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1. Il Vuoto e La Stanza

Esisteva un tempo in cui vivevano quegli eroi che, con il loro coraggio, combattevano i mostri che minacciavano il loro regno e i suoi abitanti indifesi; che lottavano il male e le bestie che volevano distruggere tutto il bene seminato nel mondo, radendo al suolo ogni cosa con la loro avidità e pura cattiveria, guidati dal male e dal desiderio di vendetta e conquista.

Esisteva, però, un altro tempo, che non era quello delle favole.

Si trattava di un tempo in cui i mostri non erano più delle creature fantastiche, degli stregoni o dei re malvagi, ma erano mostri veri in carne e ossa, che vivevano nel suo mondo e che nessun eroe era in grado di sconfiggere.

I mostri dei suoi incubi erano diventati reali e gli indifesi non avevano alcuna speranza: nessuna spada o magia avrebbe potuto annientarli, né tantomeno gli eroi.

Perché gli eroi, in quel tempo e in quel mondo, semplicemente non esistevano, proprio come i poteri magici e le armi incantate.

Eppure, in un'anonima casetta di una piccola cittadina, viveva un bambino che sognava di diventare un eroe.

Sapeva, però, che questo suo desiderio non si sarebbe mai realizzato e che non avrebbe mai potuto salvare né ottenere il suo regno, la sua dama, la sua famiglia, i suoi amici e i suoi fidati cittadini.

Il giovane aspirante eroe, più che credere nel lieto fine, sperava che ce ne potesse essere uno per lui ma, purtroppo, quello non era un mondo di favole e di speranze, ma di dolore e di bugie, dove i cattivi vincevano sempre ad ogni costo, qualsiasi fossero le circostanze.

Le storie mentivano. Sempre. E le detestava per questo.

Lui credeva nei sogni, ma esse glieli strappavano via e li frantumavano proprio dinanzi i suoi occhi,trasformandoli in un mucchio di cenere ai suoi piedi.

Lui credeva nella felicità, ma quella che gli veniva presentata non corrispondeva alla realtà e non sarebbe mai stato capace di raggiungerla proprio per colpa di quei mostri che lo tormentavano ogni istante delle sue giornate.

Lui credeva nella magia e nei piccoli miracoli, ma capiva bene che si trattava soltanto di frottole e che, nella vita vera, non c'era e non ci sarebbe mai stato spazio per niente di tutto questo.

Lui credeva nell'avventura, eppure ogni cosa gli urlava di nascondersi e di non farsi avanti e combattere perché, altrimenti, il mostro lo avrebbe catturato e poi fatto del male, sarebbe stata la sua fine e non avrebbe raggiunto il suo obiettivo e, quindi, il suo presunto lieto fine.

Lui credeva nell'essere unici e speciali ma, da come constatava tutti i giorni, erano qualità che lo avrebbero costretto ad essere triste ed isolato per sempre. Per le persone buone, gentili e speciali lì non ci sarebbe mai stato posto. Essere unici, più che salvezza, era una vera e propria condanna.

Così il piccolo cavaliere Jules se ne stava rintanato all'interno della sua fortezza, al buio, cercando di nascondersi dal mostro che, da un momento all'altro, avrebbe potuto attaccarlo.

Thump.

Thump.

Bum.

Passi svelti e decisi si muovevano avanti e indietro senza sosta, ad un ritmo scostante. Era una camminata intensa, così carica di rabbia a tal punto da far tremare il pavimento, che quasi ne risentì.

Il mostro stava scatenando la sua furia sottoforma di terremoto?

Thump.

Thump.

Crash.

Al tipico clangore di oggetti infranti, suono a cui lui era ormai abituato, si aggiunse quello sistematico dei pugni che picchiavano e rimbombavano sulle pareti delle stanze al di fuori del suo rifugio.

Era come se fosse intrappolato in una bolla, incapace persino di respirare.

