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30.

Ehi, io non lo so cos'è che non va in me stasera
È come se si fosse rotta la città
Per due che come noi sono scappati presto dal quartiere
E che adesso non sanno più nemmeno come si fa
A stare insieme male

-Come nelle canzoni, Coez


Il Dark Academy avrebbe aperto le sue porte a distanza di un paio d'ore e noi eravamo ancora in alto mare.

Beppe, il proprietario del bar nel quale lavoravo, aveva deciso di aprirne un secondo. Voleva qualcosa di più mondano, più adatto ai giovani del quartiere nostro e di quelli vicino.

La sua idea era nata con poche pretese: un semplice localino che facesse gli orari di un pub ma senza la musica a palla, perché diceva che a cinquant'anni lui non l'avrebbe sopportata.

Però più passavano i giorni più lui sembrava avere davanti agli occhi un disegno sempre più chiaro da seguire. Alla fine, quello che doveva essere un locale leggermente più alla moda del suo, era diventato un lounge bar di tutto rispetto.

Il pavimento in marmo era rimasto intatto; Lucia, la fidanzatina del figlio di Beppe, diceva che dava un tocco più sofisticato. Una delle pareti era in mattoni a vista sul rossiccio e da quel lato tavoli e divanetti erano sui toni scuri del nero e del ciliegio.
Al centro qualche tocco di colore più audace, ma sempre elegante, per le poltroncine: blu marino e rosso candy.
L'intera sala principale, così come le altre più contenute adiacenti, godeva dei giochi di luce e ombra dettati dai piccoli lampadari che scendevano dal soffitto.

La cosa che più mi elettrizzava, però, era l'idea di Beppe di fare esporre i propri quadri a chi lo avrebbe voluto.
E così le pareti sarebbero state impreziosite dalle tele dei ragazzi che frequentavano l'Accademia, o di qualche artista di strada conosciuto tra le vie di Roma.

C'era un via vai incredibile tra chi doveva appendere la propria opera e chi finiva con le ultime pulizie. All'entrata campeggiava una delle tele su cui avevo raffigurato uno scorcio meraviglioso della città: un ristorantino con qualche tavolo all'esterno da un lato e una scalinata dall'altro, l'edera tutto intorno e le finestre di chissà chi.

A Beppe era piaciuto tantissimo, diceva che i vicoletti erano i posti più belli da visitare, altro che il Colosseo e la Fontana di Trevi.

Quelli so' posti pe' i turisti. I romani mica ce vanno, diceva sempre.

«Quanta gente è prevista per stasera?» mi chiese suo figlio a un certo punto.

«Molta».

«Quantifica "molta"».

«Tommy, mi hai affiancato tu nella pubblicità e nel passaparola, credo che saremo belli pieni».

I suoi occhi brillarono.
«Fantastico. Papà ti ha fatto vedere la tua saletta?»

«No, che saletta?»

Si passò la mano fra i capelli rossicci, leggermente in imbarazzo, poi mi fece cenno con la testa di seguirlo.
«Guarda», e indicò tutto e niente col dito.

Avevo dimenticato qualcosa? Per caso c'era da spolverare la libreria a parete? Il tavolo era da spostare? Lo guardai con le sopracciglia inarcate, invitandolo silenziosamente a darmi una spiegazione.

«Papà non te lo dice, perché deve fare l'uomo tutto d'un pezzo, ma questa l'ha lasciata per te. Ha detto che qua dentro ci devi mettere solo le tue opere. Quelle che vuoi tu, hai piena libertà».

Mi voltai di scatto verso le pareti ancora vuote. Quella stanza era perfetta: intima, raccolta, preziosa.

Il tavolo rotondo era stato ricoperto con una tovaglia lavorata all'uncinetto, le sedie ne riprendevano il colore scuro nella struttura, ma avevano schienale e seduta ricoperte in un meraviglioso avorio e dal soffitto scendevano bolle di vetro che creavano un'atmosfera meravigliosa.
La libreria era il tocco finale.
Era la mia sala preferita, Beppe lo sapeva e aveva deciso di lasciarla a me.

Avrei potuto appenderci qualsiasi lavoro volessi.

Tommy fece un sorriso che contagiò anche me; mi misi in punta di piedi e circondai le sue spalle con un braccio, poi gli arruffai i capelli. Aveva solo sedici anni e già mi passava sopra di un bel po'.

«Ci metto un tuo ritratto, allora», scherzai.

Lui scoppiò a ridere e disse che doveva tornare di là, mentre io rimasi ancora un po' a fissare quelle pareti che si sarebbero riempite di me.

Incredibilmente, alle diciannove o poco più le porte erano state spalancate per la grande inaugurazione.

La gente aveva iniziato ad affluire numerosa e i tavoli erano tutti occupati. C'era addirittura qualcuno che faceva la fila fuori.

Nei mesi precedenti Beppe aveva investito su di me facendomi partecipare ad un corso per barman, quindi ero dietro al bancone a preparare cocktail e a godermi le facce soddisfatte delle persone che mi chiacchieravano intorno.

«Ma lo sai che i capelli turchini stanno da Dio con quella divisa?»

Micheal era appena arrivato assieme agli altri coinquilini e sorrideva da un orecchio all'altro.

«Ci voleva un tocco di colore», risposi facendogli un occhiolino.

In effetti Beppe si era voluto mantenere sull'elegante con noi dello staff, indossavamo tutti una camicia nera e un paio di pantaloni dal taglio classico della stessa tonalità.

Eravamo sicuramente fighi visti da fuori: vestiti in maniera impeccabile ma con le acconciature più strambe, i piercing ovunque e i tatuaggi in bella vista.
Adoravo il fatto che non avesse pregiudizi su chi decideva di fare del proprio corpo quel che voleva.

