Solo
«Do we need somebody just to feel like we're alright?
Is the only reason you're holding me tonight
'Cause we're scared to be lonely?»
(Scared to be lonely-Martin Garrix)
Le parole della canzone fisse nella testa; il passo lento, troppo lento per un uomo sempre attivo e positivo come me; il fiato corto, come se avessi corso per chilometri, anche se in realtà stavo inseguendo solo la mia ombra, l'unica amica che possedevo in quel momento e che sembrava voler fuggire da me; gli occhi spalancati a identificare un pazzo, un essere vivente che aveva perso completamente la testa e che di vivente aveva ormai ben poco; il capo chino, costretto a sopportare quel peso enorme che mi trascinavo dietro da quella mattina.
Le strisce pedonali mi separavano dall'altra parte della strada; la mia ombra era là che mi aspettava, come se mi volesse accogliere tra le sue braccia, il mio ultimo conforto.
Rumore, grida; no, nessuno stava urlando, era solo nella mia testa. Nessuno mi notava, nessuno mi percepiva, nessuno sapeva che ero lì.
Caddi nel mezzo della strada; e le strisce pedonali si macchiavano di rosso.
°°°°°
Luce. Riscalda il cuore e ti fa affrontare meglio la giornata.
Vedere già dal mattino il sole splendere e il cielo azzurro e immacolato, mi faceva sentire come se l'estate fosse finalmente giunta e non dovessi più pensare al lavoro, ma solo alla mia famiglia, la gioia più grande.
Peccato però, che fosse Gennaio e dovessi presentarmi in ufficio come sempre. Mi stiracchiai allungando le braccia verso l'alto e tolsi con un gesto rapido le coperte da sopra il mio corpo. Marie-Anne non era vicino a me, come normalmente capitava quando mi svegliavo per andare al lavoro. Mi guardai intorno, in cerca di un suo indizio, una traccia lasciata da lei, un qualcosa che mi spiegasse perché non era presente affianco a me.
L'orologio sul comodino segnava le otto e ciò significava che ero in ritardo sulla tabella di marcia. Dovevo fare la doccia, preparare la colazione per tutti, vestirmi, portare Jean a scuola alle otto e mezza e poi andare al lavoro. Pensai che probabilmente Marie-Anne si fosse alzata per andare in cucina, vista l'ora, e credetti che Jean stesse ancora dormendo, poiché la casa era immersa nel completo silenzio.
Andai nel bagno di fronte alla nostra camera da letto; le piastrelle bianche e nere del pavimento confondevano il mio cervello ancora addormentato e si mescolavano con le pareti dipinte interamente di bianco. Era particolare, lo ammetto, ma a mia moglie erano sempre piaciute le cose strane, come quei quadri di Picasso che adorava tenere in camera e in salotto. Il quadro, però, che più mi turbava e mi metteva angoscia, era Automat di Edward Hopper, in cui una donna seduta da sola a una bar stava prendendo un caffè. Quel dipinto mi faceva pensare a come la ragazza si dovesse sentire sola, dimenticata dal mondo; nessuno la circonda, nessuno sa che è lì, nessuno sa che esiste perché non si trova nella memoria di alcuna persona. La donna raffigurata non stava vivendo, neanche esistendo. Poiché per esistere, qualcuno deve ricordarsi di te; se così non fosse, allora sei un'ombra, un fantasma che vaga per le strade della città e che non ha importanza per nessuno. Questo mi trasmetteva quella dannata immagine e ciò non mi piaceva. Io voglio vivere, non essere un mero fantasma che passa i suoi giorni a contare quanto tempo lo separi dalla morte, annullamento totale di sé, poiché nessuno avrà memoria di lui.
Nonostante questi pensieri affollassero la mia testa, entrai nella doccia pronto a sciacquare via il sonno dal viso e a risvegliare il corpo intorpidito dal riposo notturno.
Fui rapido nel lavarmi, Jean doveva essere portato a scuola.
Dopo essermi asciugato e vestito, con gli abiti del giorni precedente, scesi in cucina in cerca della mia bellissima moglie. Non la trovai; non aveva lasciato neanche il biglietto con cui mi augurava buona giornata quando si svegliava prima di me e andava a fare yoga. Andai in camera di Jean e non lo trovai. Pensai che probabilmente era già uscito con sua madre.
