10 Marzo 2034
10 Marzo 2034
Ore 22:15
Ci sono azioni che, per quanto moralmente corrette, fanno passare dalla parte del torto e provocano danno in maniera inconsapevole.
Manuel si sente quasi in colpa per aver esternato qualcosa di cui non è certo, per quanto la sua preoccupazione non sia mai svanita.
C'è ancora ed è forte.
Prova non pensarci, ma ogni volta che crede di riuscirci, davanti agli occhi gli balena l'immagine di Simone e i suoi lividi in faccia e non riesce a cancellarla.
Una piccolissima parte di sé - minuscola, ma pur sempre esistente - vorrebbe chiedere scusa e, per quel che vale, mantenere un qualsivoglia tipo di rapporto con lui.
Per non farlo partire di nuovo e per non fare passare altri dieci anni.
Per non perdere altro tempo.
Quella sera, lascia il Blue Butterfly prima del tempo, nonostante il caos del venerdì sera - però Fabrizio gli deve un favore, pertanto sceglie di riscuoterlo in tale occasione, poiché ne ha bisogno.
Guida imperterrito fino a quel palazzo con il portone blu. Non c'è parcheggio, quindi abbandona l'auto in doppia fila, inserendo le quattro frecce.
Cerca di essere calmo, di scacciare via ogni pensiero negativo. Vuole soltanto scusarsi e lasciar correre il resto.
Magari ha ragione Chicca e si è sbagliato.
Chiude la Peugeot con il telecomando e stavolta cerca di essere appena più civile suonando addirittura il citofono. Attende qualche secondo, che si trasforma in minuto, che diventano cinque, sei, sette.
Immagina che magari non sia in casa. Spera che non sia tardi e non sia già partito - ma no, si è informato proprio tramite Chicca e il volo di ritorno non è previsto prima di mercoledì della settimana successiva.
A quel punto, dovrebbe lasciar perdere, lasciar correre e fare un passo indietro. Può sempre trovare un altro momento per scusarsi.
Così ci mette la buona intenzione di andar via, indietreggia, sta per tornare in auto. Se non fosse che, come già successo, una strana sensazione lo assale, quel medesimo fastidio già provato in precedenza. Una voce dentro alla testa gli sussurra non andare.
Non andar via.
Pensa che sarebbe illogico e contraddittorio restare.
Eppure non può farne a meno.
Si morde così forte il labbro inferiore da rischiare di farlo sanguinare. In seguito, proprio come ha già fatto in precedenza, approfitta dell'uscita di un condomino qualsiasi - che per fortuna capita dopo qualche minuto di attesa - per intrufolarsi dentro lo stabile.
Sale con calma le scale, fino al quarto piano.
Dovrebbe suonare il campanello e attendere, eppure ciò non si rende necessario poiché trova la porta blindata già aperta - non di poco, solo qualche millimetro, una fessura piccolissima attraverso la quale si intravede uno spiraglio di luce artificiale.
Per qualche secondo, Manuel esita. Soltanto in seguito osa spingere con una mano sull'anta, che si apre con un lieve cigolio.
L'interno dell'appartamento è abbagliante, ogni cosa eccessivamente chiara e luminosa. C'è un piccolo ingresso dove si colloca una porta di legno opaco, grigio ghiaccio con delle venature che hanno qualche riflesso argento.
Uno strano silenzio avvolge tutto l'ambiente.
Manuel prende un respiro profondo, poco prima di richiamare «Simó?». La sua voce riecheggia tra le pareti spoglie della casa.
Lui si muove in quell'appartamento sconosciuto e asettico, privo di qualsivoglia personalizzazione come se, di fatto, non appartenesse a nessuno, non fosse vissuto - in fondo, è davvero così.
Cammina a passo lento, senza produrre alcun genere di rumore. Lo fa finché non giunge alla camera da letto, anch'essa preceduta da una porta di legno chiaro uguale a tutte le altre viste - del bagno, della cucina, di un piccolo salotto.
Ci sono luoghi che rimangono impressi non tanto per la loro bellezza, ma per il ricordo che rievocano.
