𝐗𝐈𝐈𝐈. 𝐋𝐞í𝐫𝐨𝐧
Osservò i genitori e il fratello consumare la solita e lauta colazione: sua madre si stava versando del tè caldo e fumante dalla teiera d'argento, suo padre invece imburrava un toast abbrustolito al punto giusto e, nel farlo, non aveva minimamente abbandonato l'abituale espressione altera.
Quanto a Dominic, sedeva scomposto e sorseggiava del caffè bollente, smanettando nel frattempo con il cellulare. A lui era permesso fare tutto, purché continuasse a sottostare al volere del loro padre-padrone e a fare il leccapiedi.
Irene sospirò e tornò a guardare il proprio tè e i macarons rosa chiaro guarniti con crema alla vaniglia e adagiati su un piattino a parte. Non aveva granché fame.
«Tesoro, non mangi niente?» le chiese la madre col solito tono di voce fra il dolce e il malinconico. Cora Tarren era una bella donna, ma la tristezza che da quasi trent'anni di matrimonio si portava dietro cominciava a ripercuotersi anche sul suo aspetto.
I suoi capelli biondi erano striati d'argento e per questo sembravano ancora più chiari e mettevano in risalto maggiormente il suo pallido incarnato, il viso minuto dall'ossatura sottile e aggraziata, i suoi occhi dal taglio allungato e grandi.
Irene abbozzò un sorriso. Non riusciva mai a risponderle male, né a trattarla male.
Non poteva farlo, non con quella donna così fragile.
«Ho un po' di mal di stomaco, stamattina. Passerà, tranquilla» la rassicurò.
Suo padre finalmente sollevò lo sguardo dal giornale cittadino: due occhi neri come il carbone ma non per questo meno gelidi.
«Digiunare di certo non ti aiuterà. Sforzati, non tutti hanno il privilegio di mangiare così ogni singolo giorno.»
«Non tutti hanno un padre che li tratta come se avessero ancora tre anni, questo è sicuro» mormorò tra sé Irene, decidendosi a prendere almeno un sorso di tè dalla tazzina di porcellana.
«Che cosa hai detto, scusami?» l'apostrofò duramente Simon, sfidandola a ripetere.
Persino Dominic, di solito pigro e noncurante, trattenne il fiato e si fece teso come una corda di violino. I suoi occhi azzurri spaziarono nervosamente dalla sorella al padre e viceversa, in attesa di un probabile scontro. Non sarebbe stato neppure strano, dopo la lite del giorno prima. Erano trascorsi tre giorni, contando quella mattina, da quando era tornato Casey, e la situazione non faceva che peggiorare, in piena caduta libera. Irene era decisa a opporre finalmente resistenza e a ribellarsi e questo – anche se era inutile ribadirlo – non piaceva al signor Tarren.
La ragazza deglutì appena, ma non si diede per vinta nella silenziosa lotta di sguardi con il padre. «Ho detto che continui a trattarmi come se fossi una bambina sciocca.»
«Forse, Irene, perché alla fine è ciò che sei: una sciocca bambinetta.»
«Caro...»
«Fa' silenzio, Cora.»
«Smettila di trattare così la mamma» fece Irene, stringendo le dita sul bordo del tavolo.
«Non ti permettere di rispondermi così né di darmi degli ordini, stupida ragazzina!» sbottò il signor Tarren, battendo un pugno sulla lunga tavola di legno scuro.
Irene scattò in piedi. «Non è giusto che Casey debba sposare mio fratello! Non lo ama e per quanto io adori Dominic, è innegabile che gli abbia mancato di rispetto e fatto del male! Non possiamo costringerlo, non siamo nel Medioevo! I matrimoni riparatori ormai sono stati superati! Ha diciannove anni!»
«Oh, qui abbiamo un aspirante avvocato!» la prese in giro il padre. «Adesso torni a sederti, finisci la colazione e poi la smetterai per sempre con questa storia.»
«Bene, quindi ho il permesso di proseguire l'arringa finché non avrò terminato tutto» rispose a tono Irene con un sorrisetto sardonico.
«Irene!» la pregò la madre.
«Scusa mamma, ma il vento della rivoluzione nel resto del mondo è passato da un pezzo e ha portato via con sé la mentalità retrograda di certi parrucconi! Ad alcuni hanno persino tagliato la testa, giusto per star sicuri che non tornassero a scocciare!»
«Rivoluzione, ah! Parli come quel matto di tuo zio Charles!» la derise Simon, il disprezzo negli occhi. Tutti sapevano di chi stava parlando: Charles era il suo fratello minore e aveva sposato un'umana invece di una donna Alfa e benestante scelta dal loro ormai defunto padre. Aveva detto di no alle imposizioni, ma aveva anche pagato tale prezzo venendo diseredato e allontanato per sempre dalla famiglia.