Allora feci con calma colazione seduto al tavolino che tenevamo fuori in giardino. Era mia abitudine iniziare la giornata con un caffè e un cornetto alla crema, cose che mia moglie non mangiava, ma quel giorno non li trovai nella credenza in cui li mettevo di solito. Presi allora il cartone di latte e ne versai un po' in un bicchiere e rubai a Marie-Anne quei biscotti integrali che tanto amava. Dopo essermi rilassato ancora un po' al sole, andai in città. Come al solito il traffico di New York era rumoroso, snervante e ti faceva venir voglia di picchiare qualcuno. Quel giorno poi, sembravano essere tutti più scontrosi del solito. Quando finalmente svoltai e vidi il mio solito posto per parcheggiare libero, espirai sollevato di essere arrivato al lavoro anche sta mattina senza essermi scontrato con nessuno nel traffico.
Uscii dalla macchina e alzai lo sguardo per ammirare il posto in cui lavoravo: the Academy of Elemental Art, una galleria e accademia d'arte che io e Pascal, il mio migliore amico, avevamo fondato insieme. Negli ultimi anni avevamo acquisito un certo prestigio in New York ed era nei nostri obbiettivi poter espandere la nostra fama anche al di fuori della città. Mi avvicinai all'entrata principale e le porte si aprirono in automatico. Come al solito c'era Yannes che sedeva alla reception e che con il suo sguardo spento guardava il giornale con sopra scritte le notizie della giornata. Lo salutai come sempre, ma invece di ricevere il solito sorriso amichevole e sdentato, ottenni un'occhiata perplessa a cui seguì un rapido movimento della testa verso il basso. Senza darci peso superai la hall e andai dritto verso il fulcro dell'edificio: la zona in cui venivano esposti i nostri capolavori; alcuni venivano da altre gallerie d'arte, che o ce li cedevano o ce li prestavano, altri erano stati dipinta da me e Pascal o da alcuni nostri allievi e da pittori che, fermandosi lì, creavano un'opera apposita per la nostra galleria d'arte. Era magnifico girare in quei corridoi per vedere cosa avevamo creato insieme e poter immaginare quanto ancora saremmo potuti crescere. E poi eccolo lì, Pascal. Era sempre stato, fin da quando avevamo quindici anni, il più bello tra i due e come il vino che invecchiando migliora, anche lui aveva fatto così: nonostante fossero passati vent'anni aveva ancora lo spirito di un bambino ed era l'uomo più desiderato dalle donne che conoscessi. Lui, però non si era mai voluto impegnare realmente con qualcuna, perché secondo lui non era fatto per avere una famiglia e che gli bastavo io per essere felice. In effetti io e lui eravamo inseparabili: durante le festività, da dopo la morte dei suoi genitori cinque anni fa, era sempre a casa nostra, uscivamo sempre insieme ogni volta che era possibile e spesso la sera dopo il lavoro lo invitavo a fermarsi da me. Eravamo come fratelli. Quel giorno però, quando lo salutai da lontano, non ricevetti lo stesso sorriso che mi faceva vedere ogni giorno, anzi, lo vidi stranito. Mi avvicinai per abbracciarlo, ma mi respinse.
"Ehi Pascal che hai?"
"Come sa il mio nome mi scusi?"
"Pascal sono io, Justin. Sei ubriaco amico?"
"Senta se lei non se ne va ora chiamo la polizia"
"Pascal stai bene? Sono il tuo migliore amico. Non puoi dimenticarti di me, abbiamo costruito questo posto insieme!"
"No guardi lei è pazzo. Io gestisco questo posto con mia moglie da 5 anni e non l'ho mai vista. Mi scusi ma se fosse il mio migliore amico me lo ricorderei"
"Pascal come puoi non riconoscermi...", dissi avvicinando una mano alla sua spalla.
Lui la spostò bruscamente e chiamò la sicurezza.