Alcuni ne creano di devastanti, di immagini che si vorrebbero cancellare dalla mente nell'immediato, in particolar modo quando esse rendono reale ciò che prima è sempre rimasto illusorio.
Ciò che prima è sempre stata una mera supposizione.
E Dio, quanto Manuel avrebbe voluto sbagliarsi.
Avrebbe persino ammesso di aver errato, lo avrebbe urlato a gran voce.
Invece ha ragione.
Ha ragione, ha ragione, ha ragione.
«Simo—» dalla sua bocca fuoriesce un flebile sussurro, rassegnato, impaurito, scosso.
Perché l'immagine di Simone seduto a terra, con le gambe allungate in avanti, la schiena contro un lato del letto, mentre la sua faccia è martoriata in più punti da tagli e lividi, è esattamente quel tipo di scena che vorrebbe dimenticare seduta stante.
Gli tremano le ginocchia quando si precipita al suo fianco. Non sa neppure dove mettere le mani - non è una cosa che insegnano, del resto.
Il peggio sopraggiunge nell'attimo in cui Simone solleva lo sguardo - per quel che può, dato che un occhio è gonfio e la palpebra non riesce a tenerla aperta - trema e biascica «Non dov— Non dovresti essere qui, non ...».
Manuel scuote il capo. Pensa che non dovrebbe essere in un posto diverso da quello.
Pensa che lì doveva esserci da ancor prima.
«Shh» mormora. «Devo portarti in ospedale». Cerca di tenere un tono fermo, pacato, sebbene l'agitazione e la rabbia lo stiano pervadendo.
Simone si affretta a fare cenno di no con la testa, ripetutamente. «No, no, no» dice, con voce impastata. «Niente ospedale, non— Non voglio andarci in ospedale».
«Sì che devi andarci, Simó, ti prego».
«No, non è— Non è niente».
Manuel dubita sia niente. Il suo volto insanguinato è già una prova evidente e presuppone che i lividi e quei segni violenti non si limitino soltanto al viso.
Perché Simone indossa una t-shirt azzurra e sgualcita a maniche corte e sulle sue braccia spiccano cicatrici vecchie e nuove, graffi freschi e altri in via di guarigione.
Manuel ha il terrore di azzardare il minimo movimento: ha paura della sua reazione, della propria, di arrecare ancora più danno all'intera situazione.
Prova ad essere lucido per quanto sia nelle sue capacità in quel momento.
«Niente ospedale» lo accorda, per quanto sia sbagliato. «Però te devo medicà, okay? Possiamo fare almeno quello?». Attende una reazione trattenendo il respiro.
In apnea, camminando su vetri rotti.
Essa arriva pochi attimi dopo, ma non è quella che aspetta. Difatti Simone emette un mugolio a stento comprensibile e poi «Devi— Andare via» soffoca. Cerca di far incrociare nuovamente i loro sguardi, per quanto complicato. «Ha detto che torna, non— Non puoi stare qui».
Manuel serra la mandibola: non gli interessa se torna o meno - anzi, spera che accada per riversargli addosso ogni sensazione di rabbia che sta covando.
Rimane immobile e «Non vado da nessuna parte» attesta. «Ce la fai a tirarti su?».
«Manuel...».
«Ce la fai?» lo ripete e il suo tono di voce si incrina un po'.
Simone cerca di annuire, sebbene i suoi movimenti risultino un briciolo convulsi. Tenta di rimettersi in piedi, facendo leva sul bordo del materasso, ma i risultati sono pressoché nulli.
Manuel prova ad aiutarlo come gli è possibile e nota, in quel momento, che l'altro ragazzo fatica a sollevare la gamba sinistra. «Sicuro che non ci vuoi andare in ospedale?» azzarda di nuovo. «La gamba potrebbe essere rotta e—».
«Non è rotta» lo interrompe Simone. «Riesco a muoverla, vuol dire che non è rotta. La— La scorsa volta non ci riuscivo».