Da ragazzina Irene lo aveva ritenuto un folle, ma cominciava a capire benissimo la scelta dello zio. Meglio poveri e felici, anziché ricchi e con il fegato rigonfio per la rabbia. «Non ho più fame, adesso. Dico sul serio» disse gelida, gettando sul tavolo il tovagliolo ricamato e uscendo a passo di marcia dalla sala da pranzo dove ormai l'unico suono proveniva dal fuoco scoppiettante nel camino. Udì dei passi, ma non si fermò.
«Irene!»
«Lasciami in pace, Dominic!»
Proseguì fino alla grande biblioteca e vi si chiuse dentro. Tuttavia Nic anche lì la seguì, per poi appoggiarsi alle porte e sospirare. «Che stai facendo, me lo spieghi?»
«Io che sto facendo? Tu che stai facendo? Hai la minima idea di cosa tu abbia scatenato?! Potevi lasciare in pace Casey e per una volta tornare a essere il bravo ragazzo che eri, ma no! Dovevi per forza fare lo spaccone come nostro padre e cacciarci tutti in questo pasticcio infernale!» sbottò in lacrime la ragazza.
Nic serrò le palpebre alla sua sfuriata. «Irene, ascolta...»
«Ho smesso di starti a sentire! Hai passato il segno e fosse per me ti spedirei in prigione! È quello che meriteresti dopo cosa sei stato capace di fare a un ragazzo innocente!»
«Non avevo scelta, va bene?! È stato lui a dirmi di farlo, porca puttana!» esplose suo fratello, col respiro velocizzato.
Irene rise sarcastica e applaudì. «Bravo, fratellino, ancora una volta getti la colpa su qualcun altro! Adesso è stato Casey a dirti, anzi a implorarti, di violentarlo in un vicolo contro il muro! Adesso sì che ho capito!»
«Non lui!» Nic si avvicinò e abbassò la voce. «Parlo di nostro padre! Lo sai che mira da sempre a distruggere completamente il vecchio Milton Leroin!»
Irene era sconvolta. «E tu...», ringhiò, puntellandogli il petto con l'indice, «tu, razza di stronzo, hai accettato? Dove cazzo l'hai seppellita la coscienza, dimmi? Tanto per andarla a recuperare, sbattertela in testa e finalmente farti capire che hai rovinato più di una vita innocente!»
«E tu perché non hai detto nulla che ti vedevi con un tizio del college, eh? Neanche tu pensi più di tanto a quello che fai!»
Lei fece un passo indietro. «C-Cosa... come lo sai?!»
«Secondo te? Vuoi che ti faccia un disegnino o ci arrivi da sola?»
«Nessuno qui lo sapeva!»
«Credi davvero che nostro padre ti permetterebbe di andartene chissà dove, in giro per il mondo, senza qualcuno che ti tenga d'occhio per suo conto? Allora sei una stupida, scusa la franchezza! Papà non lascia mai andare sul serio niente e nessuno, Irene, lo sappiamo entrambi!»
Irene tentò di riprendersi dallo shock e si ravviò i capelli. «E questo cosa c'entra con Casey?»
Nic, come se di colpo si stesse liberando di un grosso peso sulle spalle, sospirò e scivolò giù con la schiena lungo le porte, lo sguardo puntato sul pavimento. «Io... io ho barattato Casey, un ragazzo che non era niente ai miei occhi e che non conoscevo, con la tua vita e la tua sicurezza. Okay?»
Quelle parole furono come uno sparo dritto nel cuore per lei. La ragazza si avvicinò, torcendosi le mani. «In che senso?»
«Cinque mesi fa nostro padre scoprì della tua storia con quel tipo del college. Era furioso e né io né la mamma sapevamo più come tenerlo a bada. Folle di rabbia, Irene, non lo hai mai visto in quello stato. Per lui corrispondeva a un reato grave, imperdonabile. Ti aveva promessa al figlio di Finlay dal giorno in cui siamo nati e purtroppo qui le chiacchiere corrono, qualcuno ha parlato troppo e anche i Finlay sono venuti a saperlo. Albert non se l'è presa, quello stravede per te e accetterebbe persino di farsi malmenare da te, ma suo padre e il nostro vecchio erano arrabbiati e stavano per mettersi d'accordo sul punirti con la pena massima.» Si sfregò la fronte. «Credi che a me stia bene che qui ci siano ancora usanze così primordiali e da barbari? Pensi sia stato semplice scegliere fra la tua vita e la dignità di uno che a malapena conoscevo e non mi aveva fatto niente di male? Allora mi conosci davvero poco, e non sai quello che farei pur di saperti felice e al sicuro. Non mi conosci e questo mi fa ancora più male.»
Irene si portò una mano al petto, incapace di respirare, di parlare.
«Papà da anni brama di farla pagare al nonno di Casey per quello che accadde fra le nostre famiglie tempo fa, e anche di metter mano al sedicente patrimonio nascosto dei Leroin e sì, sul rara avis di Milton. Ciliegina sulla torta? Il padre di Casey, lo stesso che aveva preso con la forza la figlia del vecchio, non appena seppe della nascita di Casey e della sua... particolare condizione, decise di promettere un giorno quel bambino miracoloso, il diamante allo stato grezzo, proprio a me. Ovviamente fu un'idea sua e di nostro padre.»