Trattenne il fiato, chiudendosi in se stesso fino a sparire, con la testa fra le ginocchia sbucciate e le braccia a incatenargli il corpicino ridotto in frantumi proprio come quei cocci di vetro e terracotta sui quali sarebbe stato costretto a camminare più tardi se non avesse fatto il bravo.
O che si sarebbero conficcati nella sua pelle, pungendolo, graffiandolo e lasciandolo da solo attraversato da rivoli di sangue, rosso come le rose del suo giardino.

Rose tanto belle quanto bugiarde: Il loro colore acceso e incantevole invitava sempre ad avvicinarsi eppure, una volta colte, ferivano con le loro tremende spine.

Un brivido di terrore gli scosse la spina dorsale al levarsi di un grido che squarciò l'aria e si riverberò nel profondo della sua anima, facendosi largo al suo interno con tutta la forza possibile: voleva forse spezzarlo? Voleva che sentisse e provasse quello stesso dolore anche lui?

Jules sapeva che esistevano diversi tipi di urla e, pian piano, era riuscito a distinguerle tra quelle di gioia, di rabbia, di dolore e di molto altro ancora; ma quelle erano le urla che lo spingevano -quasi lo pregavano- ad intervenire e buttar giù la porta, ad andare a salvare l'innocente preso d'assalto per poi correre via e condurlo al sicuro.

Ma lui non era coraggioso, per niente.

Si sentiva così indifeso e non possedeva un briciolo di forza; era inutile e lo sarebbe sempre stato, così, accucciato sotto quell'insulsa fortezza costruita con sedie cigolanti di paglia sfilacciata e da teli pieni di polvere che lo facevano continuamente starnutire e tossire.

A provocargli, però, una sofferenza tale da farlo ricadere nel vortice dell'incapacità e dell'inadeguatezza era il fatto che non si trattava di un innocente qualsiasi, ma di sua madre, la sua regina delle fiabe.

Una regina non avrebbe mai dovuto provare così tanto dolore.

Una regina avrebbe dovuto vivere e regnare libera, bella e impavida, non forzata a subire le più indicibili torture rinchiusa in quello che non era più un castello incantato, ma una prigione stregata in cui a dominare era un mostro.

Ma non si trattava di un mostro qualsiasi: lui era il mostro dai mille volti, colui in grado di cambiare forma e faccia come e quando voleva. Era imprevedibile e...spietato.

Spietato come solo il male puro poteva essere.

La sua regina però lo rassicurava e lo confortava, sussurrandogli dolcemente che sarebbe stato il suo eterno cavaliere, la sua ancora di salvezza nei momenti più bui.

Che a salvarlo sarebbe stato solo e unicamente lui, nessun altro.

"Oh, mio piccolo grande eroe" gli diceva, racchiudendogli il visino tra le mani e guardandolo con quei suoi grandi occhioni verdi che gli ricordavano quei grandi campi inondati dal sole in cui si immaginava di correre e saltare, alla ricerca di un albero magico o una tana misteriosa.
"Non importa quello che mi accadrà. Tu sii forte, sogna e combatti" .
E a quel punto gli scoccava un tenero bacio sulla fronte.

Jules adorava quei baci perché lo facevano sentire protetto e al sicuro, lontano dalle paure e dagli incubi ma vicino all'amore di una madre che lui sapeva essere una guerriera ancor più valorosa di lui.

Lei sognava e combatteva anche se sconfitta. Cadeva e si rialzava e poi di nuovo ricadeva e si rialzava fino a quando le gambe non glielo permettevano più.

Ma, comunque, sognava e combatteva.

Jules ci provava, ma falliva in entrambi.

Se sognava, la sua mente veniva invasa dai mostri che lo deridevano e tormentavano, rubandogli e spegnendogli le stelle, poi gettate nel vuoto come se fossero nient'altro che spazzatura e non, invece, qualcosa di più importante.

Un dono. Un miracolo. Una speranza. Un desiderio. Una gioia.

Se combatteva, doveva rassegnarsi al fatto che sarebbe stato facilmente scaraventato via dall'altro lato della stanza con un calcio, costretto a strisciare con le ossa e i muscoli a pezzi per tornare indietro e infine agguantato per i capelli e scosso come se fosse un insetto sgradito da scacciar via.

