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30 Marzo 2034

30 Marzo 2034
Ore 8:10

Quella cosa avrebbe voluto farla a mezzanotte, il problema è che Simone si è addormentato alle dieci e mezza e lui non ha avuto il coraggio di svegliarlo.

Però, passate le otto, Manuel decide che non è più tanto un crimine costringere l'altro ragazzo a sollevare le palpebre.

Così entra nella stanza buia - quella che gli ha ceduto due settimane prima - e preme l'interruttore per accendere la luce, che è tenue perché c'è solo una lampadina rispetto alle cinque previste. «Simo?» lo chiama.

L'altro ragazzo, in realtà, è sveglio da almeno un quarto d'ora. La luce che risplende nella camera lo conduce comunque a strizzare le palpebre, mentre si mette seduto sul materasso - a fatica, per non fare troppo perno sul braccio ingessato.

Ci impiega qualche secondo a mettere a fuoco la figura di Manuel: lo vede avanzare lentamente, tenendo in mano quello che pare un muffin al cioccolato con sopra una candelina rosa accesa - ne protegge la fiamma con un palmo.

Lo osserva finché non prende posto anche lui sul letto, a pochi centimetri di distanza.

Manuel ha un sorriso genuino stampato sul volto.

Simone vorrebbe possedere un briciolo del medesimo entusiasmo, ma è difficile, anche se deve ammettere che le ultime due settimane passate nel suo appartamento sono state— Belle.

Leggere, più che altro. Se non conta le sedute con psichiatra e psicologa, la sveglia messa per ricordarsi di prendere gli antidepressivi e i controlli in ospedale, ecco.

Il punto è che Manuel non gli ha fatto pesare o gli ha recriminato nulla.

Quindi ecco perché tutto risulta un peso piuma.

Non è solo abituato a festeggiare il proprio compleanno: negli ultimi anni è sempre stato un evento che è passato in secondo piano, al limite rimediato con una cena fuori. Forse solo durante il primo anno di conoscenza Ivan gli ha fatto un regalo e, al momento, non ricorda nemmeno cosa.

Così Simone fissa la fiammella sopra la candelina, si stringe nelle spalle e «Non...» fa per dire.

«Non volevi festeggià er compleanno tuo» lo precede Manuel. «Lo so, me l'hai detto, ma purtroppo non t'ho ascoltato. Se dici cazzate, non t'ascolto. Pe' tutto er resto sì».

A Simone viene da ridere. Scuote il capo e «Quindi— Immagino non finisca tutto col muffin».

Manuel strabuzza gli occhi. «Ovviamente no» attesta. «A parte 'sto muffin fantastico senza zucchero, senza latte, senza niente in pratica» ride anche lui - lo fanno entrambi, insieme - «Ci sarà una festa al locale mio. L'idea è stata de Chicca, dice che te fa bene stare coi tuoi amici e... Insomma, hai capito».

Simone ha capito, anche se magari manco dovrebbe.

In tutta onestà, ha paura ad uscire da quella casa se non è per necessità strette. Ha il terrore di vedere il volto di Ivan da qualche parte - il che è un paradosso perché una parte del suo cervello, per anni, glielo ha fatto cercare.

Si limita ad annuire.

Manuel sembra comprendere il suo stato d'animo, ma proprio come si è sforzato nelle ultime due settimane di badare soltanto al lato positivo, lo fa pure in quel momento. E dunque «Devi esprimere un desiderio» esclama. «Prima che la cera coli sul muffin».

Simone tentenna. Fissa ancora per un attimo quel lieve bagliore della fiammella. Poi chiude gli occhi e soffia.


30 Marzo 2034
Ore 20:27

Alle feste si sente fuori luogo, anche se in tale occasione le persone sono poche e selezionate.

Chicca ci ha ragionato molto, ha parlato con Manuel a riguardo, per cui nel complesso gli invitati sono una decina, pochi amici di loro due che sperano possano diventarlo anche di Simone, in qualche modo.

Sebbene sia difficile.

Perché Simone lo sa che quella gente vuole solo farlo stare bene, che è gentile, che gli hanno fatto persino dei regali senza nemmeno conoscerlo.

Eppure lui si sente morire quando Chicca gli presenta la sua compagna, Ilaria, e questa gli stringe la mano per più di cinque secondi. Il suo cuore perde un battito nel momento in cui Giovanni, un vecchio amico dell'università di Manuel, gli dà una pacca sulla spalla senza preavviso.

Va in tilt quando il chiacchiericcio all'interno del Blue Butterfly diventa troppo forte, le voci si insinuano dentro alla sua testa e ad esse si aggiunge quella fin troppo conosciuta di Ivan che gli urla sono qui perché a loro fai pena.

