39.
And I am short on words
Knowing what's occurred
She beings to leave because of me
Her bag is now much heavier
I wish that I could carry her
-Ungodly hour, The Fray
«Hai qualche novità?»
Sentii un sospiro dall'altra parte del telefono; non era un buon segno. Rimasi zitto, perché tanto quel silenzio rassegnato e mortificato era stata la risposta degli ultimi mesi, ormai c'era abituato.
«Mi dispiace».
«Non è colpa tua, Dile, lo sai».
Anzi, a dirla tutta lei era stata un angelo. Non solo aveva provato a cercare informazioni da tutti quelli che conoscevano Tiziano, ma addirittura aveva chiesto di essere trasferita dalla banca nella quale lavorava a quella in cui aveva sempre lavorato Alberto, nella speranza di farci amicizia e scucirgli qualcosa.
Ovviamente non aveva funzionato, ogni volta che Diletta provava ad agganciarsi al discorso con qualche scusa, lui lo sviava e parlava d'altro.
Io brancolavo nel buio da quasi un anno, non sapevo come contattarlo né come avere sue notizie.
Mi sarebbe bastato sapere che stava bene, che era felice.
Giuro, se avessi saputo che si era rifatto una vita, che era andato avanti e non mi pensava più, ma era contento, io avrei smesso di cercarlo.
Invece era quasi finito l'anno e io ancora postavo sui gruppi chiusi di Facebook la sua foto per chiedere notizie.
Tiziano aveva cambiato numero di telefono ed era sparito da ogni social, lasciandomi nella disperazione.
«E se non fosse in Italia? Se suo padre lo avesse spedito in Germania o in Svizzera?», mi chiese.
«Perché proprio Germania e Svizzera?»
«Ma che ne so, tu dici sempre che è un pazzo».
Sorrisi.
Ogni volta che ci sentivamo, Diletta provava a tirarmi su il morale con una qualche battuta.
Aveva anche proposto di venirmi a trovare con Nicolò, una volta, e ovviamente avevo rifiutato.
Non era certo di un passatempo che avevo bisogno.
«E se non dovesse tornare mai più?»
Ancora silenzio.
Era un'ipotesi che avevo contemplato spesso. Anche in ospedale, il giorno dopo che Tiziano se n'era andato, questo pensiero aveva fatto capolino nella mia testa ed era rimasto lì, fisso, come una fiammella in una stanza buia, impossibile da ignorare.
Stavo pensando e ripensando a come cercarlo quando la grandezza della cosa mi si era presentata davanti, forte, potente, enorme.
Io non avevo idea del punto da cui partire.
Non sapevo se lo avesse mandato al nord, al sud o al centro, se fosse vicino o lontano da casa, in Lombardia o in Sicilia, in Sardegna o in Piemonte.
Un'intera penisola da controllare era decisamente fuori dalla mia portata.
E mentre pensavo a quello, un infermiere dall'accento straniero era venuto a controllarmi la pressione, si era messo a chiacchierare dicendo che il giorno dopo sarebbe partito per tornane a casa, in Bosnia, a non so quante ore di macchina da dove eravamo noi.
Mi era preso il panico: avevo iniziato a faticare con la respirazione, mi girava la testa e mi sembrava che la stanza si stesse stringendo attorno a me, soffocandomi.
L'infermiere mi aveva scambiato per un razzista che non voleva avere a che fare con lui.
Da quel giorno avevo iniziato a pensare a questa eventualità, e mi dicevo che se l'Italia era fuori dalla mia portata, col mondo intero avevo già perso in partenza e che quindi non l'avrei mai più rivisto, non sarebbe mai più tornato.
I primi mesi avevo cercato di mantenere un'attitudine positiva, mi dicevo che in qualche maniera avrebbe trovato il modo di mettersi in contatto con me, nel caso non fossi riuscito a trovarlo io, ma più passavano i giorni, più questo pensiero diventava debole dentro di me.
E poi mi ricordavo le sue parole, in ospedale, subito dopo il pestaggio: ci rimarresti se tuo padre minacciasse di uccidermi?