E lui non riusciva a trattenere le lacrime dal dolore, con la testa che gli scoppiava e che gli sembrava potesse staccarsi dal suo corpicino, penzoloni tra le grandi e sporche mani del mostro che gli faceva venire la nausea a furia di strapazzarlo, tirarlo e sbatacchiarlo ovunque come una bambola di pezza.

Quello che sarebbe accaduto dopo se...se avesse osato urlare o pregare di finirla perchè faceva troppo male...

Se avesse osato chiedere di andare via perché avrebbe fatto il bravo e non lo avrebbe più affrontato..

Sarebbe stato rimandato nel Vuoto e avrebbe dormito per un po'.

Per un bel po'.

Ma Jules sapeva che il viaggio nel Vuoto non era un sonno normale: non ricordava quasi nulla di quando veniva messo a tacere; soltanto le suppliche strazianti della madre, lui che affogava tra le sue stesse lacrime e singhiozzi, la sua testa prima dolorante e pesante improvvisamente leggera, la fatica nel respirare, le sue ciocche di capelli scuri strette tra le mani del mostro.

Al suo risveglio nella Stanza, quelle stesse ciocche di capelli se le ritrovava sparse anche lui fra le sue manine e sui  suoi vestiti macchiati di rosso.

Intontito e confuso, si girava e rigirava, guardandosi intorno, cercando di capire dove fosse e di adattare i propri occhi al buio pesto che lo circondava, interrotto solo da flebili e sottili fasci di luce provenienti dall'unica finestra lì presente, nascosta da pannelli di legno.

Perché anche la luce lo odiava? Perchè scappava da lui?

Il Vuoto era strano e a volte ne era terrorizzato perché temeva di esserne risucchiato, un po' come un buco nero dello spazio: si chiedeva spesso per quanto tempo sarebbe rimasto lì da solo, sospeso nel nulla ed intrappolato in un luogo in cui persino il Sole aveva paura di giungere (o forse era tenuto prigioniero?) ma, allo stesso tempo, si sentiva in pace.

In quei momenti che parevano ora un'eternità ora uno schiocco di dita, infatti, si godeva quei brevi attimi di tranquillità, in cui riusciva veramente a provare quella serenità e spensieratezza che vedeva nei suoi compagni di scuola.

In quei momenti si sentiva un bambino vero e non più un bambino rotto, inutile, fragile come vetro e che a malapena riusciva a reggersi in piedi sulle sue stesse e maledette gambe, non solo dopo quegli episodi.

Jules c'era ormai abituato, eppure ogni volta le medesime emozioni angosciose e rivoltanti lo colpivano alla stessa maniera tutte le volte, se non in modo sempre più violento ed invasivo, come dei parassiti pronti a prosciugarlo di quei pochi frammenti di lui che lo tenevano in vita e lo spronavano a resistere giorno dopo giorno, mese dopo mese.

E da ottimo codardo, ad un certo punto si arrendeva.

Proprio quando questo accadeva, purtroppo, si ritrovava a pensare a cosa sarebbe successo se quel Vuoto, ad un certo punto, non gli avesse permesso di ritornare nella Stanza, alla presunta normalità. Si ritrovava a pensare ad un Vuoto che lo reclamasse e lo rendesse felice, perché era solo nel buio che lui trovava la propria ragione di esistere quando intorno tutto sembrava sgretolarsi come i suoi disegni, ogni volta ridotti ad un mare di coriandoli sulla sua testa o ad un mucchio di cenere nel fuoco.

Ma a riaccendergli un briciolo di coraggio erano proprio quei baci di sua madre, che lo osservava come se fosse la cosa più bella del mondo: come avrebbe mai potuto lasciarla da sola? E lui era davvero speciale? Lo sarebbe mai stato davvero?

Voleva solo essere un bambino normale, come tutti gli altri; ma era consapevole che non lo sarebbe mai stato perché i suoi compagni, le maestre e la gente lo guardavano come se fosse un estraneo, uno di quegli alieni che lui avrebbe tanto voluto conoscere una volta raggiunto quello spazio che, un giorno, sognava di poter esplorare.

