa la fine del mese prima, ovvero quando lui doveva esser risultato irraggiungibile e svanito nel nulla da giorni e giorni, era stata Annika a scrivergli, preoccupata, che se non avesse ricevuto sue notizie entro il giorno seguente sarebbe andata da lui. Sicuramente lo aveva fatto e di certo non aveva trovato nessuno ad attenderla, nessuno che le avesse aperto la porta.
Con addosso un presentimento terribile mise mano al portatile e iniziò a cercare, a frugare nelle notizie usando parole ben precise e dopo un bel po' di ricerche a vuoto, ecco che vide qualcosa: un breve articolo in cui si menzionava la sparizione di un uomo denunciata dalla famiglia di quest'ultimo e quell'uomo era proprio lui: Noah Jonathan McKay. Da allora non v'erano stati sviluppi, lo confermava l'assenza di ulteriori informazioni. La sua famiglia, al momento, non sapeva se lui fosse vivo o morto. Non sapeva niente di niente e magari ancora attendeva una telefonata, qualcosa che potesse porre fine allo strazio. Ciò che spezzava il cuore di Noah era immaginare cosa avesse potuto dire la polizia a sua madre, a suo padre e a sua sorella, dopo aver certamente ascoltato le loro testimonianze. Di fronte alla sparizione di un uomo rimasto vedovo in seguito al suicidio della moglie depressa e reduce da un brutto aborto, senza lavoro e chiuso in se stesso fino al punto da essersi allontanato dalla famiglia e dagli amici, le autorità tendevano a supporre il peggio e la risoluzione più plausibile e terribile.
No... non possono aver smesso di cercarmi, si ripeté in pieno panico, anche se sapeva che la polizia, non avendo di certo trovato tracce di lui né eventuali piste da seguire, doveva aver semplicemente classificato il suo caso come uno dei tanti privi di risoluzione, privi di un corpo che rimaneva da rinvenire ancora e da riconoscere. Dopo un certo lasso di tempo, purtroppo, molte delle persone scomparse nel nulla venivano reputate morte.
«Oh, Dio» singhiozzò Noah, premendosi le mani sul viso. Dire che fosse nei guai fino al collo sarebbe stato riduttivo. Non che fino ad allora la permanenza a Caverney Town fosse stata una goduria, era sì e no ancora in ostaggio in casa Tarren.
Se anche avesse avuto modo di tornare dalla sua famiglia, come avrebbe fatto a partire? Simon non gli avrebbe permesso di andarsene e non poteva chiedere ad Irene a Casey di coprirgli le spalle, non quando lì c'era in ballo la sopravvivenza di Leroin e dei gemelli che questi aveva in grembo. Casey stava più o meno bene, forse era un po' letargico per via della medicina che assumeva tutti i giorni, ma non aveva la forza di fronteggiare l'ira di Simon né di affrontare il resto della gravidanza da solo.
Noah sapeva che il suo posto era lì, prigionia o meno, accanto a Casey, ma sapeva anche di dover sistemare le cose con i suoi genitori e con Annika, di dover porre fine alla loro angoscia, al loro dolore.
Doveva trovare una via di mezzo. Doveva essercene una!
Quasi barcollando uscì dalla stanza e si diresse al piano inferiore. Era stato il primo ad alzarsi da tavola e forse gli altri ancora stavano facendo colazione e, per fortuna, era così. Si fece avanti e dallo sguardo degli altri, soprattutto quello di Irene e Casey, capì di non avere affatto una bella cera.
«Noah, ti senti bene?» gli chiese la ragazza.
L'uomo tentò di parlare, ma fu arduo metter insieme le parole: «M-Mio padre... mio padre si è sentito male, è finito in ospedale. Non so cosa sia successo dopo, mia madre non ha più fatto sapere niente e... è successo tempo fa e l-la mia famiglia, adesso, crede che io sia scomparso o peggio. Hanno persino denunciato la mia sparizione alla polizia» balbettò.
Irene e Casey si scambiarono uno sguardo spiazzato e preoccupato, poi il ragazzo si alzò e raggiunse Noah, anche se parve in un primo momento esitare. Deglutì, guardò altrove, infine serrò le palpebre. «Allora devi andare da loro, Noah. Devi farlo subito.» Gli costò molto pronunciare quelle parole. La verità era che non voleva che lui se ne andasse e lo lasciasse da solo in quella situazione incasinata, ma non voleva neanche che per colpa sua Noah si estraniasse dalla vita che aveva lasciato in pausa fuori da quella città maledetta, non quando la situazione era fino a tal punto grave e spinosa. Non doveva fare un sacrificio del genere, non per lui, specialmente con quello che era accaduto al signor McKay e, addirittura, dopo che i familiari di Noah avevano denunciato la sua scomparsa.
