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23.

I don't want another night of tryna find
Another you, another rock bottom
I don't wanna wear another mini dress to impress a potential problem
I don't want somebody like you, I only want you

-Only want you, Rita ora

«Ma che occhietti felici che abbiamo! C'entra per caso il bel ragazzo che dormiva nel tuo letto, stanotte?»

Ero appena rientrato a casa dopo aver accompagnato Tizio, e la voce di Micheal da dietro al divano per poco non mi fece prendere un colpo.

Gli lanciai il giubbotto che lui prese al volo scoppiando a ridere.

«Quindi quello era Tiziano?»

Lo guardai male e cercai qualcos'altro da potergli tirare, ma non avevo nulla a portata di mano, quindi rinunciai.

«Era Tiziano», confermai buttandomi a peso morto accanto a lui.

«Qualche passo avanti?» s'informò.

Con Micheal eravamo entrati subito in sintonia; è vero che ci aveva provato all'inizio, ma dopo aver capito che non ero interessato, aveva lasciato perdere e il nostro rapporto si era spostato sul piano dell'amicizia.

Devo dire che mi faceva un gran bene: oltre a Nico, col quale non potevo certo dire di avere instaurato una relazione amichevole, Micheal era l'unica altra persona omosessuale che avessi conosciuto e, so che può sembrare stupido, ma parlare con lui mi sembrava la cosa più naturale del mondo.

«Non lo so neanch'io. Lui è...»

«Complicato», concluse la frase per me, Micheal.

«Esatto. E a volte ho paura che quello che vedo sia davvero solo nella mia testa».

Non dovevo dargli poi tante spiegazioni; il mio coinquilino aveva passato ore e ore ad ascoltarmi sviscerare ogni più piccolo dettaglio della mia vita con Tiziano.
Lo conosceva bene tanto quanto me, ormai.

«Stanotte non sei passato da me».

«No, ero con Tizio e-»

«Alt! Non volevo la giustificazione, giuro! Ma siccome non sei venuto a salutare, a una certa mi sono affacciato nella tua stanza per vedere se andava tutto bene. Tieni», disse passandomi il telefono.

Sorrisi vedendo la foto sullo schermo: c'eravamo io e Tiziano addormentati, con lui che mi teneva praticamente abbarbicato a sé, la testa sulla mia e il naso tra i miei capelli.

«Era per dire che non credo sia tutta una tua fantasia. Credo più che abbia paura, quello sì. Sarebbe anche comprensibile, no?»

Certo.
Certo che era comprensibile.
La mia di paura, però, era che avevamo quasi diciannove anni, non eravamo più due bambini a cui le minacce dei genitori dovevano preoccupare.

Tiziano era maggiorenne da un po', esattamente come me, e aveva tutta la libertà di fare le valigie e uscire da quella casa, se non poteva essere chi voleva.

Il terrore che aveva di deludere suo padre era così forte che temevo non avrebbe mai scelto sé stesso.
O me.

«Capirà, Dome. Aspetta ancora un po'. Tu stesso ti sei reso conto di quello che provi solo poco tempo fa, magari lui l'ha realizzato da ancora meno tempo. Dagli modo di elaborare e decidere».

Annuii, un po' confortato e un po' scettico, ma come al solito mi aveva sollevato il morale parlare con Micheal.

Guardai l'orologio di sfuggita e mi accorsi che avevo appena sei ore per studiare, quel giorno, poi sarebbe iniziato il mio turno al bar.

«Vado a imparare qualcosa sui libri che ho pagato una caterva di soldi».

«La cultura costa, ragazzino!»

Gli sorrisi e mi avviai in camera, prima però chiesi a Micheal di inviarmi quella foto.

Quelle tre settimane passarono con una lentezza disarmante.

I giorni parevano durare trentacinque ore e i minuti non scorrevano mai.

Studiavo.
Quando non studiavo ero di turno al bar e quando non ero di turno al bar e non dovevo studiare, leggevo.

Eppure mi sembrava di avere sempre la mente troppo libera per pensare, per fantasticare.

Non c'era niente di più sbagliato che portare me stesso a credere che qualcosa sarebbe successo, prima o poi, lo sapevo; ma non riuscivo a farne a meno.