Per Jules era veramente difficile incrociare gli sguardi altrui e detestava i loro volti, in cui non riusciva a riconoscere le loro vere emozioni o i loro reali pensieri: semplicemente lo guardavano per come volevano che lui apparisse loro.

Ognuno lo vedeva in maniera diversa.

Lui, invece, si vedeva sempre uguale, continuando a non capire cosa avesse di sbagliato.

Nonostante ciò, la gente tendeva a sottovalutarlo soltanto perché bambino: era vero, ancora aveva così tanto da scoprire e da imparare e il mondo, lì fuori, aspettava con ansia di poterlo accogliere e di aprirgli nuove porte ogni giorno, di volta in volta diverse ed invitanti ai suoi occhi, fatte di colori, suoni, emozioni e sensazioni.

Quanto desiderava esplorare il suo reame! E poi altre terre, continenti e persino lo spazio, la sua meta finale! Avrebbe conosciuto nuove persone, trovato degli amici (anche su dei nuovi pianeti!) e magari persino dei fedeli compagni cuccioli!

Ma in lui tutta questa meraviglia si riduceva ad un mero bianco e nero, un negativo di ciò di cui, in realtà, avrebbe dovuto far esperienza.

Le uniche sfumature che riusciva a cogliere erano quei piccoli dettagli a cui i suoi coetanei non prestavano quasi mai attenzione: gli sguardi rapidi e distaccati degli adulti, nei loro occhi preoccupazione e finta tranquillità non appena gli si rivolgevano; il leggero cambiamento nei loro toni di voce (spesso alle sue domande rimanevano senza parole, aprendo e chiudendo la bocca come i pesci dell'acquario della sua classe, per poi rifilargli qualche scusa o rassicurazione o risposta chiaramente realizzata per l'occasione) ; il loro corpo ora teso ora rilassato ora in stato di allerta; le loro mani frenetiche sempre alla ricerca di qualcosa da maneggiare oppure strette in solidi pugni; la loro pietà e i loro tocchi cauti e delicati, come se avessero paura di romperlo e fosse fin troppo fragile per essere lì fra di loro -un intruso; i loro volti che si sforzavano di trasmettere serenità e sicurezza (ampi sorrisi -tremanti, occhi dolci e grandi -un tantino più del normale, parevano scavarti l'anima fino in fondo- colti da rapidi guizzi tesi, proprio come gli angoli delle bocche. Lui notava, anche troppo) e i loro corpi conforto e protezione (ma le spalle erano spesso ricurve, chiuse in loro stesse come quelle di una chiocciola, oppure larghe, forti e autorevoli) nonostante fosse tutta una recita.
Una bugia.

E Jules odiava le bugie. Gliene appioppavano a iosa.

Infatti quel velo di finta delicatezza crollava e mostrava la vera natura dell'altro non appena il volto iniziava a raggrinzirsi (anche se preferiva definirlo come un foglio di carta accartocciato), le sopracciglia e la fronte ad aggrottarsi in modo burbero (proprio come gli orchi) e i denti a digrignarsi (come facevano i vampiri).

E poi il resto veniva da sé, come la reazione a catena che si scatenava quando buttava giù una tessera colorata per far cadere tutte le altre: la voce stridula, tonante e minacciosa, il calore che riusciva a percepire emanarsi, l'irrequietezza e la voglia di ridurre a pezzi ogni cosa, la perdita di controllo. Quindi, come un drago sputafuoco, si lanciava all'attacco su ogni cosa, su ogni tessera che lo intralciava e non rimaneva ferma al suo posto.

"Jules mio caro, mia dolce, piccola stella: sarai sempre e per sempre il mio porto sicuro, la stella polare che mi guiderà nel buio".

Ma era davvero così?

Le parole della madre furono come un fulmine a ciel sereno, riportandolo a quella realtà in cui avrebbe preferito non ritornare.

