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18.

Ma non ti sembra un miracolo
Che in mezzo a tutto questo dolore e in tutto questo rumore
A volte basta una canzone
Solo una stupida canzone
A ricordarti chi sei

-Canzone contro la paura, Brunori Sas

Il viaggio di ritorno dalla Puglia toccò vette di imbarazzo non ancora sfiorate dal genere umano.

Martina continuava ad assillare Tiziano domandando di cosa dovessero parlare una volta rientrati a casa; Tiziano rispondeva vago, dicendo che se le aveva chiesto di discuterne, appunto, a casa, un motivo c'era; Diletta cambiava stazione di continuo sperando di smorzare un po' la tensione, ma strizzava il volante così forte che avevo paura si sarebbe staccato da un momento all'altro; Nicolò, nel sedile anteriore, continuava ad allungare la mano all'indietro e io, spiaccicato tra Tiziano e lo sportello, continuavo a fingere di non averla vista.

«Dile, mi stai facendo venire da vomitare. Puoi guidare senza tutte queste sbandate, per cortesia?»

Vidi gli occhi della mia amica roteare verso il tettuccio della macchina e le sue narici dilatarsi di parecchio.

«Siamo in autostrada, Martina, non su un sentiero di montagna. È praticamente tutta dritta».

«Allora prendi meno buche».

«Vuoi tornare a piedi? C'è un autogrill tra dieci chilometri, ti lascio lì?»

E fu così che Martina ammutolì, braccia incrociate al petto e sopracciglia increspate dallo sdegno di una risposta data con quel tono, come se lei fosse stata la ragazza più gentile del mondo.

Mentre guardavo il paesaggio scorrere davanti ai miei occhi con una velocità innaturale, mi ritrovai a pensare a come sarebbero cambiate le cose tra me e Tizio, una volta tornati a casa.

Lui avrebbe lasciato la sua ragazza e io avrei detto a Nicolò che per quell'estate non ci saremmo più visti.
Poi?

Per la prima volta in vita mia, non ero certo di cosa sarebbe successo a me e al mio migliore amico.
Era una novità devastante, mi sembrava di non avere più abbastanza terra sotto i piedi a sorreggermi.
Era come essere trascinati giù, in un vortice senza fine.

Con la coda dell'occhio vidi la mano di Nicolò farsi spazio verso di me e istintivamente cercai di spingermi ancora più indietro, sperando che il sedile mi inghiottisse fino al nostro arrivo.

Io e te, io e te
Perché io e te
Qualcuno ha scelto forse per noi
mi son svegliato solo, poi ho incontrato te
L'esistenza un volo diventò per me
E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Tra le tue braccia anche l'ultima paura morì

Mentre Lucio Battisti aggiungeva qualche altro graffio sul cuore, il mignolo di Tiziano s'intrecciò al mio, piccolo e potente.

Mi voltai verso di lui e annegai solo un attimo in quel mare che portava negli occhi, prima che mi sorridesse e mi riportasse a galla.

Io e te, vento nel vento
Io e te, nodo nell'anima
Stesso desiderio di morire e poi rivivere
Io e te
E la stagione nuova
Dietro il vetro che appannava, fiorì
Tra le tue braccia calde anche l'ultima paura morì

Cercai di bloccare la pellicola di pensieri che mi si stava palesando in testa.
Io e Tiziano.
Io e Tiziano.
Io e Tiziano.

Era questa l'unica immagine che si riproduceva nel mio cervello; un loop continuo che mi destabilizzava.

C'eravamo noi bambini, noi ragazzetti, noi adesso, noi domani. Con tutto il resto del mondo sfocato. Con nessun altro di importante per davvero.

Eppure io amavo.
Amavo eccome.
Amavo mio padre in una maniera difficile da spiegare, soprattutto a diciotto anni, quando la maggior parte dei ragazzi vede i propri genitori come nemici giurati.
Amavo mia madre, tutte le cose belle che di lei ricordavo e quelle che mi raccontavano gli altri. Amavo i miei nonni, persone semplici e genuine, con un sorriso sempre pronto ad accogliermi quando andavo a trovarli.
Amavo Diletta e la sua lingua biforcuta, il suo modo di essere sincera in ogni situazione.

Ma tutti gli altri erano sfocati, se al centro c'eravamo io e Tizio.

Tra le code in autostrada, le soste nei vari autogrille la doverosa fermata in Toscana per una fiorentina doc, arrivammo a casa che erano quasi le sette di sera.

La prima che Diletta decise di far scendere fu ovviamente Martina, che non perse occasione per lanciare a Tizio uno sguardo che prometteva fulmini e saette.

Il mio amico si sporse verso la conducente, le sussurrò qualcosa all'orecchio e poi salutò tutti, seguendo la sua ragazza fino al cancello di casa.

Non capivo perché Dile non fosse ancora ripartita; stava ferma con la macchina accesa e guardava verso Martina aspettando chissà cosa, spingendo anche me a fare lo stesso.

La vidi entrare, seguita da Tiziano, che però fece un balzo indietro all'improvviso e le chiuse il cancelletto pedonale praticamente in faccia.

Lo guardai correre verso di noi e salire in macchina come un fulmine, manco fosse in un film di spionaggio americano.

«Parti, parti, parti!»

Diletta ripartì a tutta velocità, mentre le imprecazioni di Martina si perdevano nel vento di quel caldo pomeriggio di agosto. Scoppiammo tutti in una risata liberatoria, col vento che entrava da ogni finestrino e l'arancione che iniziava a tingere il cielo.

Mi accasciai al sedile e voltai il viso verso Tiziano, per poi scoprire che lui aveva fatto lo stesso identico gesto. Ci guardammo per un po', i respiri ancora grossi per la risata appena scemata e gli occhi quasi lacrimanti, e io mi chiesi quanto sarebbe durata quella pace, quella sensazione di perfezione che sembrava aver invaso l'abitacolo.