Mezz'ora dopo essere arrivati al locale, sente l'esigenza di andar via, però, razionalmente, sa che non deve, che Manuel e Chicca si sono impegnati tanto per organizzare qualcosa per lui e sarebbe scorretto.

Pertanto, si limita ad uscire fuori, cercando di passare inosservato, giusto per respirare.

Ed è assurdo come un atto così semplice, naturale e spontaneo risulti difficile in certi casi.

Come se persino lo stesso respiro volesse ucciderti.

Fa freddo per essere Marzo e Simone non ha nemmeno recuperato la giacca dal guardaroba.

Per sua sfortuna - o fortuna, dipende dai punti di vista - lo sguardo di Manuel è sempre vigile e costante sulla sua figura; quando lo vede sgattaiolare dalla porta vetrata del pub, gli occorrono pochi secondi per raggiungerlo.

Lo trova in piedi, con le spalle appoggiate contro il muro ruvido del palazzo, il braccio ingessato piegato a ridosso dell'addome e le palpebre socchiuse.

«Tutto okay?» osa domandare - e magari la risposta già la conosce.

La sua voce giunge ovattata alle orecchie di Simone, il quale si limita a fare cenno di sì con la testa e sussurrare: «Avevo solo— Bisogno di un po' d'aria».

«Sicuro? Se ce sta troppa gente o...».

«No, la gente va— Bene. Non sono solo abituato e... È un problema mia, ma mó passa».

Manuel avanza in maniera lenta nella sua direzione.

Si ferma quando gli è di fronte, tenendo le braccia lungo i fianchi e stringendo i pugni. «Se vuoi andare via, possiamo...» biascica.

A Simone sfugge una mezza risata, senza alcun entusiasmo. Solleva un briciolo le palpebre. «No, è una bella festa» sussurra. «Non ne ho una per me da anni».

A tale affermazione, Manuel non replica - avrebbe troppe cose da esternare. Adesso si sposta, lo affianca, assume quasi la sua stessa posizione, accanto a lui. Non dice nulla, non emette suono come se in quel momento non servisse.

Simone sta fissando di fronte a sé: la strada poco illuminata, l'asfalto umido per la leggera pioggia di quel pomeriggio. «Forse le cose sarebbero andate diversamente» biascica, ancora con gli occhi sulla carreggiata vuota. «Se non fossi partito, se quel giorno a Natale fossi rimasto».

«Coi se non se fa la storia, Simó» Manuel lo interrompe. Risulta persino contraddittorio, considerando che lui, ai mille se, ci ha pensato e ci pensa in continuazione. Ma forse sono i sensi di colpa ad opprimerlo troppo e non vuole che anche un peso del genere gravi sull'altro ragazzo: ha già troppo da sopportare.

«Fanno parte del passato, no?» insiste. «Mó ce sta er presente, ce sarà il futuro».

Prende un respiro profondo.

Simone volta appena il capo, per poter scrutare il suo profilo, il naso dritto, la bocca schiusa. Vorrebbe parlare, ma viene preceduto dall'altro che fa incrociare i loro sguardi e piano sussurra: «Se non ce semo stati nel passato, possiamo esserci nel presente e nel futuro. Io e te, dico».

Gli trema il petto. «Il presente è un po' rotto».

Manuel accenna un sorriso. «Me sta bene» biascica. «Il futuro sarà d'oro». Prova l'irrefrenabile desiderio di baciarlo, di toccarlo, di sentire la sua pelle addosso.

Non lo fa, sa che gli farebbe male, sa che il contatto, seppur minimo, lo devasterebbe.

L'unico gesto che compie è quello di far sfiorare le loro spalle, col tessuto delle loro magliette a fare da scudo.

Ed è qualcosa di minuscolo nell'attesa di buttar giù quelle barriere nel presente e rimettere insieme i pezzi con la colla d'oro.


30 Marzo 2034
Ore 23:43

La festa sarebbe continuata per molto tempo, se avessero dato retta a Chicca.

Ma Manuel ha preferito andar via prima, Simone ha ringraziato tutti - anche se della maggior parte non ricorda il nome - per esserci stati e per i regali.

Rientrano all'appartamento in silenzio.

Manuel gira la chiave nella serratura - una sola volta, eppure ricorda di aver dato gli scatti, ma probabile fosse sovrappensiero e se ne è scordato.

Lancia un'occhiata verso Simone che gli è dietro: lo fa sempre, sta cominciando a diventare abitudine quella di controllare che lui ci sia - vicino, da qualche parte, anche se pensa che Simone sia sempre stato da qualche parte, come nell'aria che respira.

