26.
You'll always have my shoulder when you cry
I'll never let go, never say goodbye, you know
You can count on me like one, two, three, I'll be there
And I know when I need it I can count on you like four, three, two
And you'll be there, 'cause that's what friends supposed to do
-Count on me, Bruno Mars
«Tiziano, non correre! E neanche tu, Domenico! Sei ospite qui dentro, non dimenticarlo!»
Io e Tizio ci fermammo immediatamente e smettemmo di ridere, salvo poi ricominciare non appena suo padre si voltò dall'altra parte.
«Quando siamo grandi, il nostro compleanno lo andiamo a fare da qualche parte solo noi. Niente genitori e niente ospiti».
Annuii alla proposta del mio amico e sgattaiolammo in cucina per rubare qualche stuzzichino.
Alberto lavorava in banca ed erano anni che metteva a disposizione casa sua per la festa di capodanno.
Diceva che così si prendevano due piccioni con una fava: entrava nelle grazie del direttore -con la speranza di ottenere una promozione- e festeggiava il compleanno di Tiziano.
Lo guardavo, anno dopo anno, ridere a ogni più piccola battuta del capo, anche a quelle pessime, e vedevo quel modo reverenziale che aveva di offrirgli lo spumante o una tartina.
Avrei dovuto capirlo già da quelle occasioni che non era una bella persona, e invece mi pareva solo un bravo uomo che si prendeva cura della sua famiglia puntando sempre più in alto.
Il suo superiore non doveva pensarla allo stesso modo, però, visto che Alberto continuava a rimanere nella posizione in cui era stato assunto inizialmente.
«Dove?»
«Non lo so... Pizzeria?»
Finii di masticare quel crostino che avevo in bocca e buttai giù un sorso di aranciata.
«Okay. Oppure andiamo a ballare e non lo diciamo a nessuno!»
Gli occhi di Tiziano si spalancarono di meraviglia, come se non avesse mai nemmeno lontanamente immaginato che si potesse fare una cosa del genere, per il proprio compleanno.
Io e lui ballavamo spesso.
Di solito lo facevamo a casa mia, dove eravamo certi di non poter essere scoperti da suo padre. Accendevamo lo stereo che avevo sulla scrivania e ci mettevamo a saltare come pazzi per tutta la stanza, su e giù dal letto come se avessimo riserve infinite di fiato.
Avevamo sentito parlare delle discoteche dai fratelli grandi dei nostri compagni di classe e immagino che, per Tiziano, l'idea di andare in un posto dove tutti potevano ballare come volevano fosse l'idea perfetta per festeggiare.
«Sì! Pensa che figo che sarebbe!», disse con l'aria quasi sognante. Poi tornò al presente e si ficcò in bocca una manciata di patatine.
«Domani pomeriggio c'è la festa da te?», mi domandò.
«Sì. I miei hanno detto che forse ci lasciano guardare anche un film horror, però prima vogliono sapere il titolo», comunicai euforico.
Era cosa assai rara che mamma e papà mi lasciassero questa opportunità, ma ormai avevo dieci anni, suppongo avessero deciso che ero maturo abbastanza.
«Grande!»
Insieme tornammo nel salone di casa sua, sapevamo di non poterci nascondere per troppo tempo, perché suo padre voleva essere visto dai colleghi insieme alla sua bella mogliettina e il suo bel figlioletto.
La famiglia perfetta, nella casa perfetta con una vita perfetta.
«Ah, ecco qua il mio Tiziano! Vieni, vieni tra gli adulti ché Viktor vuole vedere quanto sei cresciuto».
Ci avvicinammo a Viktor, il direttore di banca, e lo guardai scrutare Tiziano dalla testa ai piedi, come se da una sola occhiata potesse capire se era valido o meno.
«Allora oggi è il tuo compleanno, eh? Hai già deciso cosa farai da grande?»
Non gli aveva nemmeno fatto gli auguri. Aveva solo domandato se aveva progetti per il futuro, con quell'accento polacco duro come la pietra.
«Ehm... Io e Dome vogliamo comprare una casa insieme e poi fare qualcosa di artistico, perché lui disegna molto bene».
Le mie labbra si allargarono in un sorriso sentendogli raccontare quelle cose.
Mi succedeva sempre quando mi includeva nel suo futuro.
Quando faceva piani per tutti e due, insieme.
Alberto rise di meno, invece. O meglio: rise, ma in maniera molto poco spontanea. Non che fosse mai stato un uomo troppo allegro, eh.
«Alberto», gli fece Viktor, «Non sapevo che tuo figlio avesse progetti così... particolari».
Lui scosse la testa e poggiò una mano sulla spalla di Tiziano.
«Ma figuriamoci. È solo un bambino, io alla sua età volevo diventare un astronauta! Poi sono cresciuto e ho capito come andava la vita e quali erano le cose importanti: un lavoro serio, stabile. Una fidanzata seria. Una casa», e sorrise di nuovo in maniera tirata.
Viktor annuì.
«Ma sì, è vero, a questa età dicono le cose più strane. Mia figlia ha più o meno la stessa età, adesso dice che da grande vuole fare la principessa», rise di scherno, poi tornò a guardare il mio amico.
«Sono sicuro che seguirai le orme di tuo padre, Tiziano, altrimenti vuole dire che ha sbagliato tutto nella vita, no?»
Tizio spalancò appena gli occhi e alzò la testa per guardare il suo papà, che rafforzò la presa sulla sua spalla.