Tizio si fece lasciare da me, obbligandomi così a rimandare il discorso che avevo pensato di fare a Nico.

Salutammo i ragazzi ed entrammo in casa; lo guardai gettarsi sul divano a peso morto, neanche avesse camminato per chilometri e chilometri, mentre io aprivo ogni finestra possibile. Mio padre aveva chiuso tutto prima di uscire e l'afa sembrava avere impregnato anche i muri.

«Fammi un ritratto», mi disse a un certo punto.

Mi ero appena seduto in soggiorno, sulla mia poltrona preferita, e lui se n'era uscito così, dal niente.

«Perché?»

«Perché ti voglio guardare mentre disegni».

Sgranai gli occhi e attesi che quelle parole smettessero di friggermi sulla pelle, poi mi alzai e andai a recuperare il mio album e qualche matita.

Tornai in salotto e feci delle ginocchia un sostegno per il foglio bianco, poi iniziai a tracciare qualche tratto del volto.

Disegnai leggero, delicato, per lasciare intendere il colore chiaro dei suoi occhi; forte, marcato, per quel ciuffo che gli ricadeva sempre sulla fronte.
Le labbra, quel piccolo neo lì accanto.
Il naso e le lentiggini che gli appartenevano da sempre, più concentrate al centro e poi soffiate giù, sulle gote.
Le ciglia lunghe, naturalmente incurvate verso l'alto, e ogni ruga d'espressione possibile.
Quella piccola cicatrice sulla tempia sinistra, quella della varicella; quella che dimostrava che eravamo insieme da sempre.

Dopo non so quanto tempo, il volto di Tiziano apparve sul foglio tra i tratti che le mie mani avevano tracciato.

Era venuto bene, ma nessun disegno sarebbe mai riuscito a rendergli giustizia.

Tizio si alzò dal divano e venne dietro di me, i gomiti appoggiati allo schienale della poltrona su cui ero seduto e il viso sporto in avanti, accanto al mio.

«Cazzo, Dome, è bellissimo».

Feci una smorfia poco convinta perché no, secondo me non era bellissimo.
Lui lo era, piuttosto.

«Cosa? Dai, veramente credi che non sia bello? Anzi, mi hai disegnato anche meglio di quello che sono».

«Ti ho disegnato per come ti vedo io».

Mi scappò così, senza che lo avessi deciso per davvero.
Era come se quelle parole fossero partite dalla pancia e avessero corso su, veloci veloci attraverso lo stomaco e mi fossero inciampate sulla lingua cadendo fuori, nel pericoloso mondo reale.

Certi suoni, certe lettere, certe cose... non sono fatte per stare qui, dove possono toccarle tutti.

Dovrebbero rimanere dentro di noi, nella pancia o nel cuore.
Nella testa, al massimo.

Quelle stupide, invece, avevano trovato il modo di fuggire da me e si erano schiantate su Tiziano, che ora mi guardava con gli occhi spalancati di stupore.

I più romantici ci avrebbero visto della meraviglia in quello sguardo; io ci vedevo qualcosa che non riuscivo a decifrare nel caos di tutti i pensieri che mi si stavano affollando dentro.

Ma lo vedevo sempre più vicino, questo era certo.
Tiziano si stava avvicinando piano piano, così leggero che avevo quasi paura che non lo avrei nemmeno sentito.

Lo squillo del suo telefono interruppe quel faticoso cammino che stava percorrendo verso di me, e io sentii la magia schiantarsi bruscamente; così bruscamente che mi fece quasi male il petto.

«Pronto? Sì, no, stavo per tornare. No, pa'... Sì, sono da lui. Ma perché? Sì, okay, arrivo».

Tiziano fissò il telefono per qualche secondo che mi sembrò durare ore, mentre io mi domandavo cosa gli avesse detto suo padre per fargli venir fuori quel tono così mortificato, così succube.

Quando mi guardò di nuovo, capii che era già andato via da me e che per tornare ci avrebbe messo tanto, tanto tempo.

«Devo andare a casa».

«Va bene», anche se in realtà non andava bene per niente, «Albertone ha fatto storie?»

Tornò a guardare in basso e strinse il telefono così forte che ebbi paura che lo avrebbe disintegrato.

«Credo che Martina si sia vendicata per averla piantata in asso, prima».

Mi alzai di scatto e mi piazzai di fronte a lui, a un palmo dal suo naso.
«Non devi tornare a casa se hai paura. Resta qua, domani ti accompagno io, magari con mio padre. Oppure vengo adesso e gli dico che, che ne so, che mi sto curando».

Tizio sorrise e scosse la testa.
«Tranquillo, gli dirò la verità. Che anche se tu sei gay, io non lo sono e che siamo solo buoni amici, com'è sempre stato».

In quell'istante percepii il mio cuore accartocciarsi su sé stesso e rallentare i battiti quasi fino a fermarsi.
A Tiziano lo vedevo appannato, ormai, così provai a sbattere le palpebre un paio di volte per non farglielo notare, non farglielo pesare.

«Dome, lo so che abbiamo parlato di quel veto... Ma questo non cambia niente. È stato solo perché a me stava sulle palle Nicolò e a te Martina. Lo sai, vero?»

No, a dire la verità non lo sapevo. E non è che non lo sapessi perché ignoravo la realtà e vivevo in un mondo tutto mio.

Non lo sapevo perché quella non era la verità.

«Certo», mentii.

Lui annuì, poi mi salutò e se ne andò lasciandoci lì, a me e a quel dolore che stava riempendo tutto il soggiorno, tutta la camera, tutto il cuore.

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