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𝐗𝐈𝐕. 𝐑𝐢𝐦𝐨𝐫𝐬𝐨 𝐟𝐚𝐭𝐚𝐥𝐞


Verso le tre del pomeriggio il signor Tarren uscì di casa insieme alla moglie per far visita ai figli minori ospitati nel collegio infantile dove tutti i ragazzini delle famiglie più facoltose venivano istruiti fino ai tredici anni. L'assenza dei coniugi avrebbe così concesso finalmente ai gemelli più libertà di movimento, consci che i domestici non si sarebbero mai sognati di fare la spia con i padroni di casa; di loro si poteva dire tutto, tranne che fossero pettegoli o inclini a sparlare con un membro della famiglia sul conto di un altro. Tenevano per sé le loro opinioni non solo perché erano profumatamente pagati per lavorare senza ficcanasare in affari che non li riguardavano, ma anche per pura questione gerarchica legata alla natura degli Alphaga: là dentro a comandare era Simon Tarren, il padrone di casa di genere Alfa e dal carattere dominante e fin troppo prepotente per esser contrastato in alcun modo. Se si aggiungeva, poi, la pessima fama che si era guadagnato Dominic fra le mura domestiche, non soltanto oltre di esse, il gioco del silenzio era fatto.

Irene, sapendo che si trattava di un'occasione irripetibile e di non aver più a disposizione chissà quanto tempo per mettere in atto il piano di fuga per Casey, si recò da quest'ultimo, colui che ormai aveva capito essere il principe perduto della specie conosciuta sin dai tempi antichi come Alphaga, che altro non era se non una semplice crasi tra Alfa e Omega: principio e fine, vita e morte.

In tutta franchezza non le interessava molto che nelle vene del ragazzo scorresse sangue blu e dubitava che questo potesse fare la differenza, visto che ormai i tempi erano cambiati e pochi erano al corrente della storia del loro popolo e di quanto esso fosse un tempo stato grandioso e florido. Gli umani li avrebbero definiti una specie in via d'estinzione e purtroppo non c'era granché da fare per rimediare a una sorte che con l'andare degli anni e dei secoli pareva sempre di più segnata e bieca. Un giorno gli Alphaga non sarebbero esistiti più e non aveva importanza che molti di loro si fossero adeguati ai cambiamenti climatici, alla modernità, alla presenza oramai ingombrante e molesta dell'essere umano che aveva seviziato e maltrattato la natura senza alcun riguardo, quasi pensando che essa disponesse di risorse illimitate e della magica capacità di rigenerarsi sempre e comunque, a prescindere dai danni che le venivano inflitti.

La natura stava morendo e anche loro sarebbero morti, visto che in minima parte conservavano con essa un legame indissolubile, profondo e arcano. Risentivano non poco del suo costante e crescente indebolimento e quando tutto sarebbe andato distrutto, corrotto e rovinato, per gli Alphaga non ci sarebbe stato più scampo. Alcuni sostenevano che sempre più di loro si sarebbero ammalati, deperendo e magari divenendo sterili, incapaci di generare nuove generazioni capaci di far sopravvivere la loro specie, e questo avrebbe causato la rovina definitiva di ogni singolo individuo, Alfa, Omega o Beta che fosse.

Paradossalmente, era per tale ragione che gli Indigo come Casey venivano visti come qualcosa di vitale importanza, un genere a parte da preservare, in quanto in grado di procreare con Alfa e Beta, a parte gli Omega il cui seme era sterile, prodotto da organi sessuali maschili puramente vestigiali e poco accentuati. Un'altra cosa da sapere sugli Omega era che vederne uno con la barba o altro che potesse farlo sembrare più mascolino fosse impossibile come lo sarebbe stato vedere una persona farsi ricrescere un braccio come erano solite fare le lucertole. Gli Indigo erano ancora più ambigui in quanto ad aspetto fisico e non era raro scambiarli per delle donne minute e dalla mole delicata. Gli Omega, semplicemente, sembravano degli eterni ragazzini che mai sarebbero diventati uomini e tendevano ad avere un'aspettativa di vita più breve degli Alfa e dei Beta. Anche quest'ultimo dettaglio, presto o tardi, avrebbe contribuito forse all'estinzione, perché lo squilibrio fra quei due generi e l'altro era troppo marcato, il divario incolmabile e la mortalità degli Omega, maschi o femmine che fossero, pareva essere in costante aumento, secondo i censimenti che venivano eseguiti ogni dieci anni.