Doveva lasciarlo andare, anche a costo di non rivederlo mai più. Era giusto così. Quelle persone erano la famiglia di Noah, erano tutto ciò che rimaneva a quell'uomo dal cuore d'oro che aveva stretto i denti e accettato qualcosa che altri, invece, avrebbero scansato a priori. Un altro, non appena avesse sentito parlare di Alfa, Omega e Indigo, di una specie chiamata Alphaga, si sarebbe tirato indietro e ci avrebbe riso sopra, lo avrebbe sbattuto fuori di casa, ma Noah non lo aveva fatto. Lui gli aveva creduto, aveva preso per buone le sue rivelazioni, preso a cuore la sua situazione. Lo aveva difeso, aveva rischiato la vita per lui e non aveva mai chiesto niente in cambio né si era lamentato.
Si fece forza e gli posò nuovamente gli occhi addosso, forzando un sorriso.
«La tua famiglia ha la precedenza su tutto il resto. Adesso sono loro ad avere bisogno di te, Noah. La famiglia è tutto. Loro non sanno dove ti trovi e anche tu hai detto che potrebbero essersi convinti che tu sia morto. Mia madre, almeno, sa dove mi trovo, sa che sono ancora vivo. So cosa si prova a rimanere lontani da chi si ama e non voglio che soffra anche tu. Vai, Noah. Va' dalla tua famiglia. Ti prego.»
E se sei almeno un po' furbo, non tornerai più qui, pensò.
Era come se dentro di sé avesse sempre saputo che prima o poi un momento simile sarebbe arrivato e alla fine era successo sul serio. Alla fine erano giunti a un punto di rottura, se tale poteva esser definito. Finalmente riuscì a scorgere con chiarezza l'infinta voragine che li separava, che sin da subito li aveva tenuti a distanza. Appartenevano a mondi diversi e mai come in quel momento ciò era stato chiaro agli occhi di Casey. La realtà era più potente di ogni altra cosa, di qualsiasi altro sogno o vana speranza.
Noah scosse il capo. «No, Casey, non posso lasciarti qui da solo. Senza offesa, Irene» aggiunse, vedendo l'espressione della ragazza. «Cas, non posso andare, anche se è vero... vorrei stare accanto a mio padre, far sapere a tutti che sto bene e che sono vivo, ma il mio posto è anche qui, al tuo fianco. Soprattutto qui.»
Casey dentro avvertì una sensazione spiacevole, come se un ferro arroventato e appuntito fosse stato girato e rigirato più volte dentro il suo petto. Afferrò le spalle a Noah e fece cenno di no con la testa. «No, invece! Il tuo posto è con loro, fuori da questa città, con la tua famiglia e le persone normali. Prima o poi avremmo dovuto separarci, no? In fin dei conti gli accordi erano questi quando ci siamo conosciuti: mi avresti aiutato e poi saremmo tornati alle nostre vite di sempre. Ora sto bene, c'è Irene con me e non potrebbe accadermi niente di male. Non sarò da solo, Noah. Non devi preoccuparti per me.»
Vivrai in libertà per entrambi, Noah. Devi farlo per te stesso e anche per me.
La verità, pura, semplice e cruda, era che non era mai stato libero in vita sua. Era solo un uccello nato in cattività che si era limitato a osservare gli alberi e il cielo fuori dalla gabbia dov'era da sempre rinchiuso, e alla fine era sprofondato nell'illusione di trovarsi in realtà fuori da lì e di essere libero. Quando mai era stato tale? Prima era stato prigioniero dei pregiudizi nei confronti degli Indigo, del classismo, di coloro che pensavano che quelli come lui non avessero voce in capitolo in ogni singolo aspetto della vita, poi Dominic lo aveva afferrato e trascinato in un incubo, il peggiore che esistesse. Gli aveva strappato via le ali e così era terminata la fallace libertà.
Non sarebbe mai tornato alla vita di prima. Se anche fosse sopravvissuto al parto, sarebbe stato costretto poi a sposare Dominic, perché di fronte alla cruda realtà dei fatti iniziava a pensare che il piano di Irene non avrebbe funzionato.