Simone è quell'ossigeno che non gli ha mai fatto guerra.

«Sai che ce stanno ancora due muffin de quelli senza niente?» esclama, spingendo l'anta e varcando la soglia del bilocale. «Potremmo mangiarli mó, te che dici?».

«È quasi mezzanotte» pigola Simone.

Manuel scrolla le spalle, frattanto che muove qualche passo distratto e le suole dei suoi scarponcini neri picchiettano sulle mattonelle.

Abbandona le chiavi al loro solito posto all'ingresso. «Beh, che fa?» ridacchia. «Mica ce sta un orario».

Permette anche all'altro ragazzo di entrare nell'appartamento per poi chiudere la porta alle loro spalle, con un leggero cigolio. «Quindi, te va?» chiede di nuovo e in quel momento preme l'interruttore della luce.

Una risposta dovrebbe sopraggiungere. Sta per farlo nell'attimo in cui Simone schiude le labbra per pronunciare qualcosa. Tuttavia, le sue parole vengono precedute da un «Divertiti?» che rimbomba tra quelle mura.

Ed è facile intuire, capire e tristemente appurare a chi appartenga quella voce cupa e rauca.

A Manuel viene spontaneo allargare un braccio e tirare Simone dietro di sé, come se in tal modo potesse proteggerlo da Ivan che troneggia sul divano, le mani infilate nelle tasche del cappotto nero che indossa e un ghigno dipinto sul volto.

Cerca di non farsi trasportare dal panico che lo coglie in quel preciso istante - perché non sa come abbia fatto ad entrare, perché si ricorda di aver dato i maledetti scatti alla porta.

Nemmeno riesce a voltarsi, a scrutare il viso di Simone e, da un lato, è un bene perché vedrebbe il proprio riflesso: spaurito, spezzato, sull'orlo di una crisi di nervi e non è ciò che gli occorre adesso.

«Te do dieci secondi pe' uscì da casa mia, altrimenti chiamo la polizia» sibila, a denti stretti.

Non è una minaccia che intimorisce Ivan che, anzi, pare ignorarla del tutto. Inclina il capo su di un lato e abbozza una risata: «Sono solo— Come si dice, venuto a fare gli auguri al mio fidanzato».

«Co' n'ordine restrittivo addosso? Coraggioso».

Ivan si alza lentamente in piedi. Compie un solo passo nella loro direzione.

È allora che Manuel osa girare il capo di qualche centimetro soltanto per osservare Simone tremare, perdere fiato - come se l'ossigeno fosse il suo nemico. Si sente impotente ed inutile.

«Avanti, Simo» dice ancora Ivan. «Te li ho sempre fatti gli auguri, no? Che cosa è cambiato?». Avanza ancora.

E Manuel, per istinto, fa un passo indietro, costringendo Simone a compiere il medesimo gesto.

Scuote il capo e «Non ce dovresti sta' qua» sentenzia. «'O sai tu come 'o so io». Mentre parla, tira fuori dalla tasca posteriore dei pantaloni  il telefono: sa che potrebbe risolvere la questione magari in modo civile, intimandogli di nuovo di andar via da quell'appartamento e lasciarli in pace.

Tuttavia, presume che non si possa in effetti ragionare con uno come l'uomo che gli è di fronte, considerando che la sua lingua è la violenza e la manipolazione.

Vuole solo che sparisca e che Simone smetta di tremare, che non crollino quei piccoli progressi che ci sono stati - pochi, alcuni irrilevanti, ma ci sono stati.

Per cui, sta per premere invio alla chiamata del 113, ma c'è qualcosa che lo precede, che lo blocca.

Che lo raggela, che gli fa contorcere le viscere.

È Ivan che leva una sola mano dalla tasca e nella stessa impugna una calibro 45 nera, con l'impugnatura marrone scuro che tiene ben salda.

Sorride e ancora ripete: «Ho detto che devo fare gli auguri— Al mio fidanzato».

Ed è allora che Manuel va allo sbaraglio e non sa cosa fare.

Perché davanti a quello nessuno insegna a reagire.

Nessuno ti dice cosa fare davanti a qualcuno che ti punta una pistola addosso.

Ivan piega il capo su di un lato, gli fa cenno di scansarsi.

Manuel fatica a muoversi. L'ossigeno è diventato un nemico anche per lui. Potrebbe premere in tale istante l'avvio della telefonata, ma non ci riesce. Può soltanto spostarsi, tremando, mentre l'uomo ancora gli tiene la calibro 45 puntata contro e mantiene l'indice sul grilletto.