Probabilmente non c'era davvero la benché minima speranza, per nessuno di loro, non quando tutti o quasi si rifiutavano di mescolarsi ad altre specie e avere figli con loro, bambini che sarebbero stati per metà Alphaga e per l'altra umani, che avrebbero salvato in qualche maniera la specie. Come l'ermellino della favola, quello che pur di non sporcarsi di fango e terra il bianco manto si rifiutò di nascondersi quando arrivò il cacciatore, trovando così la propria fine, gli Alphaga erano troppo orgogliosi, troppo chiusi nel loro ghetto mentale e concettuale, e tale fierezza un giorno o l'altro sarebbe risultata loro fatale.

Quella favola impartiva una lezione importante: a volte era necessario sporcarsi di fango per sopravvivere, scendere a compromessi. Ognuno di loro nasceva immacolato, senza una sola macchia addosso, ma nessuno si congedava dalla vita rimanendo candido e puro fino al midollo. In un mondo come quello in cui vivevano era impossibile restare innocenti e ancorati a tradizioni e pregiudizi vecchi di secoli, anzi millenni. Chi si adattava proseguiva e chi non lo faceva restava indietro. Era semplice, lineare e crudele, ma era comunque la verità, la legge più antica e più conosciuta della natura, quella che gli Alphaga, più di chiunque altro, avrebbero dovuto conoscere e ricordare molto bene.

Certo, se Irene avesse dovuto tener fede in modo letterale a quella legge, a rigor di logica avrebbe dovuto lasciar Casey nelle mani del destino e di Simon Tarren, visto che fino ad allora si era dimostrato non all'altezza di contrastare quell'Alfa a dovere, ma non vivevano nella giungla e lei non sarebbe rimasta a guardare né sarebbe scappata di fronte a qualcuno che aveva bisogno di tempestivo aiuto.

Mentre percorreva il corridoio, tuttavia, incrociò la cameriera più giovane e vide che stava portando via il vassoio destinato a Casey. «Un attimo» disse, fermandola. Accigliata sollevò il coperchio d'argento e rimase di stucco rendendosi conto che, ancora una volta, Casey non avesse toccato cibo.

Che diavolo stava combinando quel nanerottolo dai capelli rossi? Voleva per caso morire di fame? Eppure credeva di esser stata chiara, di avergli detto che avrebbe aiutato sia lui che Noah a scappare, che c'era ancora una speranza per entrambi.

Oppure non mangia per altre ragioni, rifletté ansiosa.

«Portalo pure in cucina, ma aspetta prima di buttar via tutto. Qualcosa non mi torna» ordinò, non del tutto capace di celare il nervosismo nella voce.

«Sì, miss» rispose la cameriera.

Irene dunque entrò nella stanza e scorse il ragazzo ancora sotto le coperte. Accese la luce del lampadario e si avvicinò, scostando le lenzuola: Casey tremava, giaceva su di un fianco, in posizione fetale, e aveva il viso lucido, scivoloso persino alla semplice vista. Un pallore indice di pessima salute faceva sembrare il suo incarnato quello di un cadavere. «Oh, Dio» sussurrò la giovane, cominciando ad andare nel panico. «Casey, mi senti?» Lo scosse piano per una spalla e lo fece girare cosicché potesse rimanere disteso sulla schiena. Gli scostò i capelli dalla fronte e... sì, scottava come una fornace!

Un dubbio orribile assalì Irene, la quale nel cassetto del comodino trovò le medicine che il medico aveva prescritto per evitare un'infezione: i blister erano per metà stati usati, ma era chiaro che i medicinali non avessero potuto compiere il proprio dovere. Casey doveva aver di proposito risputato tutto o forse vomitato poco dopo aver ingerito le pastiglie. Forse lei non era stata abbastanza convincente nel promettergli che lo avrebbe aiutato o, magari, quel ragazzo era determinato a fare di tutto pur di non avere il bambino di Dominic, persino a morire di setticemia.

La ragazza corse fuori dalla stanza e lungo il corridoio, poi chiamò a squarciagola il fratello. «Nic! Nic, vieni presto! NIC, DANNAZIONE, MUOVITI!»

Dominic, udendo quelle urla, accelerò il passo e quasi volò nel salire le scale. Ci mancò poco che si scontrasse con la sorella, quando finalmente le andò incontro. «Che c'è, ora? Che succede?» domandò trafelato.

Irene cercò di fare un respiro profondo e di essere chiara, ma non era semplice mantenere la calma quando forse quel ragazzo era a un passo dalla morte o magari già era stato reclamato da essa. «C-Casey sta male! Credo c-che non abbia preso le medicine! La ferita deve essersi infettata! È pallido e non si muove, non apre gli occhi! Non ho neppure controllato se respira ancora o meno, accidenti!»

Dominic perse d'un tratto colore sulle guance e si mise una mano fra i capelli. «Cazzo! Chiamo il dottore, tu intanto resta con lui!»

Irene avrebbe preso il muro a testate di fronte alla stupidità del fratello. «Non credo tu abbia capito, allora! Ha bisogno di andare in ospedale! Il dottore non può far niente, stavolta!»

