41.
And so it is, just like you said it would be
Life goes easy on me most of the time
And so it is, the shortest story
No love, no glory, No hero in her skies
I can't take my eyes off of you
-The blower's daughter, Damien Rice
«E quindi vi sposate... Sì, insomma, siete giovani. Non hai la nostra età?»
Eravamo in treno. La notte precedente avevo ceduto il mio letto a Joanna e io avevo dormito sul divano. No, in realtà avevo fatto di tutto tranne dormire. Mi ero girato e rigirato; mi ero tirato i capelli; avevo pianto; avevo dipinto un po' e avevo soffocato qualche urlo nel cuscino.
Non avevamo parlato molto fuori dal Dark Academy, perché mi ero reso conto che faticavo a reggermi sulle ginocchia, e anche a respirare, e non volevo che lei capisse qualcosa.
A quanto pareva, Tiziano le aveva detto che eravamo come fratelli, non volevo che vedesse il dolore che mi stava vagando nel corpo. Avevo preso la scusa che ero stanco morto, l'avevo portata a casa perché erano quasi le due di notte e ci eravamo messi d'accordo per partire in mattinata.
E ora eravamo lì, con lei che sorrideva pensando a quanto sarebbe stato felice Tiziano di rivedermi, e io che non sapevo neanche cosa avrei potuto dirgli non appena l'avrei incontrato.
«In Polonia non è come in Italia».
«Non si sente che sei straniera».
«Perché sono nata qua, ma i miei sono polacchi e portano avanti tradizioni polacche».
«E Tiziano? Lui non è polacco, non sapevo si volesse sposare così giovane».
Lei sorrise.
«Un po' è stato influenzato da suo padre... Gli ha detto che se si sposava, poteva tornare a vivere nella sua città natale, e a quanto pare lui ci tiene molto. Tu sai perché se n'è dovuto andare? Non me l'ha mai voluto dire».
«Non credo che allora spetti a me parlarne».
«Giusto. Sei bello come ti ha descritto, lo sai?»
Un vuoto allo stomaco.
«Che cosa ti ha detto di noi?»
Un altro sorriso mentre guardava fuori dal finestrino, poi si concentrò su di me.
«La vostra amicizia è leggenda, ormai. Tiziano parla sempre di quella volta che vi sono cadute dieci confezioni di uova al supermercato, e le avete infilate sotto agli scaffali coi piedi. Oppure di quando vi ha seguito la polizia, e voi pur di non farvi beccare vi siete infilati col motorino nel fosso e ne siete usciti completamente sporchi di fango. Ci ha raccontato anche di come ci siete sempre stati uno per l'altro, di quanto è importante la vostra amicizia e di come gli sei mancato in questi anni. E poi parlava sempre dei tuoi disegni, di quanto erano belli e di quanto gli piacesse guardarti mentre li facevi».
Ah, sì, i miei disegni... L'ultima volta che avevo disegnato in sua presenza era stato a Barcellona, dopo essere tornati dal museo di Picasso. Eravamo passati per una viuzza deliziosa, e quando aveva visto che mi ero incantato a guardare uno scorcio in particolare, si era seduto a terra e aveva detto che potevamo fermarci per un po', se mi andava, e che potevo tirare fuori album e carboncino.
Come sai che li ho portati, gli avevo chiesto.
Perché io sono te, aveva risposto.
E allora mi ero seduto accanto a lui e avevo iniziato a disegnare, ogni tanto spostavo lo sguardo su di lui e mi sorrideva.
Era rimasto lì a terra con me per quasi tre ore e non mi aveva mai tolto gli occhi di dosso.
Mai, nemmeno un secondo.
«Sarà felicissimo di rivederti. Per me gli prende un colpo».
«Già... Voi due come... Da quanto vi conoscete?»
Vidi i suoi occhi illuminarsi e immaginai che anche i miei facessero così, quando parlavo di lui o lo pensavo.
Tiziano era impossibile da non amare.
«Circa due anni fa, quando lui è venuto nella casa famiglia con noi».