Gli viene da pensare a quanto possa essere effimera la vita umana: se solo quel dito usasse più forza, partirebbe un colpo; considerate le loro posizioni, l'angolo in cui è inclinata l'arma, immagina che il proiettile lo colpirebbe al centro esatto del petto, al cuore e morirebbe nel giro di qualche secondo.

Morirebbe con un oggetto di qualche centimetro, piccolo, qualcosa che sembra innocuo che, però, porterebbe il suo corpo a smettere di funzionare.

Pare assurdo, privo di senso e logica.

Tali idee ed ipotesi gli frullano ancora nella testa, forse per scacciare da essa la scena che gli si para davanti: di Ivan che si avvicina a Simone - che gli è troppo vicino - che allunga la mano libera e gli sfiora il viso.

Gli viene da soffocare «Non lo toccare» e la sua voce viene smorzata dall'uomo che agita la pistola e lo minaccia di tacere.

Può solo guardare.

Ed è difficile farlo quando il ragazzo che ama - che non ha mai smesso di amare - si sgretola al tocco di chi lo ha distrutto da anni. È arduo sopportare Ivan che parla e sussurra: «Te li faccio ogni anno gli auguri, amore».

Vorrebbe ancora gridare di non chiamarlo così, che non dovrebbe nemmeno nominarlo. Stringe i pugni lungo i fianchi così forte da conficcare le unghie nei palmi e rischiare di sanguinare.

In un primo momento, Simone non riesce a muoversi e permette ai polpastrelli di Ivan di toccarlo - e quel tocco brucia e gli fa male. Ci impiega qualche secondo a scostare il viso per interrompere il contatto. «Devi andare via» pigola e la sua voce si incrina. «Vai via».

Ivan sembra impassibile di fronte a quel rifiuto. Il braccio è ancora teso in direzione di Manuel. Gli lancia un'occhiata rapida, per poi tornare a focalizzarsi sul viso di Simone. Cerca il suo sguardo con nulli risultati.

«Che ti è successo, amore mio?» ripete - a Manuel viene da vomitare. «Ci siamo sempre stati io e te».

Simone viene ulteriormente scosso da tremori e ribadisce «Te ne devi andare».

Manuel prova ad avanzare perché vorrebbe interporsi tra i due, vorrebbe semplicemente porre fine a quella scena, tornare a loro due che rientrano all'appartamento e mangiano quel muffin che sa di cartone.

Invece no.

Invece deve stare a sentire Ivan che incalza «Ma adesso non siamo più io e te. C'è anche questo» pronuncia con disprezzo l'ultima parola. La mano che regge l'arma trema, così come l'indice che fa pressione sul grilletto.

C'è un momento, una frazione di tempo, durante il quale gli sguardi di Simone e Manuel si incrociano.

Paiono parlarsi.

È un po' assurdo, paradossale comunicare solo attraverso gli occhi.

Loro, però, ci sono sempre riusciti.

Si sono detti migliaia di cose senza dirle per davvero.

Si sono detti centinaia di volte ti amo senza mai pronunciare quelle parole.

Dal primo attimo, in ogni attimo.

E così si parlano anche adesso e Simone capisce fin troppo, tanto da volergli dire di non farlo.

Però Manuel agisce, lo fa per istinto - di sopravvivenza, di protezione.

Lo fa quando si scaglia contro Ivan che sta per aprir di nuovo bocca: gli afferra un polso, cerca di disarmarlo con la forza. Lotta, la mano libera tenta di assestare dei colpi al suo busto per fargli mollare la presa sulla pistola, per atterrarlo, per giungere alla parola fine.

Sono due corpi in collisione che creano caos, disordine e devastazione.

Devastazione è quella che coincide con un suono sordo, un rimbombo.

I loro movimenti cessano allo scoccare di quel rumore.

Ci siamo, pensa Manuel, quanto è effimera la vita umana.

Crede che un proiettile lo abbia colpito: allo stomaco, al petto da qualche parte. Ma non sente dolore e allora, forse, ha sbagliato e il bersaglio di quel colpo è stato Ivan.

Poi all'unisono, quelli che sono due nemici sollevano lo sguardo. Lo mirano al terzo bersaglio presente nella stanza.

Simone non se ne è reso nemmeno conto. Ha cercato di fermare la lotta, ad un certo punto, si è avvicinato ed ogni tentativo è stato vano.

Non ha realizzato neanche che il proiettile ha viaggiato nell'aria e si è incastonato al centro esatto del proprio torace.

Lo appura quando tocca quel punto con una mano e, alzandola, la vede imbrattata di rosso.

Quanto è effimera la vita umana.

«Manuel...» sospira Simone e dopo le sue gambe cedono.

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