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𝐕𝐈. 𝐒𝐨𝐠𝐧𝐢 𝐩𝐞𝐫𝐝𝐮𝐭𝐢


Noah entrò in cucina senza accendere la luce. Ormai sapeva orientarsi a menadito nell'appartamento, lo conosceva da tanto tempo.
Si prese dell'acqua fresca nel frigorifero e fece un lungo e deliziato sorso. Tenne le palpebre socchiuse per via della luce del refrigeratore a dir poco accecante, se confrontata con il buio che regnava attorno a lui.
Non era stata la sete a svegliarlo, ma uno dei soliti incubi che faceva da quella sera maledetta in cui Meredith era morta. Considerando che i primi tempi a seguito della sua scomparsa aveva attraversato un periodo in cui spesso gli era capitato di rivederla nei posti più disparati, come ad esempio sul divano, intenta a leggere un libro, i brutti sogni potevano essere visti come un grosso miglioramento.
Non ricordava più cos'aveva sognato, sapeva solo di avere l'angoscia al pensiero di dover di nuovo stendersi sul letto e addormentarsi un'altra volta.

Un odore, misto anche a un accenno di brividi di freddo, catturò tuttavia la sua attenzione e quando si voltò, a momenti la piccola bottiglia gli cadde di mano. Sobbalzò vedendo Casey ancora sveglio alle tre del mattino. Lo vide oltre il vetro, sul piccolo balcone e intento a fumare una sigaretta. Si accigliò ed uscì a sua volta. «Che cavolo ci fai ancora sveglio? Domattina hai l'appuntamento dal ginecologo» disse con una certa severità nella voce. Non era nessuno per fare il bacchettone, ma quel ragazzo non aveva neppure vent'anni, era in condizioni delicate e quello era in ogni caso un pessimo vizio, specie se veniva assecondato di notte.

Casey si voltò e si strinse nelle spalle. «Non riuscivo a dormire.»

Noah sospirò e si ravviò i capelli. «Fumare non aiuta, credimi. La nicotina toglie ancora di più il sonno e te lo dice un fumatore incallito.» Doveva avergli soffiato una sigaretta dal pacchetto, visto che ricordava di aver lasciato quest'ultimo in salotto. «E comunque...»

«Oh, ti prego, non venire a dirmi che fumare fa male e roba simile» si lamentò il ragazzo, espirando un informe ricciolo di fumo che si disperse nell'aria notturna che sapeva di pioggia recente e città.

«Lo dico in generale, non solo per il tuo stato.»

«Domani non farà alcuna differenza, giusto?»

«Dopodomani sì, però, e così per tutti gli anni a venire. È una brutta abitudine e sei ancora in tempo per togliertela. Non vale la pena rovinarsi la salute così, fidati.»

Casey lo squadrò, poi si limitò a fare di nuovo spallucce e a tornare a guardare avanti, facendo un altro tiro. I vestiti di Noah gli stavano abbastanza larghi e la maglietta che indossava in quel momento lo copriva fin quasi alle natiche.

L'uomo sospirò e si mise accanto a lui, poggiando i gomiti sul parapetto. «Senti, sei... sei sicuro di volerlo fare?»

Il ragazzo annuì. «Più che sicuro. Non so se un giorno vorrò o meno dei figli, ma so di non volerne ora. Non così. Ho vent'anni e voglio godermeli. Non me ne frega niente di quello che si penserà di me dopo che mi sarò liberato di questa situazione.»

«Devo avvertirti di una cosa: il tuo corpo potrebbe dover affrontare...», Noah gesticolò. «Insomma, si tratta comunque di un trauma, una perdita che non potrà prevedere. Potresti dover far fronte anche tu al senso di perdita. È normale, almeno dal punto di vista biologico.»

Casey gettò oltre il parapetto la sigaretta ormai finita. «Sono andato a leggere qualcosa a riguardo e in parte, minima parte, mi spaventa, ma ho ancora di più paura a vedermela con un neonato che non saprei come gestire né come mantenere. E poi... un giorno crescerebbe, forse nel farlo scoprirei che somiglia molto di più a Dominic che a me e in quel caso non riuscirei neanche a guardarlo in faccia. Cosa gli direi? Come spieghi a un ragazzino una situazione come la mia, di non chiamarmi mamma? Cosa gli racconterei se dovesse chiedermi di suo padre? Bella roba: concepito in un vicolo, nel sangue e nella violenza!» Sventolò una mano. «No, no, è molto meglio chiuderla qui. È meglio per entrambi.»