I singhiozzi cominciarono a scuotergli il petto e le lacrime a scorrere a fiotti sulle sue guance già arrossate al solo pensiero della madre che lo stringeva forte e lo cullava.

E Jules riusciva allora ad abbandonarsi al suo profumo, imprimendolo nella sua memoria e sul suo corpo: un profumo dolce come quello delle rose in piena fioritura e amaro come quello del sangue appena sbocciato dalle sue ferite, che le imbrattava la pelle, i nastri o i vestiti.

Ma poi si ricordò che doveva fare silenzio se non voleva subire la stessa sorte della sua regina.

Silenzio.

Stanza.

Silenzio.

Silenzio.

Vuoto.

Invano iniziò a tapparsi la bocca così forte dalla paura di poter essere sentito, beccato e catturato. Le nocche sbiancarono mentre piangeva, piangeva e piangeva ancora, tentando di tutto pur di non lasciar trapelare alcun suono.

Affogando nelle sue stesse lacrime, chiuse gli occhi e pregò che non lo udissero neanche le ombre, momentaneamente distratte dalla battaglia che infuriava al di fuori della Stanza e di cui riusciva ancora a percepire le urla, i suoni smorzati e i passi ora pesanti ora veloci rimbombargli nelle orecchie e nella testa.

I rumori di un mondo in frantumi, proprio come lui.

Rumori che non se ne sarebbero mai andati via.

Doveva fare silenzio ed essere muto, sordo e cieco se non voleva che gli scagnozzi del mostro lo venissero a prendere, portandolo via e intrappolandolo in chissà quale altro incubo.

Poteva esistere qualcosa peggio di quello che stava passando?

Non avrebbe mai dovuto osare dire ad anima viva quello che accadeva in quella casa.

In quella prigione.

"Insieme troveremo la strada che ci condurrà via da qui. Insieme troveremo un modo per tornare a casa e raggiungere le stelle. E tu, mio prode cavaliere stellare, hai già salvato me e iniziato il cammino verso il nostro reame felice. Qualsiasi cosa accada durante la nostra avventura, io ti proteggerò sempre, fino alla fine dei miei giorni. Te lo prometto".

E quegli ultimi baci che lei gli donava lì, accoccolata con lui nella Stanza prima che l'uno o l'altro o entrambi svanissero nel Vuoto, accompagnati dal sentore acre del fumo, più che di promessa sapevano di addio.

Eppure, nonostante tutto, quella promessa era come un'ancora, l'unica a cui credeva veramente e alla quale si sarebbe sempre aggrappato: la sua mamma non gli avrebbe mai potuto mentire, no?

I cavalieri -quelli veri- si sarebbero, però, comunque gettati nel rischio e avrebbero tentato di tutto pur di salvare la persona che amavano.

Ma Jules, ovviamente, era soltanto un bambino falso e bugiardo, un bambino cattivo che pretendeva il mondo senza neanche provare a conquistarlo e il cui compito sarebbe sempre stato quello di rimanere ai margini della storia, in silenzio, nascosto in quell'incubo di Stanza e in quell'altrettanta stupida e falsa fortezza.

Avrebbe dovuto condurre lì la sua regina, ma sarebbe stata al sicuro in quel luogo?

Lei meritava il meglio di quella vita, ma forse Jules no.

A lui spettava una vita del genere perchè sicuramente si era comportato male ed era colpa sua se la sua famiglia si era ridotta ad un cumulo di sogni infranti.
Ad un fallimento.

Jules era un fallimento.

Altrimenti perché punire la mamma se era così buona e gentile con tutti, sempre pronta ad esaudire ogni suo desiderio e quelli del patrigno senza batter ciglio?

In genere nelle favole si parlava di una matrigna cattiva, invidiosa e gelosa, il cui unico obiettivo consisteva nell' eliminare ogni ostacolo dai suoi piedi. Eppure nella sua, di storia, era presente un patrigno che si lanciava immediatamente su di loro, senza badare a quante e quali parole uscivano dalla sua bocca o a pugni e bacchettate, togliendoli di mezzo in pochissimo tempo.