Come avrebbe potuto contattarmi, sapendo che mi avrebbe messo in pericolo?
«Dome, non essere così negativo. Certo che tornerà! Suo padre prima o poi mollerà la presa, oppure lui deciderà di non volergli più obbedire e lui tornerà».
Volevo credergli, davvero, ma non volevo illudermi.
Chiacchierammo un altro po' cercando di cambiare discorso e poi ci salutammo, a breve avrei iniziato il mio turno al bar e dovevo andare a prepararmi.
Almeno per quelle ore, il pensiero di Tiziano non sarebbe stato l'unico presente nella mia testa.
Avevo chiesto a Beppe di aumentare le mie ore al Dark Academy e per fortuna mi aveva accontentato.
D'altra parte Sofia, la mia collega, si era appena fidanzata e non vedeva l'ora di diminuirle per poter passare più tempo col suo amore.
La invidiavo tantissimo.
Il suo ragazzo veniva a prenderla quasi tutte le sere, l'aspettava seduto al banco e la guardava lavorare per gli ultimi dieci minuti, poi tornavano a casa insieme, mano nella mano, gli occhi felici e i sorrisi sul volto.
Erano bellissimi.
Un tempo anche io e Tiziano eravamo stati così, ma non ci aveva visto nessuno.
È che noi siamo stati come quei fuochi d'artificio in cui prima vedi la luce, e poi senti l'esplosione. Splendidi nel cielo nero, ma la botta l'abbiamo fatta dopo, e quando tutti si sono voltati a guardarci, noi eravamo già stati.
Eravamo passato già nel presente, troppo occupati a non essere visti, non essere capiti, non essere e basta.
Non come Sofia e il suo ragazzo, che erano felici e non avevano paura di farlo vedere a tutti, ché lo sa chiunque che della felicità non c'è mai da vergognarsi.
In quei mesi ero arrivato alla conclusione che nemmeno la tristezza fosse un sentimento da nascondere, e avevo smesso di fingere che andasse sempre tutto bene.
Indossai la mia divisa e salutai i miei colleghi, presi le prime ordinazioni e iniziai a fare i cocktail.
Era il pomeriggio del trentuno dicembre ed ero stato catatonico per tutta la giornata.
Era la prima volta in cui non facevo gli auguri a Tiziano.
L'anno precedente, quello stesso pomeriggio l'avevamo passato a fare l'amore in un letto a Barcellona, le prime ore da coppia sposata.
Guardai il mio anello, ancora al suo posto all'anulare sinistro e trattenni un singhiozzo.
«Forse ci siamo!»
La voce di Micheal arrivò in tarda serata come un fulmine a ciel sereno.
Lo guardai sgranando gli occhi, il cuore che aveva preso a martellare impazzito nel petto.
Avere dei coinquilini che venivano da regioni diverse si era rivelato utile: Micheal e suo fratello erano originari della Campania, avevano un sacco di amici e parenti e aveva fatto girare la foto di Tiziano praticamente in tutte le province.
«Cos'hai trovato?»
«C'è un cugino, che in realtà sarebbe il figlio della compagna dello zio del compagno della sorella-»
«Micheal!»
«Sì, scusami. Questo cugino abita da qualche anno a Bergamo, quindi ce lo eravamo scordato, ma ieri ha mandato un messaggio a Marcello per chiedere se stavamo tutti bene, quindi dopo qualche chiacchiera mio fratello gli ha mandato la foto di Tiziano, e lui dice di averlo visto la settimana scorsa nel bar in cui fa colazione di solito».
Si era riaccesa, potevo sentirla mentre mi scaldava il petto.
Era la speranza, trasformata in un piccolo barlume che sembrava illuminare tutto il mondo, tanto era potente.
Andai oltre il bancone e strinsi il mio amico in un abbraccio, poi mi avviai verso l'ufficio di Beppe.
«Ho bisogno di una settimana di ferie prima che ricominci l'università».
«Quindi da domani?»