Presi le ordinazioni dei miei amici e li feci accompagnare nella saletta che avevo riservato per loro da Sofia, una delle mie colleghe.

Stava andando tutto bene: miscelavo i liquori, shakeravo i drink, li guarnivo con foglie di menta o fettine di agrumi.

E poi feci l'errore di sollevare gli occhi verso l'entrata.

Tiziano si era fatto quattro ore di treno per venire da me, quella sera, ma si era portato uno scudo umano alto quasi quanto lui e con uno stacco di coscia invidiabile.

La biondina guardava ammirata la mia tela mentre lui le spiegava non so cosa.

Riabbassai lo sguardo e finii di preparare l'ordine che avevo iniziato.

«Quel vicoletto è venuto benissimo, complimenti».

Non lo guardai.
Non mi piaceva quando aveva le mani addosso ad altre persone e, anche se il culo della biondina avrebbe fatto venir voglia di dare una palpata persino a me, la cosa mi stava leggermente sul cazzo.

«Non sai neanche se è mio».

«Certo che lo so. Hai un tratto inconfondibile».

Vaffanculo.
Glielo avrei voluto urlare.
In quel momento desiderai di trovarmi in uno di quei pub da baldoria, dove nessuno ti guarda storto se gridi qualche insulto.

«Tiziano ha ragione, è splendido! Gli ho chiesto di portarmici, ma non sa dov'è. Glielo spieghi?»

«Vicolo San Simone, mettete il navigatore e godetevelo».

Lei fece un sorriso imbarazzato, poi mi porse la mano.
«Sono Linda, piacere».

Gliela strinsi e riferii il mio nome. Disse che lo sapeva già perché Tiziano le aveva parlato molto di me, della nostra amicizia.

Chissà se le aveva detto anche che ogni tanto gli piaceva scoparmi, e che quando era ubriaco veniva da me strisciando e implorandomi di farlo restare.

«Dom, ma quelli nella nostra saletta sono tutti disegni tuoi? Cioè, ti hanno riservato una stanza?»

La voce di Micheal mi distrasse dai miei pensieri. Mi voltai verso di lui e gli sorrisi.

«È stata un'idea di Beppe, per aver accettato di lavorare qua, anche se è più lontano, e per aver fatto il corso per barman», spiegai.

Micheal annuì, gli si leggeva l'entusiasmo negli occhi, poi guardò Tiziano.

«Tu sei il suo amico, vero? Ti sei fermato a dormire da noi, una volta».

Tizio fece uno dei suoi rari sorrisi da stronzo, poi gli porse la mano.

«Sono io. Non ho idea di chi sia tu, invece. Dome non ha mai parlato di te».

L'ho mai detto che quando voleva sapeva essere un vero pezzo di merda?

«Sì che te ne ho parlato. Hai visto la sua foto in camera mia e mi hai chiesto se ci scopavo. Sembravi anche un po' geloso, a dire il vero».

Il cocktail che stava bevendo gli andò di traverso, Micheal rise sotto i baffi e tagliò la corda, mentre Linda gli dava teneri colpetti sulla schiena.

«Non ero geloso, ero curioso», si giustificò.

«Ho sicuramente avuto l'impressione sbagliata, allora», replicai con un sorriso un po' troppo falso.

«Quindi c'è una saletta con i tuoi lavori? Quale?», mi domandò la biondina con troppa enfasi.

Ma che cazzo aveva da sorridere sempre così?

«L'arco dietro di voi, la prima sulla destra».

Vidi Beppe venire nella nostra direzione, anche lui con l'espressione allegra.
«Vai in pausa, dai. Accompagna i tuoi amici a vedere la tua sala», e mi diede una pacca sulla spalla che pesò come una martellata.

Era stato fuori per tutto il tempo, proprio in quel momento doveva rientrare?

«Veramente avrei ancora due ordini da finire».

«Ci pensa Giammi, tranquillo», e mi spinse fuori dal bancone.

Mi trovai di fronte a un Tiziano mezzo divertito e mezzo imbarazzato, probabilmente la frecciatina su Micheal non l'aveva digerita bene.

«Fammi vedere la saletta», chiese sfiorandomi la mano, ben attento a non farsi vedere da nessuno.

Non avevo poi molte alternative, quindi li accompagnai nella stanza che avevo finito di arredare poche ore prima.

Mi misi a sedere coi miei amici, mentre Tizio e Linda guardavano meravigliati ogni singola tela.

Tutte, anche quella.

«Questo è il famoso punto e virgola! Tiziano me ne ha parlato, ha detto che è un po' il riassunto del vostro rapporto. Un'amicizia che non avrà mai fine. L'ho trovato un pensiero così bello, quando me l'ha spiegato...», mormorò quasi sognante.

Ammettere che, se non fosse venuta con Tizio, l'avrei trovata anche piacevole, fu davvero un duro colpo.
Duro quasi quanto sentire che lui le aveva raccontato del punto e virgola, ma lo aveva fatto girando il discorso in chiave amichevole.

«Gli ho chiesto di farmi vedere l'originale, ma ancora non mi ci ha portato. Dove l'hai fatto, già?»

Guardai il mio amico, che ora fissava la punta delle sue scarpe con un'aria mortificata in volto.

«Ah, in un postaccio. Non ricordo più neanche la strada per arrivarci, lì. Non vale la pena andarci, dammi retta».

Sorrisi e mi alzai dal tavolo.
«Ora scusate, ma devo tornare a lavorare. È stato un piacere, Linda».

Lei sorrise, lui rimase con gli occhi bassi.

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