Noah esalò un sospiro in parte amareggiato. Per la situazione in sé per sé, non perché era tra quelli che non vedeva di buon occhio l'aborto o simili. Storia personale o meno, quella restava sempre una scelta del tutto soggettiva e importante e non si sentiva in grado di far cambiare idea a Casey, specie con il motivo che alla fine li aveva fatti incontrare. Una vittima di violenza aveva tutto il diritto di non accettare di portare in grembo il frutto di un atto tanto orribile.

«Be', qualunque sarà la tua scelta domani, sappi che hai il mio appoggio.»

Cas tornò a guardarlo. Con quell'uomo non si era mai sicuri circa cosa gli ronzasse per la testa. Era un tipo difficile da leggere. «Lo sai, Noah? Sei una brava persona.»

«Almeno uno dei due lo pensa.»

«Beh, ho una certa esperienza in fatto di stronzi e tu non lo sei, non in quel senso almeno. Per il momento basta e avanza.»

Noah si morse il labbro inferiore. «Che tipo è quel Dominic? Giusto per regolarmi nel malaugurato caso in cui dovessimo incrociarlo.»

«Che tipo è?» Il ragazzo fece un forzato sorrisetto. «Metti insieme tutti i peggiori cliché e avrai lui come risultato: un venticinquenne palestrato degno delle spiagge californiane più affollate e con il cosiddetto complesso del leader. Nel suo caso è ancora peggio, essendo un Alfa.»

«Quando si dice che l'abito non fa il monaco.»

«Esatto.»

«Quei segni che hai... è stato lui a farteli?» Noah si riferiva alle macchie scure disseminate qui e là sul corpo del ragazzo. Le aveva notate di volata mentre, passando di fronte alla camera da letto, l'aveva visto intento a cambiarsi.

«Che fai, mi spii?» sghignazzò il giovane.

L'uomo avvampò, oltraggiato. «Certo che no! Per chi mi hai preso?»

Casey rise. «Okay, okay. Sei troppo onesto per essere un guardone.»

«Allora?»

«Sì, è stato lui a farmeli» rispose lentamente il ragazzo, lo sguardo basso. «La prima volta successe quando cercai di perdere il marmocchio a modo mio. Sgattaiolai in una delle camere da letto, presi una gruccia di ferro e approfittai della situazione: quel giorno erano andati tutti belli belli fuori, a spassarsela chissà dove, e così misi a bollire quell'affare per sterilizzarlo». Nel raccontare era evidente che facesse fatica a proseguire. «In un modo o nell'altro riuscii a dargli una forma diversa che potesse fare al caso mio e niente, tentai di procurarmi un aborto. C'era molto sangue, in realtà, e pensai di avercela fatta, per un attimo mi convinsi che fosse tutto finito, che qui dentro non ci fosse più niente, ma...», si sfiorò l'addome. «Era solo un'illusione. Ci vuole ben altro per liberarsi di un embrione come questo. Ho imparato a mie spese che sono più resistenti di quelli normali, specie a cose come quella che ho fatto io. Sentii il medico, ore più tardi, dire a Dominic che la placenta, nella nostra specie, è più... robusta ed elastica, diciamo così. Lo è proprio per proteggere il feto da traumi esterni. Siamo pur sempre creature mutaforma capaci di assumere sembianze e atteggiamenti animali e questo, ovviamente, rende la nostra esistenza più soggetta a eventuali brutti colpi. Si assottiglia solo verso la fine della gravidanza e naturalmente, a quel punto, non avrei più avuto modo di liberarmi di quel cosino, se non partorendo.» Sospirò. «Credo che fu per questo che poi Dominic, una volta tornato, appena capì tutto me le suonò di santa ragione. Sapeva che non sarebbe accaduto niente al feto. Mi disse che ero suo ormai, che dovevo obbedirgli e avrei dovuto sopportare in silenzio di avere dentro di me suo figlio e nel frattempo di essere un bravo compagno, anche se usò termini ben diversi. Crede che basti un morso sul collo e un marmocchio in arrivo per rendere chiunque il suo schiavo personale. Per lui ero solo un'incubatrice e di tanto in tanto anche un oggetto di piacere. È uno psicopatico del cazzo, te l'ho detto, e pare che gli piacesse ancora di più farlo con me nella mia attuale condizione.»

Noah deglutì. Aveva un accenno di nausea, ma il sentimento a prevalere in lui al momento era la rabbia. «Figlio di puttana.»

