𝐗. 𝐃𝐚𝐟𝐟𝐨𝐝𝐢𝐥 𝐌𝐚𝐧𝐨𝐫
Casey non era sicuro se avesse perso i sensi lungo il tragitto o si fosse semplicemente addormentato per la stanchezza, ma si riprese proprio mentre l'auto si accingeva a varcare l'alto cancello in ferro battuto di Daffodil Manor che lui, con ben poca enfasi, dentro di sé non mancava mai di soprannominare la ‟casa degli orrori". Odiava quel posto. Chiunque non fosse amico della famiglia Tarren lo detestava, in generale, ma nel suo caso si trattava di odio giustificato e radicato.
Mesi di prigionia, lì dentro, erano trascorsi con la stessa snervante lentezza di dieci anni. Non avrebbe saputo dire con certezza quante ore, quanti giorni avesse trascorso, impotente, a guardare in lontananza Caverney Town ergersi ai piedi della collina, indifferente a ciò che accadeva all'interno di quelle mura maledette, al dolore che Dominic aveva arrecato a lui e alla sua famiglia.
I pochi giorni di libertà trascorsi in compagnia di Noah, a quel punto dei fatti, ai suoi occhi erano alla pari di un bel sogno infrantosi bruscamente nello stesso momento in cui la realtà gli aveva mollato un ceffone e lo aveva fatto rinvenire. Un piccolo angolo di paradiso nel punto più profondo e dimenticato da Dio del pozzo infernale, e Dominic rappresentava il demoniaco e luciferino sovrano di turno dei suoi incubi più oscuri, anche se mai avrebbe retto il confronto con suo padre, Simon. Se per Casey Dominic era una specie di Anticristo, Simon allora era Satana. Se non era stato il suo sconsiderato e sadico figlio a fargli rimpiangere di esser nato, allora ci si era messo il vecchio Tarren a rendergli la vita un inferno. Troppe erano state le volte in cui Casey era stato minacciato di vedere sua madre e suo nonno fare una brutta fine, se non avesse imparato le buone maniere, a obbedire e, soprattutto, starsene zitto e buono. In casa Tarren quelli come lui, gli Indigo, e gli Omega, non avevano voce in capitolo, proprio come era stato ed era ancora, in alcune parti del mondo, per le donne umane.
A fronte di tutto ciò, neanche per un istante il ragazzo osò pensare che peggio di così non sarebbero potute andare le cose, perché temeva che, come al solito, la vita avrebbe potuto prendere tali parole come una sfida. Era molto meglio tacere anche nei pensieri e sperare che l'incubo, in un modo o nell'altro, avesse fine in tempi brevi.
Mentre i suoi pensieri cupi e in parte febbrili, quasi sconclusionati, si accatastavano nella sua mente, guardava l'imponente maniero farsi sempre più vicino, proprio come un gigantesco e scuro mostro con le fauci spalancate che aspettava di vedere Dominic e gli altri gettarlo dritto nella sua gola, di nuovo in un terribile sogno dal quale non ci sarebbe stato modo di svegliarsi.
Daffodil Manor era una di quelle grandi case a metà fra una villa e uno château. Monumentale, maestoso, sobrio e capace di incutere timore in chiunque, regnava su Caverney Town dalla dolce collina sulla quale stava appollaiata. Le sue finestre, alla pari di tanti occhi che di notte si illuminavano, osservavano con un torvo e superbo cipiglio la città situata nella pianura, proprio a fondo valle e ai piedi del verdeggiante clivo. Le pietre con cui Daffodil Manor era stata costruita si presentavano come una composizione solida e ordinata, per almeno due secoli avevano resistito al tempo che tendeva a corrodere ogni cosa; il tetto spiovente si ergeva verso l'alto, verso il cielo che prometteva pioggia e borbottava come il peggior bestemmiatore di porto. C'era, in breve e al tempo stesso, qualcosa di magnifico e terrificante in quella struttura. Forse la presenza di due anime subdole come Simon e Dominic, alla fine, era riuscita ad attecchire ai muri e ai pavimenti, e la casa non aveva potuto far altro che respirare e inglobare dentro di sé la malizia e la povertà di spirito del padrone di casa e del suo primogenito, nonché futuro erede dei possedimenti Tarren.