Irene si abbandonò al suo fianco, scossa e incredula. Come potevano quegli uomini aver architettato una cosa del genere?
Si umettò le labbra. «Ho... ho letto una cosa, anni fa, sulla famiglia di Casey, in particolare sulla storia del loro cognome. Non sono affatto di origini francesi. In realtà uno dei primi antenati sbagliò a registrare il proprio cognome, una volta. In origine si chiamavano Leíron e pare avessero origini molto più remote di tutti noi, risalivano a quelle degli antichi Greci. Poi emigrarono qui e il resto è storia.»
«Lo sapevo, sì» ribatté stancamente Nic. «Leíron significa ‟giglio".»
Si guardarono a vicenda. Irene, accigliata, finalmente capì. «Mio Dio... Casey è di sangue reale» sentenziò senza fiato. «È un principe e per giunta di stirpe antichissima.»
«Sì, così ha detto nostro padre. Un principe caduto in disgrazia, come il resto della sua famiglia da ormai tante generazioni. Alla fine tutti i Leroin hanno dimenticato le proprie vere discendenze e sono passati ad essere una semplice famiglia nobile. In realtà avrebbero il diritto di comandare su tutti noi in maniera incontrastata.»
Irene, tuttavia, ancora non capiva tante cose. «Perché sei stato così orribile con lui per tutto questo tempo? Se sai benissimo che è innocente, se riesci a capire questo, perché torturarlo a quel modo?»
«Perché... perché a forza di stare sempre con nostro padre... ho scordato chi sono veramente, Irene. Perché è lui a volere che tratti Casey in maniera orribile, dice che devo insegnargli a rispettarmi e a temermi, fargli capire chi è che comanda, specie ora che sta per avere un figlio da me.» Il ragazzo rise tra le lacrime, sollevando le braccia e lasciandole poi cadere sulle ginocchia. «Gli ho permesso di farmi diventare un cazzo di mostro come lui! Cristo! Siamo proprio una famiglia di degenerati!» Rise ancora, quasi isterico. «Effetto Lucifero, stronzate varie, insomma sono un figlio di puttana.» Strinse le spalle, si coprì il viso e crollò in lacrime. «Cazzo, Irene, ammazzami!»
Irene non sapeva davvero più che pesci prendere, era tutto così paradossale e assurdo. «Ammazzami, ti scongiuro, non ce la faccio più a vivere così, a mentire e a convivere con cosa ho fatto!»
La ragazza prese il gemello per le spalle e lo scosse con forza. «Adesso smettila! Piangere non risolverà niente e non restituirà a Casey tutto quello che gli avete tolto!» lo apostrofò duramente. Avrebbe tanto voluto provare pietà per lui, tentare di capirlo, ma non ce la faceva, andava oltre ogni sua comprensione e capacità di dispiacersi per Dominic. C'erano azioni semplicemente imperdonabili. Strade dell'inferno lastricate da buone intenzioni che si poteva anche scegliere di non percorrere. Ora anche lei si sentiva in un certo senso responsabile.
Una cosa era sicura: dovevano allontanare Casey e Noah al più presto da lì. Discendenza regale o meno, il passato era passato, la monarchia ormai era decaduta da un bel pezzo e non aveva senso mettersi a guerreggiare per far salire al trono un ragazzo che ne aveva già viste di cotte e di crude in abbondanza.
Casey aveva il diritto di avere una vita normale fuori da quell'inferno chiamato Caverney Town.
Lasciò andare il gemello e fece un respiro profondo. «Ecco cosa faremo: aiuteremo Casey e il suo amico ad abbandonare non solo questa casa, ma anche la città, e dovremo farlo prima della data prevista per il parto. Ormai è tardi perché possa abortire, ma che io sia dannata se permetterò a un bambino innocente di diventare uno strumento di potere nelle mani di nostro padre.»
«Aspetta un attimo, tu vuoi fare cosa?» esalò Dominic, incredulo.
«Hai sentito bene, Nic, e non credere di poter chiamarti fuori da questa faccenda. Lo devi a Casey, non ti pare? Dopo tutto quello che gli hai fatto, dopo il casino in cui lo hai coinvolto, il minimo che tu possa fare è aiutarlo a tornare in libertà prima che papà possa finire di chiuderlo in gabbia. Stavolta non andrà come vuole lui.»
Dominic deglutì a vuoto. «V-Va bene. Va bene, ci sto. È giusto così.»
«Mi fa piacere vedere che tu abbia finalmente riacceso il cervello.» Irene si rimise in piedi e diede una mano al gemello a fare lo stesso. «Ti avverto, Nic: se ti ripesco di nuovo a infastidire Casey o a insultarlo, picchiarlo o Dio solo sa cos'altro, giuro che dovrai risponderne a me personalmente. Basta passi falsi.»
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