CAPITOLO 9 - Centinaia di memorie
«Silene, stai bene?» mormorò Francis con tono angosciato.
Scossi la testa, scioccata, perché la rivelazione di Augustus mi aveva lasciata a bocca aperta. Mi sentivo stordita, persa, come se nulla in quel momento avesse senso. La mia vita, le mie certezze, tutto quello a cui avevo sempre creduto, stavano crollando frammento dopo frammento e non ero sicura che, quando tutto sarebbe venuto meno, sarebbe rimasto qualcosa. Se sotto a quella coltre di bugie fosse ancora possibile trovare qualche briciolo di verità.
Il nonno di May si avvicinò a me, poggiò le mani sulle mie spalle e mi guardò dritta negli occhi. «Senti». Il suo sguardo era colmo di apprensione mentre pronunciava quelle parole. «So quanto possa essere spiacevole avere notizie di questo genere, ma è meglio che tu sappia la verità... Qualunque essa sia. Tu hai il diritto di sapere la tua storia e quella della tua famiglia. Mi rammarico solamente di non sapere più di quanto ti ho detto, soprattutto con la scomparsa di tua madre» concluse, stringendosi nelle spalle.
«Va... Va bene così» risposi in tono sommesso. Sebbene non fosse vero, avevo preferito optare per un'insignificante bugia, perché non volevo allarmare nessuno di loro; eppure, nonostante avessi pronunciato quelle parole, nessuno dei presenti sembrò dare loro credito.
May stette in silenzio per qualche minuto prima di proferire parola. La notizia aveva scosso anche lei. «Andate in salotto» ci ingiunse lei, mentre lanciava un'occhiata di rimprovero verso suo nonno. «Tra poco il pranzo sarà pronto. Io vi raggiungo fra qualche minuto. Papà dovrebbe essere qui a momenti.»
Annuimmo, scendemmo le scale e ci dirigemmo in salotto, dove ci accomodammo in attesa della venuta della nostra amica. Solo quando fu sicuro che nessuno ci stesse ascoltando, Francis espresse i suoi pensieri. «Silene, se hai bisogno di parlare con qualcuno io sono qui.»
«Grazie, Francis.»
Lui circondò le mie spalle con un braccio e mi rivolse un sorriso, che mi regalò un po' di conforto e speranza.
All'improvviso, sentimmo un rumore di passi arrivare dal portone di ingresso e farsi via via più forte fino al momento in cui non raggiunse la soglia del salotto. Ci bastò vedere il volto del nuovo arrivato per capire di chi si trattasse.
«Voi due chi siete?» ci chiese il papà della nostra amica, curioso, poggiando, nel frattempo, il suo berretto sportivo sull'appendiabiti, che aveva spettinato i suoi corti capelli castani.
Non avemmo il tempo di rispondere, perché May sbucò dal corridoio e ci presentò: «Sono due miei amici dell'addestramento, papà. Si chiamano Silene Fair e Francis Lightflame.»
L'uomo ci strinse la mano. «Io sono Adam Wave e, come avete appena sentito, sono il papà di May.»
«È un piacere conoscerla» affermò Francis, le cui guance si colorarono di rosso per via dell'imbarazzo; io, invece, chinai il capo in segno di rispetto.
Le sottili labbra del papà di May si distesero e ci invitò a sederci. Infine, l'uomo prese posto a tavola accanto a sua figlia, occupata a comporre un motivetto sconosciuto con le posate e i bicchieri di cristallo, riempiti con dell'acqua.
«Dove abitate di preciso?» ci chiese l'uomo, che nel frattempo aveva poggiato il mento sulle mani piene di minuscole cicatrici bianche, ben visibili sulla pelle rosea.
«Loro vengono dal mondo dei mortali, papà» si affrettò a spiegare May, «ma, attualmente, vivono a casa di Frederick Portman, hai presente?»
«Sì. Ho sentito che qualche settimana fa ha avuto un... Brutto incidente.»
«Se essere morso da uno Smöt, si può definire "incidente", allora sì» intervenne il nonno di May, raggiungendoci a tavola.
Lui tirò una pacca sulla spalla di suo figlio, si avvicinò a noi e si sedette accanto a me e Francis, che mi guardò a disagio. Nell'osservare i due uomini, notai la grande somiglianza fra di loro. Nonostante Augustus Wave fosse già anziano, in lui era ancora possibile riconoscere gli stessi tratti fisici del padre della nostra amica o di sua nipote.