Quante volte Jules aveva tentato disperatamente di frapporsi fra il patrigno -il mostro cattivo- e la madre ma, puntualmente, si vedeva il mondo vorticare come se fosse su una giostra e si risvegliava dal Vuoto, tutto ammaccato, nella Stanza, assieme alla sua volpina, anche lei ferita in diversi punti e senza più imbottitura e cuciture intatte.

Strappata e spezzata come se non valesse niente.

Per Jules, però, valeva più di ogni altra cosa al mondo.

In questo momento la sua piccola Lily se ne stava appollaiata dinanzi a lui e, nonostante il buio, sapeva che in realtà probabilmente anche lei stava soffrendo e che, se avesse potuto, avrebbe pianto per i suoi arti flosci che non le avrebbero consentito di correre libera, per le sue orecchie penzoloni e scucite e per la sua coda quasi del tutto staccata dal resto del corpo (non avrebbe quindi potuto avvolgerla attorno alle caviglie o ai polsi di Jules).

E probabilmente era altrettanto vero che lei lo stava giudicando con i suoi occhioni tondi e scuri, ma comunque attendendo insieme al suo padroncino la fine di quell'interminabile battaglia.

Lily, nonostante ne avesse trascorse di belle e di brutte come lui, aveva combattuto e aveva resistito, riportando le sue numerose toppe come cicatrici di vittoria. Persino un peluche rotto era stato più coraggioso di lui.

Non sapeva precisamente neanche quanto tempo fosse passato da quando il mostro gli aveva ordinato di farsi da parte, chiudendo a chiave la porta e minacciandolo di non fare rumore. Ricordava solo il suo sguardo feroce mentre lo spingeva via e poi si scagliava sulla donna che avrebbe dovuto amare infinitamente ma che, in realtà, forse odiava così tanto nel profondo del suo cuore. E Jules non sapeva neanche il perché.

Ancora una volta era successo tutto così per caso: semplicemente il mostro si agitava, stringeva i pugni, strabuzzava gli occhi e si scatenava su di loro e su ogni oggetto, distruggendoli come se fosse un tornado.

Bum.

Bum.

Crash.

Poi, silenzio.

Fu solo allora che Jules si concesse finalmente di respirare e di tossire, cercando di calmare il proprio respiro affannoso, la testa che gli girava e il corpo tremante come quello di una foglia.

Era quello il silenzio che presagiva la fine.

E lui sapeva già chi ne era uscito vincitore.

Strisciò a fatica fuori dalla fortezza, gattonando e stringendo in una manina la volpina piena di polvere, per poi fermarsi al centro della stanza, proprio fra quei sottili raggi luminosi. Aprì e chiuse numerose volte le palpebre per adattarsi alla flebile luce e il tanfo del fumo e del vomito stantio lo colpì come una ventata d'aria che avrebbe potuto stanarlo seduta stante.

Non appena sentì quei passi avvicinarsi sempre di più verso la Stanza, la sua mente cancellò ogni sensazione, ogni odore ed ogni rumore che prima la occupavano, isolandosi mentre il cuore gli piombò nel Vuoto.

Jules si immobilizzò, asciugandosi in fretta gli occhi e stringendo Lily come se ne andasse della sua stessa vita, mentre lui girava la toppa della porta e si mostrava nella sua imponente statura, simile a quella di un gigante.

Fece in tempo solo a notare il sorriso maligno che gli distorceva il volto spigoloso e gli occhi iniettati di sangue prima che iniziasse a parlare con la sua voce tonante e profonda, ma affaticata. Sembrava fosse ritornato da un'intensa giornata di lavoro.

Eppure l'unico lavoro che lo aveva stancato a tal punto era stato riempire di botte...lei.

La mamma di Jules.

La sua regina.

L'improvvisa ondata di luce lo spinse a coprirsi il volto e sudori freddi lo invasero mentre il suo corpo diveniva leggero...troppo leggero.

"Sei stato un bravissimo bambino oggi, Julian".
Gli veniva da vomitare. Non credeva di farcela.