Forse era già troppo tardi, forse si trattava davvero di setticemia e quasi sempre risultava mortale.

Nic deglutì, senza sapere più che pesci prendere. Nel suo cervello, al momento, v'era soltanto caos. «V-Va bene. Intanto va' fuori e prepara l'auto. Lo porto io.»

«Sbrigati!»

Dominic annuì e corse nella stanza di Casey, scostò le coperte senza tante cerimonie e lo prese fra le braccia. Fu rapido nello scendere infine le scale e raggiungere la macchina. Prima di partire, però, si ricordò di Noah e sbuffò. «Vado solo io, tu resta qui. Non possiamo lasciare l'altro da solo nel seminterrato. Ne stanno già succedendo troppe.»

«Ma...»

«Insomma, Irene, fa' come ti dico!» sbottò il ragazzo, battendo un pugno sul volante. Era in chiaro stato confusionale, gli tremavano le mani. Irene si convinse e scese dall'auto, non potendo mettersi a discutere con lui in un momento del genere. Dominic partì immediatamente e i cancelli, grazie ai sensori, si aprirono.

Il tragitto verso l'ospedale locale di Caverney Town fu un'autentica corsa contro il tempo nella quale ogni secondo poteva fare la differenza. Dominic, per alcuni istanti, guardò nello specchio retrovisore il ragazzo che giaceva sui sedili posteriori in stato d'incoscienza, forse in procinto di perdere la lotta contro la febbre e l'infezione. «Prova a morire e vedi che succede» sibilò, schiacciando l'acceleratore.
Dieci minuti più tardi finalmente arrivò nel parcheggio dell'ospedale e sistemò la macchina alla bell'e meglio prima di recuperare Casey e portarlo dentro. Da lì in avanti a stento riuscì a seguire i vari passaggi, tutto si svolse come un incubo onirico e surreale. Qualcuno lo raggiunse, gli chiese cosa stesse accadendo e quale fosse il problema, e lui provò come meglio poté a spiegare la situazione alla dottoressa che stava esaminando Leroin.
Tra un biascicare e l'altro, il giovane Tarren a malapena si rese conto di aver appena implorato quella donna e gli infermieri di salvare ad ogni costo Casey.

Impotente li osservò condurre via su una barella l'inerme Indigo e addentrarsi nel grembo dell'ospedale per tentare l'impossibile, considerando le condizioni pessime del loro paziente.
Si lasciò cadere su una seggiola nella sala di accettazione e attese... qualcosa, qualunque cosa, domandandosi un minuto dopo l'altro cosa stesse accadendo a Casey; si chiese se fosse morto prima ancora che avessero potuto provare a curarlo o se ce l'avrebbe fatta a rimettersi, col tempo.

Gli ultimi mesi passarono di fronte agli occhi di Dominic come una sorta di pellicola a velocità doppia e iniziarono ben presto a mescolarsi e accatastarsi, a fondersi in un vortice stridente e doloroso. Fu solo allora che il rimorso iniziò ad avere sul serio la meglio su di lui, sulla coscienza che fino a poco tempo addietro era sempre stata messa a tacere, relegata in un angolo oscuro della mente come un piccolo frammento di moralità la cui flebile voce tante volte era stata ignorata deliberatamente.

Aveva trascinato lui Casey in quella storia e sempre lui aveva permesso a quell'idiota di Trevor di sparare al ragazzo. Non era Casey a meritare di lottare per restare in vita. Sarebbe dovuto trovarsi lui in quell'ospedale, sospeso tra la fine e il proseguimento dell'esistenza.
La dottoressa, prima di seguire gli infermieri che avevano condotto via Leroin sulla barella, era stata sincera con lui e aveva detto di non sapere se sarebbero riusciti a salvare entrambe le vite a rischio o almeno una di esse.

L'infezione sin da subito era risultata parecchio grave e Casey era soprattutto malnutrito, visto che da quando era tornato a casa Tarren non aveva voluto saperne di mangiare o, se lo aveva fatto, aveva ingurgitato troppo poco cibo per una persona giovane come lui, in dolce attesa e per giunta fragile come qualsiasi altro Indigo. Forse, dunque, il cimitero privato di Daffodil Manor presto avrebbe ospitato il più giovane membro di quella disgraziata famiglia; una vita che non aveva neppure fatto in tempo a conoscere il mondo esterno e, nel farlo, avrebbe probabilmente trascinato con sé anche Casey.