Un brivido di terrore scorre lungo la schiena di Manuel per quel la scorsa volta che implica che quella non è la prima volta che succede. Rinnegare il senso di disgusto che lo assale è terribilmente difficile.
Ma deve restare calmo.
«Okay» soffoca. «Appoggiati a me allora».
Con quel nuovo supporto, ma non senza ulteriori ostacoli, Simone effettivamente riesce a sollevarsi dal pavimento, così da precipitare di peso sul materasso, seduto sul bordo e dolorante.
Manuel, subito dopo, si affretta nella ricerca della cassetta del pronto soccorso che spera sia presente.
In realtà, non c'è, però in un cassetto sotto al lavandino del bagno quadrato e con le mattonelle turchesi, trova dei batuffoli di cotone rosa e dell'acqua ossigenata.
Magari può bastare.
Torna nella stanza precedente. Si accomoda accanto all'altro ragazzo, cercando di fare meno movimenti possibile per non dare troppi scossoni come se con ciò gli potesse fare ulteriore male.
Bagna del cotone con l'unico disinfettante che ha trovato - che manco sa se sia la scelta più ottimale - e con esso comincia a tamponare con leggera esitazione ed estrema delicatezza il taglio che spacca in due il suo labbro inferiore. Simone sobbalza per quel contatto che non è improvviso, però gli provoca del bruciore.
«Scusa» sussurra Manuel.
«Non fa niente».
Prosegue col medicarlo lentamente, chiedendosi se stia facendo la cosa giusta - in ogni senso possibile.
A quel punto, Simone nemmeno più riesce a sostenere il suo sguardo: si sente piccolo, indifeso, inerme e disarmato. «Non devi restare qui» ribadisce, con voce tremolante.
«Me lo hai già detto».
«Ma sei ancora qui» piagnucola. «Se torna e ti trova qui, non—».
«Fa mejo a non tornà, Simó, te lo assicuro». Manuel getta il primo pezzo di cotone sporco di sangue a terra. Ne raccatta un secondo dal sacchetto di plastica, imbevendolo in egual maniera. Ripete l'operazione precedente, stavolta con la lezione sul sopracciglio destro.
Osservandolo, riesce a notare particolari lasciati in sospeso, volente o nolente, come i segni violacei che spuntano sul collo e che, con molta probabilità, si estendono al di sotto della maglietta; così come nota delle cicatrici biancastre e simmetriche sui suoi polsi, che paiono rimarginate da tempo - eppure non possono mai andare via e sparire del tutto.
Le ignora. Si costringe a non prestare attenzione ad ogni cosa nel suo complesso altrimenti rischia di impazzire.
«Non voleva farlo» biascica Simone ad un tratto, stringendosi nelle spalle. «È solo che— Si è arrabbiato e quando si arrabbia perde un po' il controllo, non...».
Manuel vorrebbe fargli notare che non è una scusa, che essere irascibili non giustifica una violenza simile. In quel momento, tuttavia, tace.
Sceglie il silenzio poiché sa che l'altro ragazzo non è lucido e non capirebbe. Rimanda quella conversazione ad un momento diverso, magari lontano da quel posto.
Di sicuro lontano da quel posto.
«Finisco qua e ce ne andiamo via da qui, mh?» attesta in seguito. Sebbene sia una domanda, non suona affatto come tale.
Simone stringe i pugni che tiene appoggiati alle cosce. «Non— Non posso. Se poi torna, devo essere qui, devo...».
«Non devi niente. E non te lascio qui, intesi?».
Manuel butta l'ennesimo batuffolo di cotone a terra, nemmeno si preoccupa di non sporcare - non gli interessa. «Prendiamo dei vestiti puliti, le tue cose e ce ne andiamo, subito».
«Non posso andarmene».
«Sì che puoi».
Fosse facile.
Alcune situazioni, viste da un occhio esterno, sono facilmente risolvibili, basta uno schiocco di dita.
Esserci dentro, però, è una storia ben diversa.
Si crea un reticolo fitto, un labirinto dal quale non c'è via d'uscita e, delle volte, si ha paura di trovarlo quello sbocco alla luce.
