CAPITOLO 2
Casa di zia Cinthia era una modesta villa a due piani, spaziosa quanto bastava per rispettare ogni loro comfort e moderna seguendo i gusti precisi e non ordinari di zio Joe.
Lui era da sempre un uomo preciso e dal gusto raffinato, non per questo il suo lavoro era fare l'interior designer di appartamenti e uffici.
Aveva progettato dal divano ad angolo alla sedia con imbottitura in pelle bianca, intonata alla penisola della cucina dietro cui si incastravano alla perfezione tre sgabelli in legno di acacia. Sedersi in quel piccolo angolo era un po' come attendere che il barista ti chieda cosa vuoi prendere da bere.
E mentre era seduto sulla poltrona grigio antracite, la sua preferita da sempre e di cui era geloso, la mia mente si permise di osservare la sua espressione beata e rilassata: come poteva essere il fratello di quel mostro?
Mi lanciò uno sguardo rapido che accompagnò ad un sorriso, lo stesso che ricambiai per non fargli capire quanto il suo aspetto mi ricordasse qualcuno che continuavo ad odiare nonostante gli anni passati senza mai più averlo visto.
Sospirai, avevo cambiato città per dimenticare e vivere una vita normale, non potevo continuare a torturarmi, ci pensavano già i miei sogni.
«Vieni Leah, voglio mostrarti la tua stanza». Zia Cinthia si era presa carico di aiutarmi a portare una delle mie valigie, stavamo salendo al piano superiore quando dal piccolo corridoio udimmo della musica di sottofondo:«Perché non vieni a salutare Leah invece di sentire queste canzoni assordanti?» Disse a gran voce picchiando contro una delle cinque porte presenti.
Da quando avevo incrociato il suo sguardo attraverso la finestra, quel ragazzo non aveva lasciato la sua stanza. Ignoravo ancora il suo nome e forse non avrei voluto saperlo, ma seppur fossi mossa da un moto di curiosità, non osai chiederlo a mia zia.
Di tutta risposta, la musica si fece di qualche volume più alta e di lui non si vide neppure l'ombra.
Zia Cinthia mi guardò mortificata:«Fa sempre così?» Le domandai.
«A volte è anche peggio, mi chiedo quando capirà di non essere più un ragazzino».
Quella che sarebbe stata la mia stanza, e non sapevo se fosse per una pura coincidenza o una disperata sfortuna, si trovava proprio accanto la sua. Sbuffai nella mia mente cercando di ignorare la musica che stava rendendo difficile fare una conversazione civile, se le premesse erano queste di certo avrei passato notti in totale insonnia. Il ché non mi preoccupava, se quando chiudevo gli occhi dovevo rivedere sempre gli stessi incubi, preferivo rimanere sveglia.
«Bene, questa è tutta tua». Zia Cinthia mi lasciò emtrare:«Sistema pure le tue valigie, ti aspetto di sotto per la cena».
Non l'avevo affatto dimenticata e i miei zii non l'avevano mai cambiata: la cameretta di quando potevo rifugiarmi senza sentire la paura che qualcuno potesse tornare a farmi del male.
Sul muro, alla mia altezza di allora, c'erano ancora i disegni che facevo immaginando me circondata da una famiglia unita e felice. Sopra il letto giaceva, piegato come solo mia zia riusciva a fare con tanta perfezione, la coperta che mettevo addosso anche se fuori non faceva più freddo.
Era rosa pallido, con una trama leggermente più scura, al tatto potevo sentire la pelliccia ormai sfoltita dai troppi lavaggi.
Mi sedetti sul letto cominciando a disfare le valigie quando fra le mani strinsi la foto di mia madre incorniciata in un quadretto che mi aveva regalato Beth ai miei quindici anni.
Era così bella, l'ultima volta che l'avevo vista sorridere fu proprio durante questo scatto. Lo ricordo bene il giorno in cui la fece, eravamo al parco, da sole, quel mostro ci aveva concesso il piacere di respirare aria pulita e verde, come le speranze che di nascosto nutrivo ogni notte prima che arrivasse il mio turno.
Non aveva alcun livido sul suo viso, perché dopo non lo avevo mai più rivisto così roseo e sereno. La sua risata quel giorno, mi aveva ricordato quanto fosse stato crudele il destino ad averci unite nello stesso dolore ma separate una volta tornate ad essere di nuovo libere.
La strinsi forte al mio petto come se potessi abbracciarla prima di riporla sul comodino accanto al letto, iniziai a conservare i miei vestiti nell'armadio e quando chiusi l'anta sussultai spaventata.
«Lo so che faccio questo effetto, non c'è bisogno di esagerare».
Poggiato allo stipite della porta con le braccia conserte, c'era lui, quel ragazzo che fino a poco prima avevo visto solo da dietro la finestra.
Inspiegabile fu la reazione del mio cuore alla sua vista: alto qualche centimetro più di me, spalle larghe sopra una vita stretta, capelli neri non per niente ordinati, viso scavato e pallido, labbra carnose e gli occhi, quelli che non riuscivo a smettere di fissare, erano come il carbone ma contornati da ciglia lunghe e folte.
Mi guardavano come se davanti a sé avesse il motivo del suo vorace appetito ma allo stesso tempo la rigidezza del suo corpo era un chiaro segno di repulsione e fastidio.
Mandai giù il nodo in gola e mi feci forte, non dovevo mostrarmi ammaliata né che poteva manipolarmi:«Sei stato maleducato prima con zia Cinthia e lo sei anche adesso per essere entrato nella mia stanza senza bussare».
Ma se i miei tentativi di non farmi balzare il cuore erano questi, ci stavo riuscendo male perché gli bastò accennare un sorriso e avvicinarsi per far sì che tornassi a chiedermi perché mi sentissi così emozionata.
«Fino a prova contraria io ero fermo davanti la porta», la sua voce era sottile e non nascondeva il velo di scherno con cui mi stava rispondendo:«Ma posso concederti il lamento solo adesso, che sono andato oltre la soglia». Più si avvicinava a me e più io cercavo di allontanarmi.
«E per zia Cinthia, cosa mi dici?» Gli domandai sussurrando.
Lo sentivo, il suo odore così forte di erba mischiato al dopobarba, motivo per il quale sul suo viso non c'era traccia di peluria che gli sporcasse le guance scavate. Era vicino a me più di quanto avrebbe dovuto, non potevamo sfiorarci con nessuna parte del nostro corpo, ma la distanza che ci teneva lontani fece un gioco bizzarro su di me: avevo come la sensazione che, a suo modo, stesse toccandomi.
«Non preoccuparti per lei, c'è abituata». Rispose con voce roca e bassa:«Non entrare in camera mia e non andare mai nei posti che frequento io. Stammi sempre alla larga e vedrai che questa sarà l'ultima volta che mi vedrai entrare nella tua stanza». Mi avvertì con tono duro, come il suo sguardo. Con due dita afferrò una ciocca dei miei capelli e lo portò al naso, tremai incapace di compiere un qualsiasi movimento:«Hai bisogno di lavarli, biondina», mi gettò addosso uno sguardo dentro cui avevo visto il mondo più oscuro che potevo anche solo immaginare.
Avevo la gola secca e lo stomaco in subbuglio ma almeno adesso potevo tornare a respirare, quel ragazzo aveva lasciato la mia stanza a gran velocità ed io ringraziai me stessa per non essermi lasciata sopraffare dal suo modo così strano e avvilente.
Ora capivo perché mi era stato intimato di non lasciarmi ammaliare da lui.
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