«Per qualche motivo ce l'ho più con la sua famiglia che con lui, sai? Voglio dire, passi per Dominic che è un bastardo senza qualche rotella, ma gli altri? Loro sapevano cosa succedeva ogni cazzo di giorno e non facevano niente per fermarlo. Per loro era come se stesse maltrattando una specie di animaletto da compagnia, il che farebbe già abbastanza schifo. Io mi sento in colpa anche solo a cacciare un urlaccio a un gatto.»

«Si può sapere da che cavolo di città vieni, senza offesa?»

«Da Caverney Town e lì tutti sono della mia razza. Alla fine siamo solo animali in involucri umani, come ti ho già detto. Dentro siamo bestie e quelli come Dominic, semplicemente, lo sono più di tutti gli altri. Io fin dall'inizio ho sempre fatto di tutto per reprimere la mia natura. Non ho mai amato ciò che sono e darei non so cosa per essere umano. Avrei avuto meno rogne, tanto per cominciare.»

Noah tacque, poi: «Prima o poi mi dirai come stanno davvero le cose?»

«Sì, sempre che tu non decida di sbattermi fuori perché ti finisco le scorte di cibo in continuazione e sembro aver preso a godere il tuo PC.»

L'uomo sbuffò una risata, poi gli strinse una spalla. «Fila a dormire, adesso. È tardi.»

Rientrarono, ma quando Noah fu sul punto di tornare sul divano, Casey esitò e alla fine gli chiese di restare con lui finché non avesse ritrovato il sonno. Gli parve un bambino che chiedeva al padre di vegliare sui suoi sogni minacciati dal fantomatico mostro sotto il letto. Per quel che poteva saperne, forse quel ragazzo ogni notte rivedeva le violenze subite. Magari voleva solo che qualcuno gli stesse accanto, anche solo per un momento.

Noah sorrise spontaneo e si rimise in piedi, seguendolo. Per scherzo gli rimboccò le coperte come di solito si faceva coi bambini, guadagnandosi un lieve spintone dal retrogusto giocoso. «Fottiti, accidenti a me!»

«Su, su, poche storie e fai la nanna, piccoletto.»

«Ti uccido.»

Noah si limitò a dargli delle delicate pacche sul capo, per poi recuperare una seggiola dalla cucina, tornare e sedersi accanto al letto. «Devo raccontarti una fiaba?»

«Sì, quella dove tu vieni investito da un tram» borbottò Casey, sistemandosi su un fianco. «Parlami di qualcosa di bello del tuo passato.»

Noah ci pensò su. «Una cosa che mi piaceva molto fare era andare a pattinare, quando ancora abitavo a Manhattan. Pensa che da piccolo sarei voluto diventare un pattinatore!» Sbuffò una risata velata di nostalgia.

«E perché poi non se ne è fatto più niente?»

«Perché sono un coglione» ribatté ironico l'uomo. «E perché a dieci anni dovetti subire un intervento e... beh, in pratica non mi fu più possibile fare tutti quei salti come quando pattinavo sul ghiaccio. Col tempo me ne sono fatto una ragione e mi sono convinto che in ogni caso non sarei mai arrivato lontano.»

Vide negli occhi di Casey qualcosa simile al dispiacere, poi le labbra del ragazzo si piegarono in un leggero sorriso. Non erano grandi, ma comunque proporzionate e in armonia con il suo viso; sembravano appartenere a un cherubino. «Quasi quasi te lo offro un posto al mio fianco come socio ai Caraibi, sai?»

«Se la metti così sarò felice di accettare.»

«Non farci l'abitudine, però. Si dovrà sgobbare.»

Noah fece per augurargli un buon riposo, ma si fermò udendo parlare il giovane: «Non lo facevo da quando ho scoperto che ero rimasto fregato. Fumare, intendo. Ricordo che chiamai Dominic, incazzato nero. Mi aveva violentato, ma la mia rabbia superava il trauma, almeno in quel momento, così sì... lo chiamai e gli dissi che dovevamo parlare a quattrocchi e che non doveva azzardarsi a tirarsi indietro. Volevo che almeno mi desse una mano a risolvere il problema, ma quando arrivò nel luogo prestabilito... con lui c'erano i suoi tirapiedi. Mi costrinsero a salire nell'auto. Prima di uscire avevo detto a mia madre e a mio nonno che sarei andato a fare due passi, a trovare un amico, un mio ex-compagno di scuola. Non tornai più e non so cosa ne sia stato di mia madre, di mio nonno che mi ripeteva sempre, tutte le volte che dovevo varcare la soglia di casa, di stare attento e di non permettere a nessuno di allungare le mani. Io ci scherzavo su, non lo prendevo mai sul serio. Non so perché quel giorno non dissi niente a nessuno dei due della gravidanza. Credo... credo volessi cavarmela da solo e comunque mia madre e mio nonno si sarebbero arrabbiati, lui avrebbe forse fatto qualcosa in preda alla rabbia e sarebbe finito in guai seri per colpa mia. In fin dei conti ho diciannove anni, no? Quasi venti. Avrei abortito con una pillola e tutto sarebbe finito così, nessuno si sarebbe fatto male né sarebbe mai venuto a saperne alcunché. Avevo... avevo solo bisogno dei soldi per pagarmi quella maledetta pillola. Costano un casino, quelle per noi Alphaga, e la mia famiglia non sguazza nell'oro».