«Guardame» sussurra Manuel e delicatamente gli sfiora il mento per fargli sollevare il capo. «Te porto a casa mia. Dormi un po' e— E domani pensiamo a tutto il resto. Ma qua non te lascio. Non te lascio e non me ne vado».
È una richiesta chiara e concisa, qualcosa che non ammette replica.
Ad ogni modo, Simone non ne avrebbe neppure la forza.
10 Marzo 2034
Ore 23:35
L'appartamento di Manuel è piccolo: un bilocale dai muri parzialmente spogli che sta cercando di personalizzare con tele dai toni sul rosso e l'arancione. L'ingresso è living su un angolo che funge da salotto, ove spicca un divano in tessuto bordeaux, per poi aprirsi su una cucina lineare color grigio scuro e opaco.
La luce del lampadario a Simone un po' dà fastidio quando entra in quel nuovo ambiente, tanto che deve strizzare le palpebre per abituarsi.
Manuel non gli ha tolto lo sguardo di dosso per tutto il tempo durante il tragitto in auto e ha notato come l'altro tenesse in mano il telefono, a scrutare con preoccupazione lo schermo; sa fin troppo bene il motivo, il che lo manda ancora più fuori di testa.
La parte peggiore è sentirsi del tutto impotente in quella situazione.
Non può fare niente.
Crede di non poter fare niente.
Però, almeno per il momento, lo ha portato via - in modo temporaneo - da quell'inferno e un briciolo può bastare.
«Puoi stare di là sul letto» sussurra, mentre chiude la porta blindata alle proprie spalle; indica con un cenno del capo verso quella che è la stanza più grande dell'abitazione. «Io me metto sul divano».
Simone è rimasto immobile, in piedi, con i pugni stretti lungo i fianchi; in uno di essi, è ancora ben saldo il cellulare che ha lo schermo rotto.
«Non serve» biascica. «Darmi il tuo letto, non—».
«Te stai a impegnà pe' contraddirmi stasera, mh?» cerca di sdrammatizzare, con scarsi risultati. Finge un colpo di tosse. «Vai a dormì» sussurra.
Lo ha raggiunto, gli è di fronte. Lui in mano regge un piccolo borsone da palestra dentro al quale ha ficcato ogni cosa gli sembrasse di Simone - vestiti, principalmente; forse qualcosa l'ha raccattata pure in modo errato, ma fa niente.
Simone trema appena. Abbassa lo sguardo. «Dovrei tornare a casa» ribadisce. «Se inizia a cercarmi, a...».
«Ce pensiamo domani a questo» Manuel lo interrompe. Lascia cadere il borsone sul pavimento.
Si muove cauto quando gli sfila con delicatezza il telefono dalle mani - cerca di non strattonare, di non compiere alcun movimento azzardato. «Domani, okay?».
Domani.
Ci sono ancora altri tentennamenti da parte di Simone, altri desideri insensati di tornare da Ivan, da un carnefice che non lascia via di scampo.
Manuel cerca di rassicurarlo, di - ancora - rimandare ogni conversazione e ogni cosa più logica al giorno dopo.
Perché, in fondo, anche lui non è più lucido.
Lo convince a mettersi a letto, sotto le coperte che si premura di rimboccargli.
Quando sta per abbandonare la stanza, la sua voce lo frena e piano lo sente pigolare: «Manuel?».
«Mh?».
«Puoi lasciare— La luce accesa?».
Perché il buio fa troppa paura.
Manuel annuisce. Accende l'abat-jour posizionata sul comodino di legno accanto al letto. «Questa va bene?».
«Va bene».
Così fa meno paura.
Lascia la camera strisciando i piedi sul pavimento. Si chiude la porta alle spalle, lentamente, con le mani che gli tremano.
Con tutto che trema, frattanto che persino le gambe gli cedono e lui crolla a terra, in ginocchio, con le lacrime che ha trattenuto fino a quel momento che gli rigano le guance.
E crolla pure tutto il resto.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro