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25.

Ed io ti catturo mille stelle che di certo non scappano
Come scappavi ogni volta tu da me
Lo vuoi questo caffè?
Ti prego finisci questo secolo accanto a me
Avremmo altro tempo insieme per un caffè
Fino alla fine del secolo, fino alla fine di me

-L'amore qui non passa, Negramaro


«Già di ritorno?»

La voce di Micheal mi fece quasi saltare per aria.

La felpa dello stesso colore del divano su cui era steso l'aveva fatto mimetizzare peggio di un camaleonte.

«Non puoi vestirti con le stesse tonalità della fodera, farai venire un infarto a qualcuno!»

Scoppiò a ridere e si tirò su, battendo la mano sul cuscino per farmi cenno di sedermi accanto a lui.

«Cos'è successo? Dovevi stare fuori fino all'epifania ed è solo il primo gennaio. Auguri, a proposito».

Feci un mezzo sorriso e ringraziai, poi mi lasciai cadere indietro.

«È successo un casino con Tiziano», sospirai.

Casino... Era buffo definirlo "casino".
Io mi sentivo una merda e quella mi sembrava una gigantesca catastrofe.

«Vuoi parlarne?»

«Non c'è molto da dire. Ieri mi ha portato in un locale gay, poi ha voluto scommettere con me che non sarei riuscito a rimorchiare qualcuno scelto da lui. Quando ha visto che avrei vinto la scommessa mi ha trascinato in una camera prenotata per la notte, siamo finiti a letto insieme e stamattina se l'è data a gambe. Ah, mi ha lasciato cento euro sul comodino. Nel biglietto diceva che erano per il taxi. A me è sembrato più il pagamento fatto a una puttana dalla quale sai già che non tornerai più».

«Cazzo...»

«Già».

«Quel ragazzo è davvero strano. Cioè, mi pare di averlo difeso più volte, ma questa! Si è praticamente scavato la fossa da solo. Anche se...»

Lo fulminai con gli occhi.
«Anche se, un cazzo! Ha detto che, e cito testuali parole, "tutto questo non è niente" prima di baciarmi», e la nausea tornò a colpirmi come quella mattina, quando avevo visto la banconota su quel maledetto comodino.

«E allora perché ci sei stato?»

Quella era la domanda più stronza che mi si potesse rivolgere.

Come si poteva spiegare il rapporto che c'era tra me e Tiziano?
Io ci avevo provato, con Micheal, qualche volta.
Sapeva praticamente tutta la nostra storia, ma... ma il rapporto, quello era un'altra cosa.

Gli occhi, le parole, i gesti.
Le notti passate uno nel letto dell'altro, la gelosia che non avremmo dovuto provare ma che se ne stava lì, come una vecchietta di paese affacciata al balcone nelle sere d'estate.

I sorrisi, le promesse e le sfide. Tutte le scommesse vinte e perse, tutto il bene e tutto il male che avevamo attraversato insieme, sempre uno accanto all'altro.

Tutto quello come si poteva spiegare a qualcuno che non l'aveva vissuto in prima persona?
E se non potevo spiegare quello, come potevo rispondere alla sua domanda?

Perché la risposta era proprio lì, racchiusa in tutto ciò che ci aveva legati da sempre.

«Perché certe volte vuoi qualcosa così tanto, che sei disposto a pagare tutto il male del mondo pur di averla».

E non ero nemmeno certo che fosse la risposta giusta.

Mi alzai e guardai il mio coinquilino.
«Mi aiuti?», domandai mentre mi avviavo in bagno.

Micheal mi seguì dopo qualche secondo e mi trovò davanti allo specchio col rasoio elettrico in mano.

«Li tagli? Perché?»

I tuoi capelli. Li ho sempre amati questi capelli. Sono così... tuoi. Colorati, di una lunghezza indefinita, morbidi. Sono i capelli di Domenico. Non potrebbero essere di nessun'altro.

«Perché sì».

«Sicuro?»

«Sicuro».

Venti minuti dopo avevamo finito, e io mi guardavo allo specchio leggermente smarrito.

Era strana la sensazione tattile che avevo passando le mani sulla nuca, ma devo dire che non mi dispiaceva affatto.
Sembrava di accarezzare un kiwi.

Ringraziai Micheal e mi chiusi in camera con le mie matite e i miei fogli.
Disegnare, in giornate come quella, era l'unico modo che avevo per isolarmi un po' dal dolore.

Mi era successo, in qualche occasione, di sentirmi come se non riuscissi bene a respirare, tanto era grande il macigno che avevo sul petto.

Era capitato quando avevo deciso di scappare a Roma senza dire niente a Tiziano e non lo avevo visto per quasi quattro mesi.
Oppure quando avevo scoperto che Alberto lo aveva picchiato.
Quando si era messo con Martina. Quando ripensavo alla mamma.

Disegnare diventava una specie di anestetico, qualcosa di necessario al fine di lenire almeno un po' quel dolore sordo che non avrei saputo esprimere altrimenti.

Non so quanto tempo passò prima che bussassero alla porta, ma quando si aprì e gli occhi di Tiziano si appoggiarono sui miei, io mi sentii morire.

Lo volevo lì e allo stesso tempo pregavo che andasse dall'altra parte del mondo.

«Chi ti ha fatto entrare?», domandai tornando con lo sguardo sul foglio.

«Perché sei tornato qua? Avevi detto che rimanevi fino al sei».

«Perché ho visto che posso fare soldi facilmente, ma in paese mi conoscono tutti. Meglio essere in una città grande, si fa meno caso a certe cose», risposi mentre rifinivo l'ombra di un albero.

«Domenico», cercò di richiamarmi, e l'impulso di guardarlo era così forte che rischiai di spezzare la matita che avevo in mano. «Domenico, cazzo». Strappò via il mio album da disegno e mi alzò di peso dalla poltroncina sulla quale ero appollaiato. «Erano per il taxi, o il treno. Erano per il tuo ritorno a casa».

«Erano perché ti sentivi in colpa ad avermi scopato e mollato lì, brutta testa di cazzo», gli urlai in faccia.

«N-no».

Ma non c'era alcuna sicurezza in quella negazione balbettata, anzi.
Io ci sentii una mortificazione piuttosto chiara.

«Se sei venuto fino a qui per dire cazzate, potevi anche restartene a casa».

«Dome... Quello che è successo stanotte... Noi, io- quello non era niente, lo avevamo detto, ti ricordi?»

Sembrava così in difficoltà che per un attimo mi fece quasi tenerezza.

«Sì, ma io le cose che non sono niente non le faccio».

Tiziano abbassò lo sguardo e vidi una smorfia contorcergli i lineamenti, come se gli stesse costando molto parlare, esprimersi, rispondermi.

«Sono stanco. Vado a fare una doccia e poi vorrei dormire. Tu puoi tornare a casa, oppure ti metti di là, in soggiorno, sul divano».

Presi un cambio pulito dal mio armadio e andai in bagno con l'unica speranza di non vederlo al mio ritorno.

Era straziante guardarlo mentre negava la verità anche a sé stesso, e io non ero un pazzo né un visionario: quello che c'era stato tra noi era intenso, reale.

Rientrando in camera lo scorsi sul mio letto. Si era tolto il giubbotto e le scarpe e guardava distrattamente il cellulare.

Andai a stendermi dandogli le spalle e non appena spensi la luce lo sentii infilarsi sotto le coperte con me.

Mi attirò a sé cingendomi col braccio e tendendo la mia schiena premuta contro il suo petto.

«Mi fai male».

«Scusa», e lasciò la presa.

«Così me ne fai anche di più».

«Dome...»

Mi girai appoggiai la fronte alla sua, come aveva sempre fatto lui con me.
«Che cosa vuoi, Tizio?»

Lo sentii sospirare forte, e la luce giallognola che arrivava dai lampioni sulla strada mi permise di vederlo mentre chiudeva gli occhi, come a cercare una risposta dentro di sé che potesse accontentare entrambi.

«È tutto sbagliato. Dome, tutto questo è sbagliato e se dovesse andare male io perderei la persona più importante del mondo. Lo capisci questo?»

Lo capivo, sì, perché ci avevo pensato anch'io. Mi ero ritrovato più volte a chiedermi cosa sarebbe successo se le cose non fossero andate per il meglio.

Il problema stava nell'aver superato quella linea sottile che divideva la realtà dall'utopia.

Avrei potuto tranquillamente continuare con la mia vita, se non avessi baciato Tiziano.
Se non avessi fatto l'amore con lui. Se non avessi sentito le sue mani su di me.

Avrei lasciato che quelle sensazioni vivessero solo nella mia mente, nei momenti in cui mi concedevo di fantasticare su noi due insieme.

Ma le cose si erano spostate dal piano dell'immaginazione a quello reale e, con mio grande rammarico, era stato molto più bello di qualsiasi sogno fatto fino ad allora.

«E se dovesse andare bene?» domandai a bruciapelo.

Tiziano mi accarezzò la testa e sorrise.
«Sono belli anche così».

«Se dovesse andare bene?» chiesi ancora.

«Pensi che li colorerai di nuovo?»

«Se dovesse andare bene?»

«A me piacevano quando erano lilla».

«Se dovesse andare bene, Tiziano?»

Smise di sorridere e nei suoi occhi passò un lampo di tristezza.

«Se dovesse andare bene io farei schifo, sarei storto, i miei genitori non mi vorrebbero più e mio padre vorrebbe ammazzare mia mamma».

Dio, che male al cuore.
Alla fine quella serpe infida ce l'aveva fatta a infilarsi sotto la sua pelle.

«Tizio...»

«Lo so. Razionalmente io so che non è così. Ma dentro di me, nella mia testa, rimbombano fortissimo tutte le idee di mio padre. È come se le avessi assorbite da piccolo senza rendermene conto e fossero venute fuori tutte adesso. Ecco perché stanotte non è successo niente. Non può essere successo niente perché altrimenti è una catastrofe. Una catastrofe».

Tiziano mi implorava con gli occhi di dargli ragione, di assecondarlo su quella pazzia che stava portando avanti e io mi sentivo combattuto: da una parte non volevo turbarlo, non volevo sbattergli in faccia la verità perché tanto sapevo che, dentro di lui, la conosceva già benissimo.
Sapeva perfettamente cos'aveva provato con me, sapeva quanto saremmo stati bene insieme.

Dall'altra, però, volevo scuoterlo e farlo rinsavire, dirgli che lui era un coglione e suo padre una gran testa di cazzo.

Volevo urlare che non sapevo come comportarmi se la notte facevamo l'amore, la mattina scappava via e la sera tornava per chiedermi scusa.

Volevo fargli vedere quanto mi stesse lacerando tutta quella situazione, la sensazione di non sapere come muoversi per fare meno danni possibili.

Ma Tiziano aveva gli occhi così lucidi che mi sembrò di affogarci dentro.
Era smarrito e incapace di aggrapparsi alla realtà, in quel momento.

E allora feci quello che facevo sempre quando lo vedevo in quello stato: lo abbracciai forte e lasciai che si nascondesse per un po' dentro di me, fuori dal mondo.

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