Casey per la prima volta sembrò in parte abbandonare la dura corazza che lo proteggeva e mostrarsi fragile ed esposto. Vulnerabile.

«Volevo solo che quel bastardo in qualche maniera riparasse al danno che aveva fatto. Avevo persino tentato di denunciarlo, ci andai il giorno seguente, ma non venni ascoltato. Lo sceriffo neanche volle ricevermi e la mia denuncia venne gettata subito nel dimenticatoio. Quando poi lo incontrai per chiedergli i soldi per la pillola abortiva e parlammo nella sua macchina, lui mi disse che non avrei abortito per nulla al mondo, che avrei dato alla luce suo figlio, che lo volessi o meno, e che ormai gli appartenevo. Mi disse che forse, dopo la nascita, mi avrebbe persino fatto la gentile concessione di sposarmi. Mi incazzai ancora di più, ero arrivato al limite dopo aver capito quali intenzioni aveva e dove stavamo andando con la sua auto, e allora gli sputai in faccia, gli dissi che mi faceva schifo e che sarei riuscito a fargliela pagare, a scappare e a vendicarmi. Gli urlai contro che se avesse davvero osato forzarmi a proseguire con la gravidanza avrei... avrei persino avuto il fegato di soffocare il neonato non appena fosse uscito dal mio ventre, perché preferivo quella creatura morta, anziché vederla tra le braccia di un essere disgustoso che era stato capace di fare una cosa del genere a me.»

Il ragazzo tirò su col naso e si strofinò velocemente le nocche sotto gli occhi, mettendosi seduto sul letto. «Fu allora che iniziò a picchiarmi. In quel momento si trattò solo di un ceffone, ma fece male al mio orgoglio e alla mia dignità. I momenti seguenti all'arrivo in quella casa malefica li ricordo come una specie di incubo a occhi aperti: io che scalcio e grido, lui che mi strattona un braccio e mi costringe a scendere, mi trascina sul vialetto e alla fine mi prende su e mi porta in spalla. Non smettevo di agitarmi, di urlare e di piangere. C'erano i domestici e tutti guardarono da un'altra parte, fecero finta di non aver visto niente. Alla fine mi portò in una stanza. Le tende avevano delle fibbie, lui le sciolse e mi legò le mani al letto. Disse che mi avrebbe insegnato un po' di buone maniere e a rispettarlo, che forse alla fine mi sarebbe potuto persino piacere e che avrei cambiato idea.»

Noah avrebbe voluto dirgli che non voleva sentire altro, ma Casey sembrava immerso nei ricordi, troppo lontano perché potesse sentirlo.

«Mi privò dei vestiti, si slacciò la cintura e mi picchiò con quella. I segni ci misero giorni ad andare via. Fatto quello mi violò di nuovo, come si fa tra cani, e urlare non servì a niente, come non servì a nulla piangere, dirgli che mi stava facendo male. Non avevo mai avuto rapporti sessuali, prima di essere trascinato in quel vicolo, e forse vivrò per sempre senza sapere come sia averne di piacevoli con qualcuno che mi rispetti. Forse non supererò mai quello che ho passato con Dominic; forse sono stato rovinato per il resto della vita e allora ho tutto il diritto di dire che non voglio dargliela vinta fino in fondo e riprendere in mano le redini della mia esistenza. Ho... ho solo bisogno che qualcuno, chiunque, mi dica che non sono un essere crudele e mostruoso, che ho il diritto di essere arrabbiato, anche se non è colpa di questo bambino. Non è colpa sua, ma io... io non posso farcela. Non posso rischiare. Non posso e basta.»