Caverney Town, suddita di Daffodil Manor, era una città abbracciata dalla natura, immersa in boschi di sempreverdi e conifere. Sembrava il luogo perfetto dove poter girare una pellicola contemporanea adolescenziale dai risvolti soprannaturali. Al contempo era in apparenza un luogo come tanti altri se ne vedevano, niente di speciale in superficie, tutto pareva tranquillo, provinciale e noioso, tranne per il fatto che in realtà Caverney Town non esisteva sulle cartine geografiche né vi erano segnali stradali che potessero condurvi visitatori esterni. Come mai? La specie di Casey aveva scelto di nascondersi, anziché correre il rischio di ricevere indesiderate attenzioni. Gli umani avevano distrutto gran parte dell'habitat degli Alphaga, avevano portato ovunque l'industrializzazione e, così facendo, costretto inconsapevolmente molti di loro a cambiare modo di vivere e ad adeguarsi. Non tutti ce l'avevano fatta, ormai rappresentavano una minoranza che forse era destinata a eclissarsi del tutto nel giro di un paio di secoli.
Quasi tutte le città Alphaga erano protette da quello che tutti definivano il Confine, una specie di barriera fra lo spazio, il tempo e forse l'inferno stesso. Se un umano qualsiasi passava di lì per puro caso, vedeva solo una semplice radura in mezzo alla vegetazione, nient'altro. Casey, sarcasticamente, aveva sempre definito Caverney Town una sorta di enorme club privato: o si veniva invitati alla festa oppure si restava chiusi fuori come degli imbecilli creduloni. Sarebbe stato bello poter distruggere la barriera e finalmente rivelare al resto del mondo quella città dimenticata da Dio. Ci avrebbe riso su per un anno intero.
L'auto, insieme a quella in cui si trovavano Dominic, Irene e Noah, si fermò sul viale principale. Andreas e Trevor scesero e il primo aprì la portiera a Casey. Non fece niente per costringerlo a scendere o simili. Rimase in attesa. Evidentemente Nic voleva trascinarlo dentro quella casa di persona, come un ragazzino viziato avrebbe potuto fare con un povero cane appena recuperato dal canile. Come un re vincitore con un misero schiavo fuggitivo che alla fine aveva di nuovo catturato, anzi. Daffodil Manor per il resto dei cittadini era semplicemente quel che sembrava, ma per Casey rappresentava la schiavitù.
L'Indigo udì Dominic ordinare ai due tirapiedi di pensare a Noah, poi dei passi avvicinarsi e infine incontrò con ostinato gelo lo sguardo altrettanto glaciale del rampollo dei Tarren. Senza proferir parola, Dominic strappò prima il nastro dalle sue caviglie, poi passò ai polsi. «Prova a fare qualche scherzetto e ti giuro che stavolta te le suono davvero, bambino o meno» lo avvertì. Casey sapeva che faceva sul serio, le sue non erano mai minacce campate per aria. Di per sé non rappresentava niente agli occhi di Dominic, in lui quello stronzo vedeva una semplice incubatrice che custodiva un prezioso carico, nulla di più. Avrebbe potuto benissimo picchiarlo fino a farlo andare in coma, la sola cosa ad importare a tutti loro era che il feto restasse incolume. I feti, anzi.