Non poteva farcela.

Quel suo tono fasullo voleva fargli credere che era tutto a posto. In ordine.

Che...che era stato bravo -anzi, bravissimo- e che...che...

Scappa. Scappa. Scappa. Scappa.

La sua testa gli urlava di correre via, di mettersi in salvo, di non ascoltarlo mentre si avvicinava, piano, e con una mano rugosa e umidiccia gli carezzava il volto e gli scompigliava i ricci.

Una sensazione più forte della paura lo travolse come un fiume in piena e lo ridusse ad un esserino imbambolato, con la bocca spalancata, rigido come un tronco d'albero e freddo come l'uomo in ginocchio dinanzi a lui. Non riusciva a darle un nome ma...lo spense.

Semplicemente, il suo cervello smise di funzionare e di ragionare per conto proprio.

I respiri gli riuscivano sbagliati, corti e frettolosi, e il mostro rise.

Un suono cavernoso, gutturale, che gli fece accapponare la pelle.

Il mostro spostò gli occhi da lui, alla volpe e poi infine alla stanza.

Stava cercando qualcosa? Voleva fargli qualcosa? Aveva detto una bugia? In realtà lui non era stato bravo e quindi si meritava un'altra punizione?

Il tempo parve congelarsi e quel silenzio per cui prima Jules tanto pregava divenne così pesante da essere insopportabile. Stavolta, sperò che qualche altro suono che non fosse quella voce potesse romperlo e salvarlo da quella morsa che gli opprimeva il collo e il petto e non gli consentiva di respirare.

"Stai tranquillo, Julian" continuò lui, sorridendo e dandogli delle pacche sulla spalla.

Odiava essere chiamato Julian e lui lo sapeva, per questo rimarcava sempre il suo nome con un tono canzonatorio. Lo prendeva in giro e assaporava il suo terrore come un pasto prelibato.

Il suo nome in bocca a quel mostro gli faceva venire la nausea, a tal punto da vomitare. A maggior ragione se accompagnato dal suo enorme petto che si alzava e abbassava a scatti, come se fosse affamato di aria (e forse non solo), e dal suo alito che sapeva di rancido.
Di morte.

Julian era un oggetto, ciò che il mostro dai mille volti -e dal cuore di pietra- desiderava che fosse.
Era pronto all'uso.
Era pronto al rigetto.
Julian rappresentava la facciata, ciò che la gente vedeva con superficialità basandosi sulle proprie comodità, senza mai indagare fino in fondo e andare oltre il Julian in cui tutti riflettevano immagini e idee che non gli appartenevano.

Jules si strinse forte la maglietta e si picchiò le gambe, il petto e il volto sia per mandarlo via sia per cercare di rimanere sveglio e vigile e di non cadere nel Vuoto.

"Ehi, ehi, ehi piccoletto. Non vorrai mica farmi arrabbiare proprio adesso?"
Serrò i denti e la sua mano si diresse verso la testa del figliastro.
Strinse appena, ma bastò ad ammonirlo e ad invitarlo a non essere testardo.

Ora che la stanza era illuminata si sforzò di guardare in faccia il suo nemico e incrociare i suoi occhi glaciali, cattivi. I suoi capelli corti, che diverso tempo prima aveva paragonato al cioccolato fondente che tanto amava, erano scompigliati e spezzati qua e là.

Jules riusciva a percepire un misto di calma e tensione attraversare il corpo del suo patrigno come saette: quasi poteva vedere le scintille sprizzare dovunque, pronte a fulminarlo con un colpo secco.

Si fermò solo per non disubbidirlo e finire appeso a un muro e per non far del male anche a Lily, che stava strizzando come una pezza.

Respirò, piano. Poi di nuovo. E ancora e ancora.

Sapeva che, se avesse guardato le sue mani e i suoi abiti, vi avrebbe ritrovato macchie e sangue e cocci e strappi e ancora ferite.

Perciò, pur di stabilizzarsi e non pensare a....

Respira respira respira respira respira respira.