«S-sì», confermò a bassa voce.
Era tutto così strano a casa loro. Tutto così diverso da come io vivevo a casa mia.
C'erano cose che proprio non capivo.
Quella, ad esempio!
Perché mai un genitore doveva pensare di aver sbagliato tutto, se suo figlio non prendeva la sua stessa strada?
Era così sbagliato avere un sogno proprio?
Io amavo disegnare, ad esempio, e i miei genitori non si erano mai stupiti per quello, pur non avendo loro stessi la passione per i disegni.
Quando parlavo a mio padre di voler diventare un dottore, un pompiere o un poliziotto, io non vedevo mai delusione nei suoi occhi, solo incoraggiamento.
«Tizio, mi presti un maglione? Ho freddo», mentii per poterlo allontanare da lì.
Anziché andare in camera sua ci dirigemmo fuori e andammo a sederci su una panchina nel parchetto di fronte.
«Dome, stanotte dormo da te?»
«Va bene».
«Non devi chiederlo ai tuoi?»
«No, gli fa piacere quando stai da noi».
Tiziano annuì guardando davanti a sé. Mi tolsi la sciarpa e la avvolsi al suo collo. Era uscito senza neanche il giubbotto, avrebbe potuto ammalarsi!
«A volte penso che mi piacerebbe più avere i tuoi genitori che i miei».
Sinceramente non potevo davvero dargli torto.
Alberto e Claudia erano due persone davvero... inquietanti, per certi versi.
Dicevano cose strane, facevano insinuazioni brutte, che quando uscivi da casa loro ti rimanevano appiccicate addosso per un sacco di tempo.
Le loro parole erano resina, difficili da togliere una volta che ti avevano macchiato.
Per questo mi stupivo sempre di come Tiziano riuscisse a rimanere così, limpido e puro com'era da bambino.
Tornammo a casa sua e andammo dritti in camera da letto per prendere il suo pigiama, e la voce di suo padre ci fece sobbalzare entrambi quando tuonò nella stanza.
«Dove vai?»
«Volevo dormire da Domenico».
«Tiziano, porca puttana, abbiamo la casa piena di gente!»
Tizio abbassò la testa e strinse appena i pugni.
«Ma sono i tuoi colleghi. Sono tutti grandi, noi ci annoiamo...»
«Se Domenico si annoia può benissimo tornare a casa sua. Tu rimani qua! Che figura ci faccio se vai via adesso?»
«Ma è anche il mio compleanno... La mamma di Dome ci ha fatto la torta».
«Gli ha fatto. Gli! Non siete due gemelli siamesi. Siete grandi per parlare come se foste una cosa unica. Le amicizie come la vostra non sono sane!»
Tiziano abbassò la testa ancora di più, così tanto che quasi gli si incassò nelle spalle.
Suo padre, invece, la alzò verso il soffitto, scuotendola. Poi, come se suo figlio avesse fatto chissà che cosa, gli andò incontro in due falcate e prese il suo viso con una sola, grande mano.
«Cosa abbiamo detto sul pianto, Tiziano?»
Tizio sbatteva le ciglia freneticamente, quasi avesse il terrore che una lacrima potesse azzardarsi a sfuggirgli in presenza di suo padre.
«Che cosa abbiamo detto su queste cazzo di crisi isteriche che ti fai venire ogni volta che si nomina l'amicizia tra te e Domenico?»
Ogni volta? Ogni quanto diceva quelle brutte cose sul nostro rapporto? Che bisogno c'era, poi?
Eravamo amici, quasi fratelli, perché questa cosa lo scombussolava così tanto?
«Le amicizie come la nostra non sono normali. E comunque non durano mai. E non si piange per queste stupidaggini, soprattutto se si è maschi».
Aveva trovato il coraggio di guardarlo negli occhi, dal basso della sua posizione, e aveva ripetuto tutto come un bravo soldato.
Aveva sputato fuori quelle cose con la speranza che lo schiaffeggiassero, e invece Alberto aveva un'espressione soddisfatta in volto. Era fiero.
«Ti aspetto di sotto. Domenico, tu puoi anche tornare a casa, se vuoi».
Non mi sembrò proprio un invito, quanto più un'imposizione detta in modo simil cordiale.
Annuii e aspettai che uscisse dalla stanza, poi cercai gli occhi di Tiziano.
Erano ancora lì, sembravano tutti interi.
«Facciamo come al solito?», mi chiese.
«Certo».
Scendemmo e andai a salutare i suoi genitori, mi feci vedere mentre lasciavo casa loro e, una volta fuori, feci il giro e mi arrampicai su per la grondaia per entrare in camera sua.
Lui tornò dopo una decina di minuti con un pezzo di torta nascosta nel tovagliolo.
«Mancano cinque minuti alla mezzanotte», disse.
«Pensavo che ci mettevi di più a tornare».
«Ho fatto finta di essere molto stanco», sghignazzò.
Mi diede la torta e io la divisi a metà.
«Come facciamo se mio papà continua con questa storia?», mi domandò a un certo punto.
Io feci spallucce.
«Secondo me, se vede che siamo amici anche da grandi, poi non rompe più».
«Mmh... può essere».
«Noi impegniamoci a non litigare mai e vedrai che si convince anche lui che la nostra è un'amicizia vera», gli porsi la mano e sorrisi.
«Scommettiamo?»
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