«Tra poco arriveranno le cameriere a portarci da mangiare e suppongo, dato l'orario, anche tuo fratello» affermò Adam in direzione di May.
«Dovrebbe essere qui fra qualche minuto» sentenziò lei.
La ragazza non ebbe il tempo di pronunciare quelle parole, che suo fratello arrivò sulla soglia della stanza nel più assoluto silenzio, come se fosse un'ombra. Fu quello il dettaglio, oltre all'aura misteriosa che gli conferiva l'aureola di corti capelli biondi o l'espressione imperturbabile dipinta sul suo viso spigoloso, a farmi rabbrividire.
«Mi chiedo ancora come fai a essere così silenzioso» sbottò la ragazza, i cui lineamenti morbidi del viso, proprio come quelli del suo genitore, si indurirono. «Qualche volta ci farai prendere un colpo.»
«Basta essere delicati, Marilise». Sul volto di suo fratello apparve un ghigno.
«Perché ti ha chiamata Marilise? Non è May il tuo nome?» domandai, confusa.
«No, Marilise è il nome che mi hanno dato al momento della nascita. Ma io non lo sopporto, perciò mi faccio chiamare May» dichiarò lei in tono seccato, come se la irritasse rivelare un'informazione simile.
«A ogni modo, io sono Vincent» si presentò lui, «ma se volete potete chiamarmi Vince, non c'è nessun problema.»
Io e Francis gli rivolgemmo un cenno con il capo e stringemmo la mano al ragazzo. Dopo, occupò il posto accanto a suo nonno, che lo stava osservando, per motivi incomprensibili, con aria pensierosa.
«Il tuo cognome è Fair?» mi chiese curioso il fratello della mia amica. «Sei per caso parente di Zoe Fair, una famosa guerriera...»
Suo nonno, però, lo interruppe sul finire della frase. «Fair è il cognome del suo padre mortale» spiegò a Vincent. «In realtà, il suo cognome dovrebbe essere Elsway.»
«Elsway?» chiese Adam. Alzò di scatto il viso dalle mani congiunte e mi guardò negli occhi. «Stai parlando di Eric, forse? È l'unico Elsway di tutta la discendenza di cui io sappia qualcosa.»
«Esatto». Augustus annuì in direzione di suo figlio. «Silene è sua figlia.»
«Per tutti i figli di Lilith!» esclamò Adam. «Adesso comprendo perché mi sembrava di averla vista da qualche parte! Ma i Sunshine non erano fuggiti nel mondo dei mortali per proteggerla? Che ci fa lei qui?»
«Io sono finita qui mentre cercavo mia madre, misteriosamente scomparsa» spiegai. «Mentre Francis è stato tratto qui con l'inganno.»
«Marlen? Scomparsa?» domandò il padre di May, aggrottando la fronte.
«Quindi tu conoscevi i miei genitori?» chiesi, sperando di sapere qualcosa in più sul conto della mia famiglia.
«Sì. Erano con me al corso di addestramento. I tuoi erano delle persone davvero eccezionali. Erano dotati di una forza straordinaria e di un'intelligenza che ben pochi possedevano. Oltre a una spiccata bontà d'animo.»
Nel sentire quelle parole sui miei genitori, mi salì un groppo in gola. Nonostante non li conoscessi come avrei voluto, mi sentii orgogliosa di essere loro figlia e mi ripromisi che avrei fatto di tutto per essere alla loro altezza, per guadagnarmi la medesima stima ottenuta da loro in passato.
«Credo di avere una foto nascosta da qualche parte» asserì Adam, interrompendo il flusso dei miei pensieri. «Dopo andrò a cercarla e te la mostrerò.»
Accennai un sorriso triste e mangiai qualche boccone di cibo, che non riuscii a mandar giù per via dell'enorme quantità di informazioni appresa fino a quel momento. Avevo scoperto chi erano per davvero i miei genitori, avevo trovato qualcuno che li conosceva e mi avrebbe aiutata a ricostruire passo dopo passo la mia famiglia.
«Venite su» ci suggerì il padre di May non appena finimmo di mangiare e tutti lo seguimmo per le scale fino alla sua stanza che, a differenza di quella di sua figlia e di suo padre, era sobria e ordinata.
«Dove l'avrò messa...» mormorò, mentre trafficava per qualche minuto fra cartelline, pile di libri e fogli sulla scrivania di fronte al letto matrimoniale. Infine, dopo svariati tentativi, la trovò. «Eccola qui!»