In men che non si dica due omoni enormi mi tenevano per le braccia e sua moglie lo raggiunse. La donna era Zara Kentall, l'unica ragazza per cui, sei anni prima, Pascal aveva avuto una cotta.
Ricordai una scena: eravamo in un bar, lei ballava in pista insieme a Marie-Anne, erano grandi amiche. Quella sera ci provai tutto il tempo con quella che poi sarebbe stata mia moglie, ma impedii a Pascal di andare da Zara. Credevo che non avrebbe funzionato e al tempo stesso non volevo che le nostre serate insieme finissero per colpa di una ragazza.
Le guardie mi lanciarono letteralmente fuori dalla porta, inciampai e caddi in una pozzanghera lì vicino.
Urlai contro i due omoni ma questi non mi degnarono di ulteriori sguardi e se ne andarono. Non capivo cosa stesse accadendo, di punto in bianco scoprì che il mio migliore amico si era sposato circa cinque anni fa, che dirigeva l'Accademia con sua moglie e non con me e che soprattutto faceva finta di non conoscermi. Parte del mio mondo mi era appena caduto addosso e minacciava la mia stabilità.
Mi alzai, sporco, umiliato, distrutto nell'animo. Tante domande giravano nella mia testa e presto sarebbe esplosa. Pensai che forse mia madre mi avrebbe spiegato, mi avrebbe detto che era uno scherzo. Accelerai il passo e andai verso la mia vecchia casa, in cui ero nato, cresciuto, in cui la maggior parte dei miei ricordi risiedevano assopiti ma pronti per essere risvegliati qualora avessi voluto riportarli alla luce.
Raggiunsi, dopo venti minuti di camminata, quella vecchia casa che a stento si reggeva ancora in piedi. Più volte avevo detto a mia madre di cambiare casa, di andare a vivere più vicino al centro, si abbandonare quel nido che per la maggior parte della sua vita le aveva portato solo sofferenze. Rosanna Trumpet però, era una testa dura. Non avrebbe mai ascoltato l'opinione del figlio trentacinquenne che aveva "ancora molto da imparare".
Tirai fuori il piccolo mazzo di chiavi che mi portavo sempre con me e scelsi la chiave più piccola tra quelle presenti. La inserii nella serratura e aprii il portone dell'abitazione.
L'ingresso era silenzioso e polveroso come al solito, abbandonato a sé stesso; l'unica fonte di luce veniva dal piccolo salotto che si trovava alla destra dell'ingresso. Mi diressi verso quel bagliore che sembrava voler abbracciarmi, darmi conforto, un barlume di speranza. Come misi piede sulla soglia della stanza, la luce emessa dal televisore si fece confusa, girava, pulsava, minacciava di spegnersi.
Udii un tonfo che sembrava venire dalle mie spalle. In realtà era il mio corpo che, subita la prima bastonata della donna, aveva ceduto.
La donna; mia madre. Aveva la paura negli occhi, come se avesse visto un fantasma. Il bastone impugnato minacciosamente e con forza; sollevato, pronto per piombare dal cielo come il falco sulla preda.
"Mamma che fai?", domandai frastornato e sentendo la testa pulsare ancora di più.
A quelle parole la donna si irrigidì ancora di più.
"Io non ho figli, stronzo", sibilò.
Io non ho figli. Quattro parole facevano più male della bastonata appena ricevuta.
Senza aggiungere altro la donna mi ordinò di andarsene e di consegnarle le sue chiavi. Non seppi opporre resistenza. La mano cercava di stoppare il sangue che usciva dalla lieve ma dolorosa ferita provocatami dal bastone, la testa girava, gli occhi vedevano sfocato; una cosa si ricordano però: nel momento in cui stava per uscire di "casa", la luce del televisore si spense.
Camminai, eccome se camminai. Alcune persone mi osservavano stranite, confuse, spaventate. Nessuno però si fermava a chiedere come stavo, a vedere se avevo bisogno di aiuto. Mi ingnoravano.
Entrai in un bar per pranzare, per distrarmi da quella giornata. Più volte mi chiesi cosa stesse succedendo, perché a me, perché mi stavano escludendo.
Ordinai alla cameriera un panino e un bicchiere d'acqua.
Quando se ne andò presi uno dei tovagliolini sul tavolo e iniziai a tamponare la testa. Il sangue stava cessando di uscire, il capo pulsava di meno e pian piano gli occhi stavano riacquistando completamente le loro facoltà.
Dopo pochi minuti la cameriera ritornò con ciò che avevo chiesto; mi servii e la pagai subito. Addentai con ferocia quel panino e mi sgolai il bicchiere d'acqua. Guardai per un bel po' ciò che mi circondava.
Il locale era semplice, ben arredato, luminoso grazie alle enormi finestre. Nell'aria vi era profumo di caffè, la gente che veniva lì rideva e scherzava. Era un ottimo posto per alleviare le proprie pene; se sei in compagnia. Invece io ero solo, come la ragazza del quadro.
Sembrava di essere in un incubo. Un sogno orribile in cui nessuno sa che esisto.
Notai che fuori un fotografo mi stava fissando da qualche minuto ormai. Sperando che fosse qualcuno che mi conoscesse, uscii di corsa per trovarmi davanti a un piccolo studio all'aperto situato all'angolo della strada. Qui il fotografo stampava le sue foto e le affiggeva sulla sua bacheca. Tra quelle c'era pure una foto che ritraeva me, da solo al bar che guardavo verso il bancone. Odiai quello scatto. Era come se il mondo mi fosse caduto nuovamente addosso e stesse pian piano avendo la meglio su di me. Strappai la foto.
Infuriato, affranto e sconfortato, scappai da quel luogo. Nel tragitto però, ricordai che in una delle foto era ritratta una coppia con il figlio per mano e ciò mi fece pensare a mia moglie e a Jean. Loro erano la mia ultima ancora.
Prima di andare verso casa però, feci un giro per la città in cerca di regali per le due persone più importanti della mia vita. Avevo sempre trovato i regali una cosa abbastanza stupida; non avevo bisogno di dover donare qualcosa di materiale a una persona per dimostrare il mio affetto nei suoi confronti, lo potevo fare in tanti altri modi. Qual pomeriggio sentivo, però, ne il bisogno. Entrai in uno di quei negozi che a Marie-Anne piacevano da matti e le comprai una vestito che potesse usare quando usciva con le amiche. Per la "piccola bestia" optai per uno di quei lego da bambini che amava costruire.
Il mio animo si era risollevato, il sole sembrava splendere e darmi coraggio, tutti quello che era successo prima sembrava essere solo un lontano ricordo perso nei meandri della mia mente.
Ritornai alla macchina evitando di guardare quel dannato edificio che aveva messo in dubbio tutta la mia vita da stamattina.
Entrai nella vettura, misi in moto e sfrecciai verso casa.
A quell'ora del pomeriggio il traffico iniziava pian piano a diminuire, perciò non fu un lungo tragitto.
Arrivai a casa che erano circa le cinque e mezza, il sole ancora splendeva, il profumo dell'erba pervadeva l'ambiente circostante.
Mi avvicinai verso la porta di ingresso e la aprii inserendo le chiavi.
Entrai e salutai a voce alta chiunque abitasse lì dentro. Non ottenni risposta.
Posai, allora, i sacchetti e salii con calma le scale continuando a chiedere se ci fosse qualcuno.
Quando arrivai in cima sentii un oggetto schiantarsi contro la mia pancia.
Di fronte a me c'era mia moglie, il terrore negli occhi e una borsa in mano. Indietreggiai lentamente.
"Chi cazzo sei!", urlò.
"Sono io, tuo marito", risposi.
"Io non sono sposata", sibilò.
In quel momento il mio cuore fece crac. Quando poi la guardai meglio notai che non era incinta, come ricordavo che fosse, e che il bambino che si nascondeva dietro di lei non assomigliava per nulla a Jean.
Mi intimò di uscire, di sparire, o avrebbe chiamato la polizia.
Me ne andai.