"Bravo bambino, così si fa" si congratulò lui, catturandogli poi il mento fra due dita e non permettendogli di spostare lo sguardo altrove.

Lui doveva essere il centro del suo mondo, nessun altro.

E Jules non aveva neanche la minima intenzione di dirigere la propria attenzione altrove.
Doveva sopportare e resistere.

Il mostro non fece neanche caso a quanto lui stesse male, a tal punto da scoppiare e sgretolarsi esattamente lì fra le sue mani, ma lo condusse fuori dalla Stanza, in un corridoio che non era più tale, tutto a soqquadro com'era.

Jules non pensò a niente e a nessuno mentre lo guidava verso la camera da letto dei suoi genitori, con le orecchie ovattate che continuavano a ronzare, le gambe storte e molli e il campo visivo occupato da puntini bianchi e neri. Erano venuti a prenderlo i mostriciattoli del Vuoto.

Colse di sfuggita le foto di famiglia fatte a pezzi, le cornici completamente distrutte, le rose preferite della madre distese a terra -morte; tanti, tanti cocci e tanto, tanto rosso sparso dovunque posasse lo sguardo.

Rosso che imbrattava anche le sue mani, le zampine della sua volpe e quelle del mostro che lo teneva per mano.
Anzi, gliela stritolava.
Lasciami lasciami lasciami lasciami lasciami.
Ma, così esausto e sul punto di crollare, non fu neanche in grado di provare dolore.
Lo fece fermare dinanzi la porta (sulla quale colava un qualche liquido ambrato dall'odore pungente) e disse, raggiante e orgoglioso di tutto ciò che aveva compiuto: "Ora ti meriti un premio, mio caro piccolo Julian. Questo perché sei stato in silenzio e ti sei comportato esattamente come ti avevo ordinato. Tu sì che sei un bambino obbediente, non come tua madre".

Se prima Jules credeva di non farcela, ora ne era propriamente convinto.

Lasciò che il terrore prendesse il possesso del suo corpo, ma non si concesse di cedere. Non poteva. Non ancora.

Altrimenti...

Lasciatolo in piedi tutto tremante e chiuso in se stesso, spalancò la porta con un braccio possente.

L'unica cosa su cui riuscì a concentrarsi fu la madre, accasciata a una parete e imbrattata di quello stesso rosso sui lati della testa, sulle gambe e sul petto; era livida e sudata, con i capelli lunghi e scuri incollati al volto pallido come quello di un fantasma.

Anche lei respirava a fatica, ma non tremava. O almeno non più.

Non appena Jules entrò e spalancò gli occhi dalla paura, appannati ora anche da accenni di lacrime che faticava a trattenere, lei sorrise, piano.

Quando Jules era con lei, non aveva mai paura.

E non ne ebbe neanche quando il mostro si rivolse al piccolo cavaliere e gli porse con tranquillità il collo frastagliato di una bottiglia, facendola ondeggiare dinanzi al suo volto. Poi, la usò per indicare la donna stremata, ansimante e ricoperta di ferite; immobile nei suoi vestiti sbrindellati.

Lei chiuse gli occhi e non pronunciò alcuna parola, ma Jules si sentì morire al proferire di quelle parole, di quell'ordine che lo lasciò senza fiato.

Lo disse semplicemente così, come se gli stesse chiedendo di andare a comprare delle caramelle.

Lily cadde.

E così lui.

"Ora tocca a te".

. *. Angolo autrice . *.

Salve a tutti avventurieri! Come state? Spero che questo capitolo vi sia piaciuto!
Finalmente vi ho presentato il protagonista principale, con la sua regina e il mostro cattivo🥹.
Ammetto che per me non è stato semplice scriverlo e pensare a Jules, costretto a subire di tutto e di più...mi ha profondamente scossa💔.
Ne vedremo di ogni, purtroppo :⁠,⁠-⁠)
Fatemi sapere cosa ne pensate e, se vi va, lasciatemi una stellina!🌟
Spero che la storia vi stia piacendo ed incuriosendo! Alla prossima!🌟💫

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