Me la porse con delicatezza, quasi temesse di vederla rovinarsi fra le mani e io la guardai attonita per un po'. Mi faceva uno strano effetto vedere la mamma più giovane. Nella foto indossava un vestito lungo fino alle ginocchia e nascondeva perfettamente le morbide curve dei suoi fianchi. Il suo sorriso si estendeva fino agli occhi e i capelli lunghi e rossicci le incorniciavano con delicatezza il viso. Aveva in braccio una bambina, che, a giudicare dall'aspetto, dovevo essere io. Al suo fianco, un uomo alto, con i capelli corti, scuri e ricci, sorrideva verso di me e teneva stretto il mio piccolo pugno fra le sue mani. Sul suo volto non c'era alcuna traccia di preoccupazione e, anzi, i suoi occhi parevano brillare per la felicità.
Spostando lo sguardo riconobbi un Adam più giovane e magro. Sul suo corpo i muscoli non si vedevano ancora e sul volto non era presente alcun segno delle piccole rughe che si sarebbero formate in seguito sul suo viso.
Quella foto sembrava appartenere a secoli prima, ma, da quanto diceva la data sul retro, era passata solo una decina d'anni. A me non sembravano molti, ma per il padre della nostra amica, stando alle occhiate nostalgiche da lui gettate a quello scatto, dovevano apparire come un'eternità.
«Se vuoi, puoi tenerla» mi rassicurò Adam, respingendo la mia mano quando cercai di restituirgliela. «Eric avrebbe voluto che tu la avessi ed è giusto che tu possa conservare un ricordo dei tuoi genitori. In fondo, io ho centinaia di memorie su di loro e tu nemmeno una.»
«Grazie» gli risposi e asciugai, prima che tutti potessero accorgersene, la lacrima scivolata sul mio viso. Misi la foto nella tasca dei miei jeans. Scesi i gradini, ci dirigemmo tutti verso il salotto, in silenzio.
«Penso sia ora di andare» ci fece notare May, rivolgendosi a tutti quanti noi. «O faremo tardi per le lezioni teoriche.»
Io e Francis assentimmo, indossammo in fretta i nostri cappotti, seguimmo la ragazza giù per le scale e uscimmo all'aria aperta.
«Mi dispiace che tu abbia dovuto scoprire la verità in questo modo» confessò May a un tratto. «Non avevo idea che la mia famiglia conoscesse i tuoi genitori e, se lo avessi saputo, avrei cercato un modo meno brutale per fartelo sapere. Invece la verità ti è piombata addosso da un momento all'altro.»
«E forse è meglio così» la rinfrancai, nonostante la tensione minacciasse di farmi scoppiare in un nuovo pianto.
«Davvero, posso capire come ti senti. La mia famiglia non ha mai avuto molto tatto nel raccontare cose di questo genere. Basti pensare che io ho saputo allo stesso modo com'è morta mia madre» rivelò, tormentandosi una ciocca di capelli.
«Non lo sapevo, mi dispiace.»
«Non importa, va tutto bene.»
Rimanemmo in silenzio per un po', con le mani infilate nelle tasche per via del vento fresco e lo sguardo fisso sulla strada, fino a ché Francis non lo ruppe urlando: «Ehi! Ma che sta succedendo alla centrale?»
Il mio sguardo saettò subito sulla struttura davanti a noi. Una calca di gente malconcia, in vestiti logori e dall'aspetto inquietante si stava ammassando davanti all'edificio, le cui porte erano state sigillate e presidiate da una decina di uomini con la divisa da guerrieri, che li tenevano lontani con le loro armi.
«Ultimamente succede spesso» spiegò May, stringendosi nelle spalle. «Gli Esiliati cercano di prendere d'assedio la centrale perché così pensano di ottenere potere. Ma non hanno speranze.»
«Ma perché si comportano in maniera così rude?» chiesi, spaventata da quegli atteggiamenti animaleschi.
«L'angelo Safian li sta aizzando contro i guerrieri dal cuore puro. Se si continua di questo passo, presto, potrebbe scoppiare un nuovo conflitto» sussurrò con tono incrinato e tremò.
«Ragazzi! Da questa parte!» gridò Richard dall'altra parte della strada, mentre si sbracciava per farsi vedere da noi in mezzo alla calca di gente radunata nei suoi pressi.
Lo raggiungemmo sul ciglio di un enorme magazzino, al cui interno erano raccolte tutte le attrezzature necessarie ai guerrieri. Ogni parete era ricoperta da balestre, pugnali, spade di ogni sorta e, con mia enorme sorpresa, anche dei cannoni.
«Cosa sta succedendo?» chiedemmo io, Francis e May all'unisono.
«Gli Esiliati hanno occupato parte della centrale e non ho idea di come abbiano fatto. Qualcuno deve averli aiutati a entrare. Però, anche se l'hanno violata, non possiamo fare loro del male, perché sono sotto il controllo di Safian. Pare sia scappato dalla dimensione dov'era rinchiuso sotto gli occhi degli altri angeli. Il minimo che possiamo fare è cercare di portarli alla normalità iniettandogli questo». Ci mostrò delle boccette con un liquido denso e perlaceo all'interno.
«Cosa sarebbe, di preciso?» gli chiesi, curiosa di sapere cosa stessimo utilizzando.
«Adesso non è il momento per spiegarvelo, lo scoprirete più avanti. Sappiate solo che, una volta iniettata questa sostanza, gli Esiliati torneranno docili come bambini. E a quel punto i guerrieri più esperti dovranno varcare i cancelli dei vari circondari per riportarli al di fuori delle nostre terre.»
«E noi come possiamo renderci utili?» domandò Francis.
«I vostri allenamenti pratici hanno avuto ottimi risultati e per voi è arrivato il momento di mettere in pratica le vostre abilità di tiratori.»
Passò a me, Francis e May il sacchetto delle boccette e delle freccette in cui avremmo dovuto inserire il liquido e ci ordinò: «Andate dentro e formate delle squadre con i guerrieri più giovani. Sono sicuro che saranno entusiasti di darvi una mano.»
Annuimmo e, a passo svelto e sicuro, attraversammo l'interno dell'immenso edificio. Ci fermammo solo quando trovammo il palco sopraelevato su cui saremmo saliti per calmare la folla e impartire gli ordini trasmessici.
«Parlo a tutti quelli del mio corso di addestramento, ascoltate!»
Cercai di alzare la voce in modo tale da farmi sentire da tutti gli astanti, ma a quanto pareva non ne avevo bisogno, perché le pareti dello stabile fecero in modo che la mia voce rimbombasse per tutta la stanza. Tutti quelli della mia classe si girarono, mi guardarono e cercarono di raggiungermi.
Quando mi furono tutti vicini, cominciai a spiegare. «Oggi ci uniremo alle squadre dei guerrieri per dare una mano. Richard ci ha affidato il compito di sedare questa rivolta. Dividiamoci in due squadre e prendete le boccette e le frecce che ci sono qua dentro!» esclamai, allungando la mano con il sacchetto ai miei compagni.
Quando la raccolta fu finita, indicai un ragazzo rivelatosi molto abile durante tutto l'addestramento. «Michael!» gridai. «Prendi il comando della seconda squadra e posizionati sul lato destro della centrale, mentre noi staremo sul sinistro. Attaccheremo tutti insieme dopo il segnale di Francis. Al suo tre, colpite! Tutto chiaro?»
Mormorii d'assenso si levarono dal gruppo e ci dividemmo. Venticinque persone mi seguirono sul lato sinistro del quartier generale, gli altri venticinque andarono con Michael sul destro e attesero le nostre direttive.
«Pronti?» gridò Francis, per farsi sentire al di sopra del frastuono. Tutti annuirono e il ragazzo iniziò a contare. «Uno... Due... Tre!»
Una miriade di frecce volarono per aria e andarono a disperdersi fra la folla davanti all'edificio. Molti dei nostri obbiettivi furono colpiti, altri riuscirono a scansarsi. Tuttavia, ciò non rappresentò un problema, perché al secondo lancio, a tutti, nel gruppo davanti all'ingresso della centrale, fu iniettata la sostanza.
Vidi quella gente scambiarsi sguardi stupiti per un attimo e, un secondo dopo, cominciare a correre verso il lato opposto della strada, impaurita.
«Michael! Cerca di radunarli e portali da Richard! Lui saprà cosa fare!» ingiunsi al mio compagno e lui obbedì, agguantando, assieme al resto dei suoi amici, tutti i fuggitivi.