Noah era scosso e dubitava che sarebbe riuscito a chiuder occhio, dopo quel che aveva udito. Si sistemò meglio sulla seggiola e si chinò in avanti, le braccia abbandonate sulle ginocchia. «Certo che hai il diritto di scegliere e di essere arrabbiato» disse rauco. «Non ti considero un mostro né credo che tu sia crudele. La vita è tua, come lo sono il dolore e l'umiliazione che stai provando e hai provato. Nessuno può dirti cosa fare o non fare del frutto di una violenza, Casey. Se non te la senti o... non lo so, se credi che non sia giusto, allora vai fino in fondo. La vita è breve e io... io credo che dovunque si vada dopo la morte... penso che i rimpianti e il rimorso ci seguano a ruota, perciò... meglio non accumularne troppi nel corso dell'esistenza. Sì, credo... credo sia meglio così. Io ti conosco da pochissimo e non potrò mai sapere cosa provi o cosa significhi essere come te, ma so come ci si sente a rimpiangere qualcosa e... so come ci si sente a essere soli in una situazione orribile e pesante che minaccia di distruggere quel poco che resta di ciò che siamo, quindi... per quel che può valere, hai il mio appoggio e anche la mia stima. Invece di soccombere hai resistito, Casey, e credimi... credimi, non è da tutti. Ci sono tanti altri che si sarebbero arresi, che avrebbero ceduto e raccontato a se stessi una vagonata di menzogne pur di evitare il dolore. Tu non lo hai fatto, sapevi che non era giusto e hai ricordato di avere dei diritti, di essere una persona e non un oggetto. Questo fa di te la creatura più coraggiosa che abbia mai conosciuto, lo sai? Quindi ti rispetto, non posso farne a meno, e ti appoggio nella tua scelta.» Abbozzò un sorriso. «E ora penso sia proprio ora che tu ti faccia una dormita. Qui sei al sicuro.»

Casey annuì debolmente, ma con lo sguardo ringraziò Noah per aver parlato con lui, per avergli permesso di sfogarsi, per aver capito e non averlo giudicato. 

Tirò le coperte fin quasi alla gola e si accoccolò su di un lato. «Puoi... puoi lasciare la luce accesa?» Sentiva che in quel modo sarebbe riuscito a prender sonno più in fretta.

McKay annuì. «Sì, tranquillo. Nessun problema.» Allontanò le dita dalla lampada che silenziosa se ne stava appollaiata sul comò. «Buonanotte, Casey.»

«'Notte, Noah.»

Quando l'uomo fece ritorno in soggiorno e si lasciò cadere seduto sul divano, allungò la mano verso il basso tavolino e prese il cellulare. Sfiorò lo schermo e rimase a fissare per qualche istante lo sfondo, ovvero una fotografia che ritraeva lui e Meredith abbracciati. Era stata lei a scattare il selfie e lì sorrideva, raggiante e innamorata, convinta che sarebbero stati insieme ancora a lungo, che quello fosse solo l'inizio del loro viaggio. Sicura che entrambi avessero tutto il tempo del mondo.

Reddie, come le era sempre piaciuto farsi chiamare dalle persone care, era sempre stata una donna dolce, ma anche intraprendente. Nel guardare quella fotografia che non riusciva mai a togliere, nell'incrociare gli occhi cerulei e vispi della sua defunta moglie, Noah avvertì il cratere dentro il petto farsi più esteso e profondo. Un buco nero che sentiva che prima o poi avrebbe ingoiato tutto quanto, quel che restava di lui.

Perché aveva aiutato Casey e lo stava ancora aiutando? Perché aveva visto in prima persona la sofferenza e ciò che essa poteva causare, quando non veniva ascoltata e compresa, e dopo la morte di Meredith si era ripromesso che mai più avrebbe ignorato il dolore altrui né l'avrebbe sottovalutato come aveva fatto in quel periodo orribile.

Non c'era ragione per guardare altrove, non quando si aveva il potere di fare la differenza, di fare del bene, anche se si trattava di uno sconosciuto. Il mondo faceva già schifo ed era già un nero pozzo di crudeltà e di menefreghismo, e lui non aveva più intenzione di far finta che non fosse così.

Ripose il telefono sul tavolino e si distese sul divano, imponendo a se stesso di dormire, anche a costo di rivedere Meredith stesa sul letto, pallida e immobile, con un flacone vuoto di sonniferi abbandonato sul comodino, lo stesso sul quale, silenziosa e inerte, giaceva la lampada che quella notte aveva lasciato accesa per Casey.

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