«Sì, se fosse possibile».
Beppe sospirò.
Lavoravo per lui da due anni e non gli avevo mai dato problemi, anzi! Ero sempre disponibile a coprire i turni dei miei colleghi quando qualcuno stava male o aveva un imprevisto, e avevo accettato di lasciare il vecchio bar per il Dark Academy, non poteva davvero lamentarsi di nulla a livello lavorativo.
«Me prometti che quanno torni te togli 'sta faccia appesa che pare che t'hanno ammazzato er gatto, er cane e tutta la vecchia fattoria?»
Sorrisi di cuore.
«Prometto che ci proverò», e spero di avere un buon motivo per riuscirsi, pensai.
Lui mi congedò con un gesto della mano che mi invitava a tornare a servire i clienti.
Tornai dal mio coinquilino e gli offrii un cocktail.
«Parto domattina. Ce la fai a farti mandare l'indirizzo del bar da questo tuo cugino?»
«Certo».
«Grazie, davvero».
Mi sorrise e andò nella saletta con qualche suo amico.
L'arrivo della mezzanotte non mi aveva mai lasciato così indifferente come quell'anno, ma almeno vedevo un barlume di luce in fondo al tunnel.
Il giorno dopo, il primo compleanno senza gli auguri di Tiziano, ero a Bergamo.
Avevo dormito poco e male ed ero partito la mattina presto, ero tornato da mio padre in treno e gli avevo chiesto di prestarmi la macchina per qualche giorno, poi avevo guidato per quasi quattro ore e avevo cercato un Bed & Breakfast dove poter alloggiare, avevo appoggiato il borsone in camera e mi ero piazzato al famoso bar.
Ero in costante contatto con Micheal, che era in costante contatto con suo cugino.
Cazzo, sembravamo una di quelle squadre di spionaggio che si vedono nei telefilm americani.
Passò un giorno, poi due e tre.
Al quarto, quando stavo per perdere le speranze, Micheal mi telefonò per dirmi che suo cugino aveva visto di nuovo Tiziano, che dovevo sbrigarmi se volevo beccarlo, che stava facendo spesa al supermercato a qualche chilometro da lì.
Corsi alla macchina, parcheggiata a due vie di distanza e avviai il navigatore partendo a tutta velocità. Arrivai nel luogo indicato da Micheal nel giro di cinque minuti, scesi e andai verso l'entrata marciando svelto, poi la sua figura attirò la mia attenzione.
Era seduto su un muretto, la testa bassa mentre spulciava il telefono in cerca di chissà cosa, i capelli castani che gli coprivano gli occhi, proprio come quando mi aveva detto che sarebbe partito, che se ne sarebbe andato.
Il cuore non mi batteva veloce, non avevo il respiro accelerato, non sorridevo.
Rimasi fermo a guardarlo come se non fosse Tiziano quello davanti ai miei occhi, e quando tirò su la testa, probabilmente sentendosi osservato, un macigno mi si appoggiò sul petto.
Non era lui, anche se la somiglianza era incredibile.
Ricacciai indietro le lacrime e telefonai a Micheal.
«Puoi chiedere a tuo cugino se lo vede ancora?»
«Sì, dice che si era seduto lì da qualche parte».
Mi accovacciai a terra, sfinito mentalmente e fisicamente.
Non avevo riposato bene in quelle ultime notti, né nell'ultimo anno se è per questo, e non mi ero accorto che sperare di rivederlo mi avesse rubato tutta quell'energia.
Ero distrutto, di nuovo.
Ringraziai il mio amico e mi avviai di nuovo alla macchina, mi guardai bene attorno per essere certo che non ci fosse davvero Tiziano seduto da qualche parte.
Non c'era, i miei occhi non lo vedevano e il mio cuore non lo percepiva.
Non mi formicolava la pelle, non avevo lo stomaco in subbuglio... nessun segnale che potesse darmi l'illusione di averlo a pochi passi da me.
Tornai in macchina e mi diressi al Bed and Breakfast, deciso a tornarmene a Roma.
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