Le valide alternative
L'ape sbatteva sui soffitti, sui mobili, sulle pareti, nella ricerca disperata di una via d'uscita ed io la inseguivo, sbuffandole addosso fumo di sigaretta, giocando a stordirla come un ragazzino dalla barba incolta.
La fisarmonica di un valzer zingaro sospirava, tra le finestre e la strada immersa nel sole, rimbalzando sulla fronte sudata degli ausiliari del traffico e gli sguardi annoiati dei commessi a tempo determinato.
Io mi accompagnavo all'ape, in quella danza, muovendo i piedi sul ritmo confuso dei miei pensieri, barcamenandomi nel silenzio circoscritto di quell'estate infinita. Era così che godevo del mio tempo libero, riempiendo lo spazio bianco con contorni di gioia e musica.
Oltre quella finestra il mondo era miseria, solitudine, desolazione, ma non importata, avrei ballato ancora, sino al vibrare dell'ultima nota, inseguendola da un tasto all'altro mentre la musica si raggrumava in nuvole che, rimbalzavano tra armadi e tapparelle, giocherellava nei dintorni dell'ape e dell'aria ingombra di fumo di sigaretta.
Un giorno avrei pensato a quelle donne che tanto avevo amato quanto sofferto e le avrei ringraziate tutte, forse, perché evitando di sposarmi mi avevano fatto il regalo più grande.
Il tuono del cellulare costrinse l'ape a nascondersi sotto il divano insieme alla fisarmonica, obbligandomi a rispondere, nel silenzio.
– Pronto? - dissi.
– Possiamo vederci oggi pomeriggio? - domandò, con tono particolarmente suadente.
– Ci sono solo la sera – precisai, irritato.
– Ma per un po' la sera non posso, dai, vediamoci tra un'oretta...
– Non ci sono il pomeriggio, lo sai.
– Per favore... mio marito fa il secondo ed i bambini sono a scuola, possiamo...
– NO! - riattaccai.
Pagavamo il prezzo per i nostri egoismi, per le nostre mode, per i non valori di un'epoca tutt'altro che umana. Desideravamo tutto gettando tutto, convinti di poter sostituire ogni cosa, persino l'amore, come se il mondo non fosse altro che un piccolo centro commerciale.
Io non ero altro che merce esposta, un prodotto, un prezzo di mercato.
Anni fa lei mi aveva guardato con il volto tagliato dal sole e gli occhi frastagliati dall'ombra delle foglie. Aveva sorriso, snocciolandomi velocemente una giornata qualsiasi, così come avevo sorriso anch'io, ascoltandola. Era mia e neppure me ne rendevo conto, in quel giugno torrido, mentre distesi sull'erba ci guardavamo gli occhi, scostandoci i capelli, consapevoli che presto ci saremmo persi. C'era un pazzo, in quel parco, parlava da solo ed ogni volta lo paragonava a me.
"Quello sarai tu da vecchio" diceva, indicandomelo in una cascata di risate cristalline.
Invece avevo finito per essere diverso, per cadere in quella monotona ordinarietà che disprezzavamo.
Per crescere ero stato costretto ad indossare un altro abito ed ora, guardandomi allo specchio, riconoscevo tutte le mie sottili differenze. Le spalle larghe, l'azzurro della barba sulle guance, i tatuaggi e le cicatrici nuove. Persino le ginocchia erano cambiate. Senza accorgermene mi ero spogliato di tutto, diventando un tramutante triste che vede l'unica gioia nell'inseguire un'ape, o un'ora, nel silenzio del suo tempo libero.
Pensavo a lei soprattutto la sera, rivestendomi, leggendo quelle sottili differenze tra le pieghe dell'abito elegante e la luce dei miei occhi incapaci di ricordare quella dei suoi. Vivevo nell'insofferenza, consapevole che ogni sera vendevo un frammento di noi due, un ricordo di lei, solo per la cocaina del Dio Denaro e qualche spicciolo di solitudine.
Nel locale sedevo sempre allo stesso tavolino, regolarmente prenotato, sorseggiando qualcosa di dolce e alcolico, mentre una schiera di teste si agitava nel rombare della musica.
Odiavo quel genere di luoghi esattamente come l'operaio è capace di odiare la fabbrica per cui lavora, vedendone lo sporco, la miseramente annidata negli angoli.
Le discoteche erano l'apparenza più verosimile del mondo ideale, dove luci e gioia si mescolavano al meglio con meschinità e buio. La pista era un'illusione, ammiccava alla perfezione della musica, dell'alcol e del sesso. Tutti vi trovavano qualcosa di esaltante, in quel cocktail, come se superficialità fosse un sinonimo di espressione infinita. Ma era solo uno spazio vuoto, lontano, insensato, privo di qualsiasi logica.
Erano notti di profonda nostalgia, una nostalgia appartenuta ad un milione di non presenti, di realtà alternative che sarebbero potuto essere ma non saranno mai.