Io, invece, mi infiltrai con il mio gruppo dentro la centrale. Quando fummo al suo interno prestammo tutti molta attenzione a non colpire i nostri e a usare la massima precisione per mandare a segno i nostri tiri. Circa un' ora e mezza dopo la nostra incursione, nella centrale era arrivata la calma. Una quiete subito sostituita dal lavorare frenetico dei dipendenti, che, nonostante il disordine all'interno della struttura, non si perdettero d'animo e iniziarono a spostare i macchinari danneggiati, a spazzare i pavimenti ricoperti dalle schegge di legno delle porte, da plichi di documenti e piccoli cumuli di vetro e cemento.
Una volta uscita con il mio gruppo dall'ufficio del nostro istruttore, incontrai di nuovo Richard, che mi disse: «Avete fatto un ottimo lavoro, non so davvero come ringraziarvi.»
«Non ce n'è bisogno» ribattei. «Siamo stati molto contenti di prendere parte all'azione. Non vedevamo l'ora di partecipare a una delle vostre missioni.»
«E state pur certi che, dopo questa, parteciperete a molte altre». Il nostro istruttore rise. Ma la sua ilarità durò solo pochi istanti, perché torno ad assumere subito il suo tono pratico e sbrigativo, che però tradiva una punta di tristezza. «Ora, però, raduna i tuoi compagni e di' loro di andare a casa. Per far tornare tutto alla normalità ci vorrà qualche settimana, credo. La palestra è andata distrutta e le aule sono messe male. Motivo per cui l'addestramento è momentaneamente interrotto.»
«Riferirò» lo rassicurai, ricordando mentalmente a me stessa di restare calma. Al solo pensiero di quella sospensione delle attività mi piombò addosso una sorta di malinconia. Dopotutto, le lezioni si stavano rivelando via via più interessanti ed erano l'unica attività in grado di distrarmi dal pensiero della scomparsa di mia madre.
«A presto, Silene» mi salutò l'uomo.
«A presto, Richard» replicai e mi diressi verso l'edificio dove si erano radunati i miei compagni e i guerrieri di livello superiore.
«Ragazzi, ascoltatemi!» Cercai di attirare di nuovo la loro attenzione e, per fortuna, tutti si girarono. «Richard mi ha riferito che l'addestramento è sospeso, per tutti quanti. La palestra e le aule hanno riportato gravi danni, motivo per cui è impossibile proseguire» annunciai, stringendomi nelle spalle.
Il silenzio pervase la sala e, per qualche attimo, si udì solo il leggero fischio del vento proveniente dall'esterno. D'un tratto si levarono cori crescenti di "Non è giusto!" e "Noi vogliamo continuare!"
«Sentite». Tentai di controllare il tremito nella mia voce. «Se avete suggerimenti su dove poter svolgere l'addestramento, ne parleremo con Richard e gli altri esperti. Altrimenti, non si può fare nulla.»
«Un'opzione ci sarebbe» ci informò un ragazzo che non conoscevo. «C'è uno stabile vuoto e inutilizzato a qualche isolato da qui, perché molti lo trovano inadatto per vivere al suo interno. Ma noi lo useremo solo per l' addestramento, motivo per cui non vedo perché non possa essere utilizzato per una giusta causa.»
«Ne parleremo con Richard, allora.»
Il ragazzo annuì. Dopo gli ultimi saluti, piano piano, uscimmo tutti dall'edificio dove ci eravamo radunati. Salutata la nostra amica, io e Francis ci incamminammo nella direzione opposta a quella da cui eravamo venuti.
«Giornata movimentata, eh?» osservò Francis mentre eravamo sulla strada di ritorno verso casa di Frederick.
«Eh già. Prima le notizie sui miei genitori, poi l'attacco alla centrale... È stata davvero estenuante.»
Una volta varcato il portico, salimmo i gradini a due a due per entrare dentro l'appartamento, in quanto non vedevamo l'ora di riposare un po' e di godere della morbidezza dei nostri letti.
Quando fummo in casa non ci accorgemmo subito del silenzio. Eravamo troppo stanchi per pensarci, ma, non appena sentimmo il pianto del piccolo Dean provenire dall'altra stanza, capimmo che qualcosa non andava.
Ci dirigemmo di corsa verso la sua cameretta. Lo vedemmo a terra, ricoperto di tagli e imbavagliato. Slegammo subito la benda sulla sua bocca e il piccolo urlò: «Signori cattivi hanno preso mamma e papà!»
Lo presi in braccio e guardai Francis con aria spaventata. Le sorprese di quella giornata, a quanto pareva, non erano ancora finite.
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