Io e Tiziano eravamo ovunque.
Lo vedevo fuori dal mio luogo di lavoro, la sera tardi ad aspettarmi appoggiato ad una macchina, la sigaretta in bocca e i capelli spettinati.

Oppure fuori dall'università, con quel giacchino di jeans che portava da chissà quanti anni.
O sotto casa mia, di rientro da qualche commissione, con le All Star sdrucite e quel sorriso che avrebbe potuto illuminare tutta Roma.

Tiziano non c'era mai, in nessun posto tranne che nella mia testa, e io avevo faticato a concentrarmi sia sui libri che a lavoro.

Anche in casa ero assente: passavo dalla mia stanza alla cucina, dimenticandomi cosa ci fossi andato a fare.

I miei coinquilini parlavano e io facevo fatica a seguire il filo logico dei loro discorsi, idem per i professori dei corsi che seguivo.

Disegnavo, quello sì. Quello mi aiutava a svuotare la mente per un po'.
Quando sentivo la testa troppo pesante, troppo carica di pensieri e paure, allora prendevo le mie matite e i miei album e iniziavo a disegnare e disegnare.

Roma era una continua fonte d'ispirazione. C'erano così tante cose da vedere, memorizzare e riportare lì, su quei fogli bianchi.

Alla fine il ventuno era arrivato e avevo seguito il piano, che a distanza di giorni mi sembrava davvero patetico. Che razza di piano poteva mai essere quello di fare le valigie e prendere il treno per tornare in paese?

Eppure a inizio dicembre mi era parso davvero studiato nel dettaglio.
Comunque sia, mi trovai davanti a casa mia senza sapere nemmeno come c'ero arrivato, occupato com'ero stato a cercare di tenere lontani i pensieri da me.

Suonai il campanello e sentii mio padre gridare dall'interno che sarebbe arrivato subito, poi mi voltai verso la strada a quel suono.

La macchina di Alberto, il padre di Tiziano, aveva la marmitta sfondata da almeno dieci anni; un rumore che non poteva di certo essere confuso con nessun'altro.

Lo vidi passare davanti al nostro vialetto con lo sguardo puntato di fronte a sé, come se stesse costeggiando il giardino del diavolo in persona.

C'era Tizio in macchina con lui.
Mi guardò con gli occhi, senza muovere la testa di un millimetro, fin quando gli fu possibile, poi anche lui tornò a fissare la strada.

Quando mio padre venne ad aprire la porta forzai un sorriso che in quel momento non mi apparteneva.

«Sei già dimagrito troppo per i miei gusti, e hai le occhiaie. Torna a casa», decretò.

Scoppiai a ridere, per davvero, e mi tuffai nelle sue braccia.

«Il mio bambino».

«Il tuo bambino sta per compiere diciannove anni».

«Lo so, non ricordarmelo, altrimenti collego che anch'io sto invecchiando».

«Solo tu».

«Simpatico! Cosa fate tu e Tiziano per il compleanno, questa volta?»

Eravamo già in cucina, mi accasciai su una sedia sospirando.

«Non lo so. Visto che gli piace fingere di non vedermi, magari io potrei fare finta di non festeggiare con lui».

Era stupido, lo sapevo, eppure quella cosa mi aveva irritato. Ci eravamo salutati neanche un mese prima in stazione, con la promessa di rivederci presto, e quando era passato insieme a suo padre aveva dovuto fingere di non conoscermi nemmeno.

Odiavo il fatto che Alberto potesse pensare che lui mi avesse ignorato di proposito.
Odiavo lui e il dovergli dare quella soddisfazione.
Chissà quanto aveva goduto a vedere me girato verso di loro, e suo figlio impassibile alla mia presenza.

Mio padre annuì e basta, gli occhioni comprensivi di chi voleva sapere di più ma non voleva essere troppo invadente.

«Vai a farti un bel bagno caldo intanto, tra mezz'ora arriva la pizza e poi ti lascio scegliere il film», disse con un occhiolino e una pacca sulla spalla.

«Okay».

Appena misi piede in camera, il telefonino mi avvertì di un nuovo messaggio.

Era Tiziano che mi chiedeva scusa e mi avvertiva che quell'anno avrebbe organizzato la nostra festa di compleanno da solo, senza darmi nessun indizio.

Non gli risposi.
Buttai il telefono sul letto e andai in bagno per preparare la vasca.

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