Le discoteche, l'alcol, il dj barricato dietro la consolle, quella non era casa mia, non lo era mai stata. Quando pensavo a casa mia, al posto in cui avrei voluto vivere o invecchiare, mi veniva in mente un piccolo bar sulla spiaggia ed un pianista dalle mani abbronzate con denti tanto bianchi da sembrare una pubblicità. Lo stesso pianista che ci aveva scortato ai piedi delle cascate dove avevamo fatto l'amore tutto il giorno, nudi, consapevoli che solo l'universo avrebbe potuto spiarci.
Da quei giorni ho smesso di fare l'amore e di credere, in qualche maniera, che qualcosa del genere sia mai esistito.
– Lo sai che ho smesso di credere in Dio? - mi domandò, sedendosi. - Anzi, penso di aver smesso di credere in tutto, oramai.
– È una sensazione che conosco bene – risposi.
– Oggi pomeriggio ti ho chiamato...
– Il pomeriggio non sono reperibile, dovresti saperlo bene.
Era malinconica, parlando, mentre teste e pista diventavano la stessa cosa, lei indossava occhi stanchi, dietro le lenti sottili dei suoi occhiali. Le guardavo le mani screpolate, abilmente nascoste dal rosso delle unghie e pensai che dovevano essere state bellissime, un tempo.
– Lo so – disse, come sussurrando. - Ma certi bisogni non possono aspettare il buio.
Accendevo una sigaretta, cercando un pensiero lucido, lineare, ma finivo con il subire l'influsso ipnotico della musica, o forse sceglievo semplicemente di non avere parole, di non dare ulteriore adito a quel discorso.
– Sono stanca di questo locale – sbottò, guardandosi attorno. - Portami da qualche parte.
– Hai qualche posto in mente o vuoi che facciamo il solito giro? - domandai, salendo in macchina.
Guardava le luci della discoteca, come salutando qualcuno. - Facciamo un giro – rispose. - Deciderò strada facendo.
– Va bene – annuii, ingranando la seconda.
– A volte penso che dovrei mollare tutto, fare le valigie e andarmene, lasciare anche quel maledetto bambino – sospirò. - "Il bambino", "il Bambino", "IL BAMBINO!". Mia madre me lo ripete di continuo, come una dannazione, il maledetto bambino. Il bambino sta andando male a scuola, il bambino ha rotto il vetro del vicino con il pallone, il bambino ha insultato di nuovo la signora Cesira, il bambino... - guardava le luci della città scorrerle accanto, fuori dal finestrino. - Il bambino è rimasta l'unica cosa che ci lega, l'unica cosa che ci ricorda il nostro passato insieme. Il bambino. - continuò, scostandosi i capelli dal volto. - Ed io ad invecchiare, nel buio di quella casa, appassendo giorno dopo giorno tra fornelli e mutande sporche... - si guardava allo specchio, stringendo un disco di cotone a mezz'aria mentre gli occhi le si riempivano velocemente di lacrime. - Dieci anni – sussurrò, struccandosi. - Ho passato dieci anni così, in silenzio, sacrificando tutta me stessa per un uomo che non mi ha mai veramente meritato, che non sa ancora nulla di me. Per lui sono un oggetto, un elettrodomestico, "Fai questo, fai quello, fai quest'altro"... "devi accompagnare il bambino a scuola", "ricordati di pagare le bollette", "vai a fare la spesa", "scopiamo"... - aprì il finestrino per lanciare il cotone sporco. - Tutti i nostri sogni, quelli che ci avevano permesso di crescere insieme, le cose che ci hanno fatto innamorare, tutte le parole dolci, le serate romantiche... tutta una vita... tutto il tempo che abbiamo condiviso è finito nel cesso. Non so quando è stato, se in un attimo o dopo una vita, ma siamo diventati estranei... - sospirò di nuovo, affondando nel sedile, con le mani al grembo ed i capelli che le cadevano dolcemente sul petto. - O forse siamo sempre stati due estranei, noi, solo che ho sempre finto di non rendermene conto, di non sapere, di non vedere che la persona di fronte a me non era chi diceva di essere, che quella persona che mi ascoltava sempre ha smesso di farlo da troppo tempo ed ora è così impegnata a parlare da darmi per scontata – abbassò lo sguardo. - Ho freddo, certe notti, quando lui non rientra ed il bambino dorme, tanto freddo che incendierei la casa, se servisse a scaldarmi... Vorrei cambiare tutto, ma ho così paura che non cambierei niente, che anche volendo non riuscirei a sfuggire a tutto questo.
Sollevai la mano dal cambio per poggiargliela su una gamba. La sentivo fremere sotto il mio tocco. - Hai paura?
Mi guardò nell'ombra della circonvallazione. - No – rispose, poggiando la mano sulla mia. - Non ho mai paura, ora.
La sentivo sorridere e stringermi la mano. - Fermati qui – disse. - Mi è venuto freddo.
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