Gli occhi ancora spalancati, senza colore, il viso pallido, come un morto. Camminavo senza avere idea di dove andare. Lasciai la macchina lì, probabilmente neanche quella mi apparteneva. Non avevo nulla. Isolato dal resto del mondo. Chi davvero contava, mi aveva lasciato indietro, non mi aveva aspettato. Probabilmente questo sarebbe il mondo senza di me. Sarebbe migliore o peggiore? Di certo migliore, penserebbe Pascal se sapesse che è sposato con la donna che aveva amato. Ma che pensieri Justin, certo che lo sa. Questa è la realtà, tu sei quello di troppo. Quello che non ha senso debba esistere. Ma perché capita a me questo? Perché io devo restare solo?
Camminavo senza meta, girovagavo.
Notai che non ero l'unico essere umano a essere stato dimenticato su questa terra.
Mendicanti, barboni, cani e gatti randagi. Facevo parte di quel gruppo pure io ora. Il mio destino era essere un eterno escluso dalla società, una persona lasciata a se stessa. Come si può definire vita quello che sto passando? Nessuno si ricorda di me; ciò equivale a non esistere. Infatti, non solo non sto vivendo, ma non sto esistendo. Sono destinato a dissolvermi nell'aria come polvere. Se morissi ora, sono certo che nessuno mi noterebbe.
°°°°°
Lo sguardo era rivolto al cielo, scuro ormai. Le luci dei lampioni illuminavano i marciapiedi, così come i fari della macchina illuminava il mio corpo steso a terra. Ma non solo il mio.
Un altro uomo era disteso, perdeva sangue dalla testa; morto sul colpo.
La gente accoreva intorno a lui per vedere se ancora poteva salvarlo, ma era tardi. Il poveretto se ne era andato. Questi pensieri di pena per l'uomo però, finivano per essere sostituiti da rabbia, gelosia, frustrazione. Perché nessuno veniva a salvare me? Ora non ero neanche più degno di compassione?
Avrei tanto voluto poter volgere ancora lo sguardo, ma non ci riuscivo. Fissavo le stelle, quelle poche che si vedevano. Sentivo il sangue sgorgare dalla ferita alla tempia che si era riaperta. Le lacrime calde attraversavo il volto gelido, privo quasi di "vita". Stavo davvero per diventare polvere, polvere di uomo. Pronto a vagare nell'aria in eterno. Chissà se almeno quella chiazze rossastre sulle strisce pedonali, sarebbero rimaste lì come a dire "Ehi, qui è morto un uomo di cui nessuno si ricorda, ma almeno questo segna resterà indelebile".
Sciocco. Non sarebbe successo. Le avrebbero lavate, perché nessuno vuole ricordare che è morto qualcuno, non in maniera così atroce. Vorrei poter urlare, gridare al mondo che fa schifo. Ma le forze mi abbandonano, le labbra si fanno gelide. Una goccia d'acqua cadde proprio su di loro, e segnò il momento in cui gli occhi smisero di vedere.
E se fosse tutto uno stupido scherzo della mente, eh Justin?
Mi svegliai di soprassalto. La stanza era buia, fuori il temporale.
Calmai il respiro affannoso a mi stropicciai gli occhi. Vicini a me sentivo il calore di una persona, era mia moglie con il suo pacione. Lei era lì, io ero lì. Per sicurezza andai in camera di Jean; dormiva tranquillo sotto le sue coperte con l'orsacchiotto rigorosamente stretto tra le braccia.
Tirai un sospiro di sollievo. Athazagorafobia, aveva detto il dottore. Paura di essere dimenticati, aggiunse per farmi capire. Ed era vero. Avevo una paura folle di essere dimenticato. Perché se nessuno può ricordati, te non puoi esistere.
Tornai in camera da mia moglie e mi soffermai sul quadro di Hopper.
Ebbi un'idea: presi il dipinto e andai nel mio studio. Con un pennello inizia a dipingere di fronte alla ragazza un uomo che le facesse compagnia. Avevo "vissuto" la giornata peggiore della mia vita e non volevo che nessun altro provasse ciò che avevo provato. Nessuno si sarebbe mai più sentito solo, come me in quell'incubo.
Ora va, non leggere più ciò che sto annotando in questo diario. Esci e prenditi la tua vita; creati dei bei ricordi e tieni a mente che esisterai sempre per qualcuno. Perciò, anche se tutto sembra andare male, rialzati e vivi.
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