Chi aveva le catene non aveva alcun diritto di trascinare a fondo con sé una persona che aveva la possibilità di salvarsi, di tornare in superficie. Noah lo aveva aiutato, gli era stato vicino come aveva potuto, ma ora lui doveva ricambiare il suo gesto, fare qualcosa di buono per una persona che meritava un po' di pace.
Ricordava che una volta sua madre aveva preso un canarino che, per qualche motivo ancora ignoto, era morto dopo alcuni mesi, smettendo per sempre di emettere quei melodiosi cinguettii.
Gli uccelli in gabbia soffrono e alla fine muoiono. È quello il loro destino.
Era comunque grato a Noah per avergli permesso di respirare l'aria pulita della vita priva di catene e sbarre, anche se per un breve istante confrontato con un'esistenza intera. Lo ringraziava per aver cercato di aiutarlo a fuggire per sempre da una vita che non desiderava.
Sentiva nelle ossa che non lo avrebbe rivisto più, ma non aveva scelta se non lasciarlo andare.
In fin dei conti conosceva il finale della propria deprimente vita, sapeva cosa lo attendeva e di non essere speciale, di non esser stato graziato da alcun Fato magnanimo e non avrebbe permesso a Noah di vedere proprio quello, di vedere un canarino come tanti in fondo alla gabbia senza più un cuore che batteva.
Magari si sarebbero incontrati di nuovo in un'altra vita, come accadeva nei libri o nei film, chi poteva saperlo.
Gli lasciò andare le spalle e fece un passo indietro. Non guardò McKay negli occhi perché non voleva che vedesse i suoi pieni di lacrime. Sarebbe stato inutile, comunque, negare che provasse una certa frustrazione. Il ragazzino che ancora viveva in lui, in minima parte, urlava che non era giusto che dovesse esser lui a rinunciare a qualcosa per l'ennesima volta, ma il Casey adulto rifiutava categoricamente di essere egoista e impedire a Noah di fare la cosa più giusta e sensata.
Noah, dal canto proprio, era indeciso. Non aveva potuto far a meno di avvertire nell'aria qualcosa di strano, di forzato e sbagliato. Non gli piaceva la piega che aveva preso la conversazione. Tentò di stringere una mano a Casey, ma questi rifuggì il contatto senza essere brusco, sforzandosi di sorridergli. «Quando i gemelli saranno abbastanza grandi mi divertirò a raccontare loro di un certo matto di nome Noah. Saprai che succederà quando le orecchie ti fischieranno, di tanto in tanto» disse, preferendo dare una connotazione scherzosa a quello che era un autentico preludio alla loro separazione.
Irene, nel frattempo, aveva lasciato la sala per dar loro un po' di privacy.
Noah scosse il capo e gli prese il viso tra le mani. «Tornerò. Non appena mio padre starà meglio e avrò sistemato tutto con la mia famiglia, io tornerò. Te lo prometto, Cas. Non ti lascio da solo, ci sarò anch'io al tuo fianco.»
Neanche se volessi potresti farlo. Non conosci la strada per tornare qui, non riuscirai a ritrovare questa città, pensò Leroin amaramente. Era tentato di fargli presente quel particolare, ma decise di tacere, perché sapeva in fondo che fosse quella la cosa giusta da fare: tenere McKay lontano da quel disastro annunciato, impedirgli di venire coinvolto più di quanto già non lo fosse al momento.
Che Noah fosse uno di loro o meno, non era né sarebbe mai stato come loro, era diverso e non apparteneva a quel mondo segreto destinato prima o poi a crollare su se stesso. Era una brava persona e se fosse rimasto, un giorno o l'altro avrebbe finito per rovinarsi e Casey si stava rendendo conto di non poter permettergli di fare una cosa del genere, neanche se tra loro c'era qualcosa che ancora non aveva una forma ben definita.
I sentimenti dovevano liberare le persone, farle sentire prive di catene, non dovevano essere una prigione.
Gli lasciò dunque credere che quella promessa sarebbe stata mantenuta, perché gli leggeva negli occhi che aveva bisogno di tale speranza. Chi era per infrangere i sogni altrui, lui che in silenzio, proprio in quel momento, osservava quella sorta di oasi nel deserto svanire poco alla volta?
Noah cominciava a rappresentare per lui molto più di un semplice amico cui esser riconoscente e proprio per questo gli stava alleggerendo il peso di una scelta così difficile e rischiosa.
Aveva le spalle forti, avrebbe tollerato anche quello. Gli sorrise ancora e annuì. «Ti credo, Noah. Ti aspetterò. Dove altro potrei andare, d'altronde?»
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