È tutta colpa mia. Mia e di mio padre, pensò Dominic, affondando le unghie nelle ginocchia con tanta di quella forza, da lacerare quasi i jeans che le coprivano. Per la prima volta capì la verità, capì quanto in realtà odiasse Simon per averlo manipolato tante, troppe volte nel corso di vent'anni e passa. Lo aveva trattato come un burattino, raggirato, convinto a fare una cosa meschina e disgustosa come fare del male in ogni modo possibile e immaginabile a una persona che non aveva mai fatto del male a nessuno, specialmente alla famiglia Tarren. Odiava Simon e odiava se stesso per aver ignorato la coscienza e non aver mai dato retta all'istinto, al flebile buonsenso che spesso gli aveva gridato di fermarsi, di liberare Casey, di aiutarlo e rimediare agli errori, anzi orrori, commessi su quest'ultimo.

Si odiava e forse... forse ormai era troppo tardi per fare la cosa giusta, per sperare in una qualche redenzione, sempre che ve ne fosse un minimo di fronte a crimini del genere.

Forse, comunque fossero andate a finire le cose, si sarebbe fatto arrestare, costituito di sua spontanea volontà, anche se poi sicuramente suo padre avrebbe risolto come al solito la questione e poi lo avrebbe fracassato di botte per avergli disobbedito.

No... costituirsi non sarebbe stato sufficiente, non avrebbe lenito i sensi di colpa, non avrebbe ristabilito l'equilibrio fra giustizia e crimine.

In tutta franchezza Dominic iniziava sul serio a credere che forse avrebbe fatto molto meglio a spararsi un colpo di pistola in testa o qualcosa del genere. Ora che aveva permesso al rimorso di entrare nel suo cervello, in ogni fibra del suo essere, sapeva fin troppo bene che non sarebbe riuscito a convivere con esso a lungo, non senza rischiare di abbandonare per sempre la ragione.

Il cellulare squillò e lo sottrasse ai cupi pensieri che rischiavano di farlo uscire di senno. Recuperò lo smartphone e dopo un paio di secondi accettò la chiamata di sua sorella, pur con reticenza.

«Nic, allora?»

Dominic deglutì, dondolandosi un po' sulla seggiola. «I-Io... non lo so che sta succedendo là dentro, Irene. Nessuno esce o mi dice niente. Non lo so, accidenti!»

«Ti avranno pur detto qualcosa quando siete arrivati! Sforzati, Nic, per favore! Qui stiamo crepando d'ansia, sia io che Noah!»

«Non vuoi davvero saperlo» replicò lui, la voce a un passo dallo spezzarsi.

«No... Non dirmi che...»

«Sì, probabilmente lo perderà e forse...»

«No, non se ne parla! Non può morire!»

«E perché mai non dovrebbe, eh? Qui ormai sta andando tutto a rotoli!»

«Non è per fare la rompiscatole, ma ti avevo avvertito di non maltrattarlo. Te lo avevo detto di cambiare atteggiamento o di lasciarlo in pace e libero di andarsene! Quante volte ti ho ripetuto che sarebbe andata a finire male questa storia? Quante?!»

«Grazie, sorella! Ci sono altri errori madornali che brami di sbattermi in faccia? Ora sì che vorrei ammazzarmi.»

«Dammi un anno e ti butto giù una bella lista, fratellino. Ammazzarti servirebbe a poco, smettila di fare il melodrammatico e comportati da uomo.»

«L'altro dov'è?»

«L'ho fatto uscire da lì, pensavo lo avessi capito. Finché non tornerà nostro padre ne approfitteremo. Non è facile, però. Gli ho detto di Casey e mi sta tormentando perché vuole raggiungerlo in ospedale.»

Dominic serrò le palpebre ancora una volta. «Fallo venire pure. Nostro padre tornerà verso le otto di sera, abbiamo ancora del tempo.»

«Sei sicuro?»

«Non sono più sicuro di niente.» Il giovane Tarren mise giù e nella foga, per i disperati sensi di colpa che provava, fracassò a terra il cellulare. Vide di colpo un'infermiera uscire e trattenne il fiato. Col cuore in gola, senza la reale volontà di sapere, si fece forza, si alzò dalla seggiola e raggiunse la donna la cui espressione, tuttavia, non lasciava presagire nulla di buono.

Rimase di sasso quando lei gli disse che per il momento Casey e i suoi bambini erano ancora vivi. Convinto di aver capito male, le chiese di ripetere, ma l'esito fu sempre lo stesso: l'Indigo portava in grembo non uno, ma due feti. Due gemelli le cui sorti, stando alle parole dell'infermiera, attualmente erano ancora incerte e sul filo del rasoio.

Dominic barcollò sul posto e si appoggiò alla parete per non cadere. Aveva le gambe molli e il respiro mozzato. Se fino ad allora si era ripetuto, per farsi forza, che le cose non sarebbero potute andar peggio, ebbene era stato appena smentito, preso a schiaffi dalla verità, dalla consapevolezza di aver forse condannato Casey a morte.

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