Casey ormai non poteva non riconoscere di esser stato battuto per l'ennesima volta e di non avere alcuna possibilità concreta di darsela a gambe. Per fuggire avrebbe dovuto prima accordarsi con Noah e studiare insieme a lui un piano preciso e ben congegnato, sempre che quella famiglia di invasati avesse intenzione di lasciare McKay in vita e di farli interagire, cosa che il ragazzo riteneva assai poco probabile. Dopo quell'ennesima fuga, Dominic lo avrebbe di certo chiuso in quella dannata stanza per i restanti altri sei mesi di gravidanza. Diversamente dalla gestazione umana, quelli come loro se la prendevano più comoda e si arrogavano il lusso di un altro mese di permanenza nel resort qual era il grembo del povero diavolo di turno. Anche tra di loro esistevano i parti prematuri e roba simile, ovviamente, ma il periodo ideale di gestazione era di dieci lunghissimi mesi.
Ancora intontito e sconfitto, Casey si limitò ad annuire. La gamba ferita, poi, gli faceva più male di prima e pulsava dolorosamente. Gli pareva quasi di poter sentire i frammenti del proiettile affondare sempre di più dentro la carne viva e maciullata. La nausea, poi, non aiutava per niente, e gli girava un po' la testa. Con l'orribile futuro che gli si prospettava di fronte, non sarebbe affatto stato così male morire d'infezione.
«Forza, scendi» gli ordinò Dominic.
Per semplice orgoglio e amor proprio, Casey scelse di non ricordargli che camminare in quello stato gli fosse pressoché impossibile. Deglutendo fece prima uscire una gamba, poi l'altra, ma con lentezza. Si aggrappò ai bordi della portiera, quello superiore in particolare, così da potervi fare perno. Non appena uscì, tuttavia, rovinò sul grigio lastricato come un cervo appena nato. Trattenne un gemito di dolore.
Dominic, dall'alto del suo metro e ottanta di superbia e silenziosa ira, lo squadrò infastidito. «Sei veramente imbarazzante. Sei un imbarazzo per tutti quelli della tua specie. Non meriti il sangue che hai nelle vene» sibilò. «In piedi, avanti!» gli latrò contro.
Leroin non aveva idea di cosa avesse di così speciale il suo sangue, come gli era stato più volte ricordato da quel pazzoide. Sapeva solo che avrebbe dato via un rene pur di avere la forza di rimettersi su e mollare un pugno dritto sul naso di Dominic.
Irene si avvicinò e cautamente fece arretrare il fratello. «Nic, ora dacci un taglio. Sarà pur fuggito, ma ora è a casa e c'è ben altro di cui preoccuparsi, al momento.»
«Irene, non ti permetto di...»
«Piantala e ragiona. Non riesce a camminare, lo vedi?» La ragazza roteò gli occhi e si chinò per aiutare Casey. «Dai, prova ad appoggiarti a me.» L'Indigo, non avendo molta scelta, fu costretto a obbedire, tuttavia di nuovo le sue gambe non riuscirono a sostenere il peso, neanche col sostegno di Irene. «Devi portarlo alla vecchia maniera, Nic.»
«Non se ne parla. Può anche strisciare, per quel che mi interessa. Si meriterebbe proprio una punizione del genere.»
Lei restrinse lo sguardo e poi fece qualcosa per cui forse Casey addirittura le avrebbe conferito una medaglia d'oro zecchino: tirò un ceffone secco e schioccante al fratello, senza l'accenno di paura delle possibili conseguenze. Forse Casey cominciava a capire chi dei due fosse a comandare nel loro rapporto fraterno. Non si stupiva che Irene avesse una marcia in più. Accadeva spesso, specialmente quando si trattava della loro specie, e se poi si aggiungeva che Irene era di stirpe Alfa, tutto era triplicato. Anche a scuola aveva dimostrato ripetutamente di non essere una capace di accettare una risposta che non fosse affermativa.
«Non costringermi a ricordarti un paio di cosette, fratellino» disse tagliente. «Ora aiutalo, forza. Smettiamola con le bambinate.»
