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22.

I'm alone with you, you're alone with me
I see you when you hide, and when you lie, it's no surprise
I see you when you run from the lie within your eyes
I see you when you think that I don't notice all those scars

-I see you, Missio

«Suonami qualcosa con l'armonica».

«Non ci penso proprio».

Tiziano fece "no no" col ditino e io scoppiai a ridere.
Ci eravamo svegliati da mezz'ora, ero andato a svaligiare la dispensa ed ero tornato a letto col bottino: brioches, cereali, biscotti e marmellate varie; inutile dire che c'erano briciole ovunque, ma sinceramente non m'importava un granché.

Insistetti ancora un po' con Tizio che, alla fine, preso per sfinimento afferrò il suo strumento e iniziò a soffiarci dentro.
Cazzo, le mie orecchie chiedevano pietà.

«Non fare lo stronzo, ce l'ho da poco!»

«Ce l'hai da pure troppo, fidati».

Il suo pugno mi arrivò dritto nel fianco e il ghigno sul suo viso mi fece pensare che non se ne fosse affatto pentito.
Bastardo, era sempre stato più forte e muscoloso di me.

«Allora, cosa stai facendo?»

«Lo sai benissimo cosa faccio. Tuo padre e Diletta fanno la spia continuamente, ci scommetto».

Alzai un sorriso e non smentii né confermai nulla.
«Voglio comunque saperlo da te». Okay, forse quella poteva considerarsi una conferma.

«Ho iniziato a lavorare in palestra».

«Quella vicino al comune?»

«Nah, troppo fighetta. Quella vicino al centro commerciale».

«E come ti trovi?»

Tiziano fece spallucce e si sdraiò di nuovo, le mani dietro alla testa e lo sguardo rivolto al soffitto.
«Non è male. I colleghi sono simpatici e con la gente me la cavo bene... Chiamo, prendo appuntamenti, promuovo, e ho iniziato anche ad aiutare qualche ragazzo preparando le schede dei loro allenamenti».

Annuii e mi sdraiai accanto a lui nella stessa identica posizione.
«A tuo padre sta bene?»

«Sì, o almeno credo... da quando c'è Clarissa non si lamenta di niente».

Non avevo dubbi che fosse così; d'altronde ad Alberto sarebbe andato bene tutto tranne che un figlio frocio.
O un figlio con l'amico frocio.

«Non hai pensato che prima o poi vorrà conoscerla?»

Il sospiro che rilasciò mi fece capire che sì, ci aveva pensato eccome.

«Gli dirò che ci siamo lasciati, poi arriveranno mille altre ragazze. Tanto non si fanno conoscere subito ai genitori, no?»

«E per quanto tempo pensi di reggere a dire cazzate ai tuoi?»

«Non lo so, ma alla fine non ho mai fatto niente di male, quindi non vedo perché debbano rompere così tanto i coglioni».

Niente di male.
Quelle parole mi rimbombarono in testa per i secondi a seguire e arrivarono a sbattere giù, in quell'angolo di cuore dove stavano rintanate tutte le mie paure più grandi.

«Io ho fatto qualcosa di male, secondo te?»

Tiziano scattò con gli occhi spalancati nei miei; aveva in volto un'espressione terrorizzata, come se si fosse appena reso conto che quello che aveva detto poteva essere facilmente fraintendibile.

Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, ma non ne uscì nessun suono, e allora io posai lo sguardo da un'altra parte.

La sua mano afferrò il mio viso dopo un millesimo di secondo riportandomi da lui, impedendomi di fuggire.

«Dome, i-io-»

«Lascia stare», lo interruppi. «Non devi giustificarti con me. Non dobbiamo avere le stesse idee su tutto».

«Io non cambierei mai niente di te, mai! Ma ci sono cose che ancora non ho capito. Giusto e sbagliato sono due concetti che fanno a botte nella mia testa da sempre. Io non sono cresciuto come te, non ho avuto due genitori come i tuoi e non so, io non so se-»

Lo attirai a me e lo strinsi più forte che riuscii, sentendolo aggrapparsi alla mia schiena quasi fossi io l'ultima speranza di salvezza.

Lo abbracciai e mi sentii morire. Non era vero che giusto e sbagliato duellavano da sempre in lui.

Quando eravamo piccoli Tiziano sapeva benissimo che le cose dette da suo padre non avevano un senso.

Era perfettamente in grado di comprendere che certi discorsi fossero infarciti di odio ingiustificato, di intolleranza e superiorità.

Avevo sperato, avevo pregato con tutto me stesso che rimanesse così, il mio Tiziano, puro e giusto... E invece Alberto era riuscito a piantare un piccolo, minuscolo semino che rischiava di contagiare la persona più bella che avessi mai conosciuto; e dal modo in cui tremava, se ne doveva essere accorto anche lui.

«D-Dome».

Riuscivo a sentire il terrore di quella consapevolezza nella sua voce e sapevo di non avere alcun mezzo per poterlo rassicurare.

«Sono qua, Tizio. Sono qua», dissi soltanto, mentre baciavo via quelle lacrime che avevano iniziato a ferirgli la pelle e un po' di cuore. «Sistemiamo tutto, okay?»

Tizio non rispose.
Rimase ancora un po' nascosto dal mondo che lo pretendeva forte e normale, poi pian piano si calmò, schiarì la voce e si alzò dal letto.

Ormai ero abituato a questa sua doppia natura: da quando eravamo diventati grandi lui andava e tornava, e la sua permanenza durava sempre troppo poco.

Vinceva sempre la parte razionale, quella che gli suggeriva che noi due fossimo solo amici; che tutto quello che vedevo io era nella mia testa.

Era come in quei film in cui il protagonista soffre di disturbo della personalità: Tiziano era governato dal bravo e obbediente figlio di Alberto, ma ogni tanto si mancava così tanto che l'altra parte, quella che mi amava quanto lo amavo io, quella che gli apparteneva per davvero e che non era stata contaminata da suo padre, prendeva il sopravvento per scappare da me e abbracciarmi.

Fu spontaneo chiedermi per quanto mi sarebbero bastate quelle briciole di lui.

Mi ricomposi il cuore e decisi di imitarlo iniziando a vestirmi.
«Ti accompagno alla stazione».

«Okay».

Io e gli altri ragazzi avevamo messo una cifra irrisoria per comprare un motorino scassato a uso comune, l'unica regola da seguire era scrivere sulla lavagnetta all'ingresso per quanto tempo si sarebbe utilizzato.

Appuntai l'orario e scrissi che sarei tornato nel giro di un'ora, poi presi le chiavi e iniziai a scendere le scale del condominio.

Io e Tiziano, da ragazzini, ne avevamo parlato un sacco di volte: saremmo partiti un venerdì sera d'estate e avremmo viaggiato sul mio Booster fino a Roma; vedere la città eterna al sorgere del sole doveva essere una cosa pazzesca, e dicevamo sempre che prima o poi lo avremmo fatto.

Ora lui era dietro di me, a distanza di sicurezza per fare in modo che quasi non ci toccassimo, e sapevo che quel progetto fatto da due quattordicenni avrebbe sempre avuto un retrogusto amaro, per me.

Mi domandai se anche per lui fosse la stessa cosa, così decisi di fare una piccola deviazione.

Arrivammo a Piazza dei Cavalieri di Malta poco dopo, con la sua faccia perplessa e la mia accartocciata dal freddo di dicembre.

«Vivi a Roma da quattro mesi e ancora non sai dov'è la stazione?»

Sorrisi e mi avviai là, nel punto che mi aveva fatto pensare a lui solo pochi minuti prima.
Mi avvicinai alla meta constatando, con non poca sorpresa, che quel giorno non ci fosse nessuno a fare la fila.

Tiziano mi seguì, e quando mi fermai davanti alla porta lo vidi ancora più confuso di prima.

Gli mostrai la serratura con un elegante gesto della mano e lui passò lo sguardo da me a quel buco più e più volte.

Alla fine decise di fidarsi, dato che si abbassò per guardarci attraverso.

Quel "wow" che lasciò uscire dalle labbra, insieme a un po' di fiato denso, mi ripagò del freddo preso in motorino.

Quello era stato uno dei primi posti che avevo visto, appena arrivato a Roma.
Un piccolo spioncino con la vista sulla cupola che, per me, restava la più affascinante d'Italia.

Tiziano si voltò verso di me con occhi sognanti, come un bambino piccolo che ha appena visto la coppa di gelato più grande del mondo e sa che è tutta per lui.

Gli sorrisi, felice di essere riuscito a tirare fuori di nuovo quel lato fanciullesco che aveva dovuto accantonare in fretta, perché i bambini dovevano essere piccoli uomini, a casa sua.

«Ce l'hai presente quant'è grande la Basilica di San Pietro?», domandai.

Lui scosse la testa in senso di diniego.
«Cioè, so che è molto ampia, ma in effetti non so quanto».

«È ventitré mila metri quadri, più o meno come tre campi da calcio».

Tizio annuì, e col riferimento al calcio seppi di avere catturato al sua attenzione.
«Mi piace guardare la Basilica da quella serratura, perché si vede solo la sua cupola, da lì. Eppure è grande. È immensa. Ci sono stato un bel po' di volte da quando mi sono trasferito qua, e ogni volta ci si vede qualcosa in più.
Il primo giorno ho fatto caso a quanto fosse enorme, così tanto che mi sembrava di essere minuscolo a suo confronto.
La seconda ho guardato meglio gli affreschi: i disegni, i colori, le tecniche.
La terza ho provato a studiarne le opere.
La quarta mi sono accorto che non avevo prestato la giusta attenzione all'esterno.
Poi ho capito che sarebbe stato meglio studiarla nella sua interezza, altrimenti ogni volta rischiavo di perdermi qualcosa, e alla fine ho scoperto questo posto da cui poter osservare la cupola».

In realtà avevo un discorso più chiaro in mente, ma le parole mi si erano ingarbugliate una con l'altra a mano a mano che avevo iniziato a parlare, così avevo lasciato che uscissero come preferivano, tanto il succo non cambiava poi molto.

«È molto bella. Grazie per avermi portato a vederla».

Lo aveva detto in modo sincero, ne sono certo, ma non era del tutto convinto di dove volessi andare a parare.

«Tu me la ricordi un po'».

«La Basilica?»

«No. La Basilica vista da quella serratura».

«Perché?»

«Perché ho imparato a conoscerti da piccolo, eppure ogni volta che mi fermavo a guardarti scoprivo qualcosa di nuovo che mi era sfuggito. E adesso vuoi farmi credere di essere tutto lì, nel discorso che hai fatto prima, quando hai detto che non sai cosa è giusto e cosa no... ma io lo so che sei immenso. Non ti ho mai visto solo attraverso una stupida serratura, Tiziano. Io ti ho sempre guardato nella tua interezza».

I suoi occhi diventarono liquidi, ma non gli permisi di portarli via da me.
Gli afferrai il viso e lo abbassai per portarlo alla mia altezza, poi appoggiai la fronte alla sua.

Non lo avevo mai visto così smarrito, così impaurito.
Sembrava un cerbiatto nel bel mezzo di una strada, coi fari di una qualsiasi auto puntati contro.

Decisi di non volerlo torturare oltre, d'altronde era sempre stato un ragazzo a cui serviva tempo per pensare ed elaborare.

«Andiamo, ti porto in stazione, altrimenti perdi il treno».

Tiziano annuì e salì di nuovo sul motorino con me, stavolta le sue braccia erano avvolte al mio busto e il suo viso era appoggiato alla mia spalla.

Ed eccoli là, quei due ragazzi che volevano girare per le strade di Roma con uno scooter scassato, a dire stronzate che si perdevano nel vento e a imbrattare qualche monumento con le risate che ci si appiccicavano sopra.

Arrivammo che il suo treno era già sul binario, entrambi con le gote arrossate dal freddo e le mani completamente congelate.

«Tra un po' è il nostro compleanno, torni?»

Gli sorrisi e annuii.
«Certo che torno».

D'altronde non avevamo mai festeggiato un compleanno divisi.

Tiziano tirò le labbra verso l'alto e mi attirò a sé, facendomi scomparire in uno dei suoi abbracci.

«Ti aspetto, allora», disse con la voce di chi ha paura di tradire la sua stessa promessa.

«Sì?»

«Sì», confermò.
Poi salì sul treno e io aspettai che partisse, salutandolo con la mano come in uno di quei stupidi film sentimentali, col cuore che martellava così forte che avevo paura potesse sentirlo pure lui da lì sopra.

Lo salutai e iniziai a fare il conto alla rovescia per quando l'avrei rivisto.

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