«Nella casa famiglia?»
«Sì, io lavoro per un'associazione che ne gestisce diverse. Faccio ripetizione ai ragazzi, insegno matematica e inglese per qualche ora alla settimana, sto ancora frequentando l'università».
«E lui?»
«Lui è... fantastico. I nostri ragazzi non hanno avuto vite facili, diciamo, e hanno quasi tutti bisogno di sfogare un po' la rabbia repressa. Tiziano gli fa corsi di boxe, fit-boxe e altre robe che li liberano da tutte quelle cose che devono affrontare giornalmente».
«Te l'ha fatta lui la proposta?»
Joanna rise.
«Figurati! È troppo timido. Siamo usciti insieme per quasi un anno, i nostri genitori si conoscono perché mio padre è il direttore della banca in cui lavora il suo, quindi spingevano parecchio per questa unione. Un giorno gli ho parlato e ho detto: se è una cosa che abbiamo intenzione di fare, tanto vale farla ora che siamo giovani! E lui era d'accordo».
Tiziano timido? E da quando? Ma non riuscii a rimanere molto su quel pensiero, perché lei ricominciò a parlare.
«Credo che abbia vissuto qualcosa di traumatico, anche se non mi ha mai voluto raccontare niente... Ma sai, quando sei abituata a lavorare con ragazzi problematici, ti accorgi se nello sguardo di qualcuno c'è qualcosa che non va. Credo di essere stata un po' la sua ancora di salvezza, in qualche modo. Tiziano si è aggrappato a me per poter avere una vita... normale, forse».
Era sicuramente così.
Ero stato io la sua ancora per tutta la vita, ma la normalità... Quella non avevo mai potuto dargliela.
E lui si era aggrappato a qualcun altro.
«Quando vi sposate?»
«Tra pochissimo! Il cinque gennaio».
Il cinque gennaio.
Mancavano sei giorni.
«Oggi è il suo compleanno, lo sai? Cioè, so che lo sai, ma te lo ricordavi?»
Me lo ricordavo, sì, perché ne avevamo passati venti di compleanni insieme. Durante l'ultimo mi aveva chiesto di sposarlo, e per questo era promesso sposo a un'altra persona.
Una che suo padre avrebbe approvato, che non avrebbe trascinato in un vecchio magazzino per pestare a sangue.
Una donna.
«Me lo ricordavo, sì».
«Già, è vero che il tuo è domani. Direi che ho fatto un bellissimo regalo a tutti e due allora, no?»
«Bellissimo».
Lei annuì, sorridente e soddisfatta, poi riprese a guardare il paesaggio che scorreva troppo veloce per potersi focalizzare su una cosa sola.
Mi sentivo così anch'io: le cose erano successe troppo in fretta e avevo fatto fatica a mettere a fuoco le mie sensazioni, quello che provavo.
Arrivammo a Trento dopo non so quante ore. Qualcuna l'avevamo passata chiacchierando, altre sonnecchiando. Il treno si fermò e noi scendemmo, lei con gli occhi entusiasti e io con la morte nel cuore.
Mi sentivo male; l'idea che da lì a poco avrei rivisto Tiziano mi stava facendo rivoltare lo stomaco.
Fui costretto ad aggrapparmi ad uno dei bidoni presenti sulla banchina ferroviaria per rimettere, sapevo che non avrei fatto in tempo ad arrivare ai bagni.
Joanna mi chiese se avessi qualche problema.
«No, tranquilla, sarà stato il treno», mi misi in bocca qualche mentina e sorrisi.
Dalla stazione camminammo per nemmeno cinque minuti e arrivammo a una fermata dell'autobus, che arrivò praticamente subito.
«Quindi stiamo andando alla casa famiglia dove lavorate voi?»
«No. Tiziano al mattino non lavora, è quasi sempre al parchetto che c'è vicino a casa nostra».
Casa nostra.
Casa loro.
Di Tiziano e Joanna.
«E cosa fa?»
«Niente, gioca a basket o a calcetto con gli altri ragazzi della zona, fanno skateboard... Cose così».
Tizio in skateboard non l'avrei mai immaginato.
Spinse il bottone che prenotava la fermata e il cuore cominciò a battere all'impazzata; eppure fino a qualche secondo prima avrei detto che fosse morto.
Scendemmo e lei mi raccontò di quella gelateria là, quella col cono gigante fuori, che era dei suoi zii e aveva le granite più buone di tutto il paese; e anche di quella chiesa lì, dove si erano sposati i suoi genitori e dove avrebbe voluto sposarsi anche lei, ma ormai aveva accettato di farlo nella città di Tiziano.
Poi mi fece vedere da lontano l'edificio in cui c'era il negozio dove aveva comprato il suo abito da sposa.
Era bellissimo, aveva detto, con le maniche in pizzo e la schiena un po' scoperta; la gonna semplice, perché a lei non piacevano quelle troppo pompate.
Il verde del parco mi piombò davanti all'improvviso e io non ero pronto.
Avrei preferito sentirla sciorinare qualche altro dettaglio sul loro fantastico matrimonio, piuttosto che rivedere Tiziano.
Prendemmo il sentierino asfaltato che si inoltrava tra gli alberi e là, in quel mucchio di gente, i miei occhi vennero calamitati dalla sua figura.
Mi mancò il respiro.
Era incredibile come, anche in mezzo a venti persone, io fossi riuscito ad accorgermi subito di lui.
«Okay, tu aspetta qui dietro a questo cespuglio. Io vado a chiamarlo e lo porto qui dicendogli che ho una sorpresa, d'accordo?»
«Sì».
Mi sorrise e se ne andò.
Non ricordo bene se sia riuscito a respirare in quei secondi, non sono certo nemmeno che il mio cuore abbia continuato a battere.
Mi pareva di essere sospeso, di guardarmi da un'altra prospettiva, come se fossi al cinema e non il protagonista della mia stessa vita.
Insomma, non potevo essere io quello lì, fermo col cuore in apnea, che aspettava l'amore della sua vita per fargli una sorpresa nel giorno del suo compleanno e congratularsi per il suo imminente matrimonio.
Non ero io.
Non eravamo noi.
Non io e Tiziano, che ci meritavamo qualcosa che fosse insieme, com'era sempre stato.
E invece Joanna arrivò, le mani sugli occhi di Tizio che sorrideva e camminava incerto, e io sentii qualcuno mordermi la carne da dentro.
Oh, sì, era proprio lì, l'amore della mia vita.
Eccolo.
Rividi quegli occhi di mare dopo due anni e ci affogai di nuovo dentro senza la minima intenzione di volermi salvare, ché se dovevo morire, era proprio nei suoi occhi che avrei voluto farlo.
Tiziano spalancò i suoi, ora appannati di lacrime, e la bocca gli si schiuse appena, iniziando a tremare in maniera impercettibile per chiunque, tranne che per me.
Io ero quasi impazzito; le mani mi formicolavano, le stavo passando e ripassando sui jeans nella speranza di alleviare quel pizzicore che mi spingeva a toccarlo.
Non avrei dovuto, forse, davanti a lei.
Le gambe faticavano a stare ferme, sembravano improvvisamente essere fatte di gelatina e il petto era... tutto. Il petto era tutto: male e bene, dolore e amore, rabbia e sollievo.
Tutto lì, dentro di me, a fare a botte come su un ring.
Tizio mi afferrò per la manica del giubbotto e mi attirò a sé, e io scoppiai a piangere nell'incavo del suo collo come un bambino.
Mi strinse così forte che per un attimo temetti di spezzarmi, poi pensai che se non mi aveva spezzato la sua assenza, di certo non avrebbe mai potuto farlo la sua presenza.
Mi aggrappai a lui, con quelle mani che avevano sentito la sua mancanza e quel cuore ridotto un po' così.
Mi staccò poco dopo e appoggiò la fronte alla mia, gli occhi chiusi e il respiro tremante.
«Mi dispiace», disse solo.
«Anche a me».
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