Dalla voglia di stringerle la mano, Casey tornò a detestarla come al solito non appena Dominic lo prese su a mo' di sposina, cosa già di per sé abbastanza imbarazzante. Si irrigidì immediatamente come un manichino, incapace di frenare l'istinto che gli suggeriva di tener alta la guardia. Accadeva tutte le volte che quell'essere osava anche solo sfiorarlo. Un meccanismo di difesa come un altro. Dovette subito dopo ragionare e si disse di dover giocare bene le carte che gli erano state assegnate, per quanto poche e misere. Si fece coraggio e parlò con Irene. «Vi prego, non fate del male a Noah. Lui voleva solo aiutarmi, non c'entra niente.»
Aveva sempre odiato pregare il prossimo, ma c'erano volte in cui bisognava ingoiare l'orgoglio.
Con la coda dell'occhio vide che l'uomo si era ripreso, ma era ancora intontito mentre, mansueto come un agnellino, permetteva a Trevor di legargli i polsi con del nastro isolante. Doveva esser colpa della robaccia che gli avevano iniettato tramite quei proiettili.
Era davvero strano che un essere umano avesse reagito a quel modo alla sostanza che era entrata in circolo nel suo corpo. Così strano da sollevare per la prima volta in Casey dei dubbi, per quanto ridicoli e assurdi.
Irene si scambiò un'occhiata col gemello, poi rivolse uno sguardo indulgente al ragazzo e piegò le labbra in un lieve sorriso. «Tranquillo, non gli faremo niente. Vogliamo solo parlare con lui e assicurarci che non vada in giro a raccontare di tutto questo. Non lo uccideremo, fidati.»
Casey ovviamente non si fidava, ma quali alternative aveva?
Annuì appena, guardando una seconda volta Noah e augurandosi che Irene, almeno in quel frangente, fosse stata sincera.
«Nic, intanto portalo dentro. Chiamo qualcuno, la sua gamba va curata. Rischia un'infezione.»
«Al momento rischia cose ben peggiori di un'infezione, Irene» la zittì glaciale il fratello, per poi avviarsi verso la grande villa di pietra grigia e massiccia. Salì i gradini del portico, anch'esso del medesimo materiale e sostenuto da colonne, poi il portone di legno scuro venne aperto immediatamente.
Casey ormai conosceva l'antifona e sapeva che i Tarren potevano permettersi anche dei domestici e, infatti, fu il maggiordomo ad accogliere Dominic, senza scordare di rivolgere un'occhiata critica e indubbiamente sprezzante a Casey. L'Indigo li udì parlare, senza però ascoltare. Sentiva di non averne la forza e l'aver tentato di camminare e di instaurare una conversazione poco prima pareva avergli prosciugato di nuovo le energie. Scorse delle gocce di sangue bagnare il parquet lucido e non subito capì che era proprio il suo. Gocciolava dalla ferita rimasta chissà per quanto in pessimo stato, carne traumatizzata con ancora un proiettile incastrato tra un tessuto e l'altro. Cominciava, però, a non percepirne più la presenza né a rendersi conto di avere anche da quella parte una gamba in sé per sé. Cercò di restare lucido e cosciente, ma era un'impresa titanica.
«Appena arriva il dottore, mandalo subito da me di sopra» ordinò Dominic al maggiordomo. «E per l'amor del cielo, di' a Sarah di ripulire questo casino qui. Sembra di stare in un macello.»
Cas di nuovo ruotò lo sguardo sul pavimento: il sangue era aumentato, ormai era una piccola pozza color rosso scuro densa e leggermente lucida.
Se c'è una giustizia lassù, forse mi dissanguerò prima che arrivi il medico, pensò, non senza una punta di sollievo.
Percepì del movimento e capì che Dominic stava proseguendo e salendo le scale dell'atrio centrale. Stremato, senza più la volontà di respingere l'oblio, di nuovo si lasciò abbracciare dal buio e il suo capo ricadde all'indietro come quello di una bambola inanimata.
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