16.
Ora dopo ora si consuma un po' a morsi questa storia
ma noi, noi no
Puoi lasciarmi andare, puoi buttarmi via
Ma ogni stella in cielo se è tua, è mia
E tu respiri dalla bocca mia
Non lo vedi?
-Guardami, Ania Cecilia
Dovevo resistere solo per quel giorno, lo sapevo.
Era venerdì pomeriggio, il sabato mattina saremmo ripartiti per tornare a casa.
Mancava poco, eppure tutto sembrava remarmi contro, quella volta.
Nicolò e Tizio si punzecchiavano di continuo con battute e frecciatine, Martina non la smetteva di fare la stronza col sottoscritto e Diletta aveva ormai perso la pazienza a furia di fare da paciere con tutti.
Eravamo in spiaggia e avevamo deciso di fare una partita a beach, ma la fidanzatina di Tizio non sembrava soddisfatta.
«Maschi contro femmine non si può fare, siamo in maggioranza noi».
Io e i ragazzi ci guardammo: eravamo tre contro tre, chissenefrega delle regole ufficiali, volevamo solo fare qualcosa tutti insieme.
«Siamo pari. Io, Tiziano e Domenico. Tu, Diletta e Fede».
«Ah, Dome non fa parte della squadra femminile?», poi si coprì la bocca con la mano in un gesto di bon ton che non le sarebbe appartenuto nemmeno tra cent'anni.
Nicolò scosse la testa e Dile partì in avanti, pronta a darle una capocciata.
La fermai in tempo e mi posizionai al suo fianco, tenendola per la vita.
«Molto simpatica, come al solito. Ora giochiamo?»
«Se Tiziano sta in squadra con me, sì».
Cristo, che nervi che mi faceva venire.
Piantava queste pantomime degne di una bambina di tre anni, e la cosa peggiore è che Tiziano le dava sempre ragione, Dio solo sapeva il perché.
«Dai, Marti, abbiamo detto uomini contro donne».
«L'ha detto Nicolò, perché dobbiamo far scegliere lui?»
Dile provò a scattare ancora in avanti e di nuovo la tenni vicino a me.
«Va bene», tagliai corto pur di non sentirla più lamentarsi. «Tu, Tizio e chi altro?»
Le si aprì quel sorrisetto odioso che aveva e ci pensò su.
«Nicolò. Così voi femmine state insieme».
«Brava, e voi coglioni pure», ribatté Diletta.
Riuscii a trattenere una risata per miracolo, mentre Nicolò fulminava sua cugina per avergli implicitamente dato del coglione.
Martina, al contrario di me, era brava a giocare, non c'è che dire; si divertiva un mondo a fare le finte per farmi rovinare sulla sabbia.
Ogni volta che ne aveva l'opportunità mirava a un centimetro dal mio piede e direzionava la palla lì, facendomi sentire un emerito imbecille.
La mia occasione arrivò dopo un quarto d'ora di umiliazione: Diletta mi aveva fatto un passaggio splendido, era il momento perfetto per fare una schiacciata coi fiocchi.
Aspettai che la palla fosse all'altezza giusta e saltai in aria, colpendola con quanta più forza riuscii a metterci.
Guardai la traiettoria e vidi la scena come al rallentatore, mentre Martina sgranava gli occhi per la sorpresa e la sfera di cuoio viaggiava verso il suo viso a non so quanti chilometri orari.
Purtroppo, quello stronzo di Nicolò intercettò sia la palla che le mie intenzioni e, da bravo ragazzo qual era, si gettò su Martina spingendola a terra.
Da lì, il delirio: Tiziano approfittò dell'occasione per buttarsi su Nico, urlandogli di averla fatta cadere apposta; Martina si rialzò e iniziò a gridare a Tiziano che avrebbe dovuto colpire Nicolò; Nicolò cercò di divincolarsi dalla presa di Tizio con scarsi risultati.
Tentai di andare a sedare quella zuffa, ma Diletta e Federica mi trattennero, ognuna da un braccio.
«Non me l'hai fatta menare prima, almeno lascia che mi goda questo spettacolo».
Guardai Dile di traverso e intervenni al primo pugno che volò. Alla fine, Tiziano, un pretesto per mettergli le mani addosso l'aveva trovato.
Era da tutta la vacanza che l'aria era tesa tra noi quattro e la bomba era finalmente scoppiata.
Spinsi quel coglione del mio migliore amico sulla sabbia per allontanarlo e offrii il mio aiuto a Nico per farlo rialzare.
Quello che ricevetti in cambio fu una specie di pedata al polpaccio, data dal ragazzo steso a terra.
«Tra me e lui, aiuti lui?», mi domandò col fumo che sembrava uscirgli dalle orecchie.
«Aiuto chi non è stato così cretino da iniziare a menare».
Nico afferrò la mia mano e si tirò su, mentre io e Tizio ancora ci guardavamo in cagnesco.
«Noi torniamo a casa, così iniziamo a preparare i borsoni per domani», affermò Nicolò, ancora con la mano nella mia.
Si avviò e io lo seguii, perché l'unica soluzione sensata per quel pomeriggio mi sembrava quella di dividerci. Alla fine i problemi erano tra me e Martina, e tra Nicolò e Tiziano, che senso aveva rimanere assieme?
«Domenico!»
Sentii la sua voce ma continuai a camminare al fianco di Nicolò.
«Domenico, porca puttana!»
Era difficile.
Era così difficile andare avanzi senza voltarmi che per un momento, per un solo, piccolo momento, desiderai andare là e tirargli un pugno in faccia e poi baciarlo da morire.
Non avrei fatto nessuna delle due cose, lo sapevamo entrambi.
L'ultima sera decisi di rimanere a casa.
Non volevo uscire, non avevo voglia di fare baldoria in mezzo alla gente come se niente fosse.
Tutto l'inverno precedente l'avevo passato a vivere facendo finta di nulla, ed ero davvero stanco.
Inventai la scusa di un banale mal di testa e dell'essere stato esposto troppo al sole, salutai gli altri e mi appollaiai su una delle amache del giardino; avevo scelto quella meglio illuminata, così da poter disegnare senza dover sforzare troppo gli occhi.
Infilai gli auricolari e iniziai con qualche tratto semplice che la matita segnò su quel foglio ancora puro.
Piano piano, linea dopo linea, uno dei borghi visitati in quella settimana comparì tra i chiaroscuri del mio piccolo ritratto medievale.
C'era una finestra storta su quella torre e avrei potuto sistemarla, ma mi sembrava che rendesse quel disegno un po' più vero.
Non erano forse i difetti a rendere ogni cosa più reale, più viva?
«Dovresti deciderti a frequentare l'Accademia di Belle Arti».
Ludovico Einaudi aveva appena concluso la sua meravigliosa melodia e, in quel piccolo lasso di tempo che intercorreva tra una traccia e l'altra, la voce di Tiziano per poco non mi fece cadere dall'amaca.
Alzai gli occhi e me lo ritrovai lì, bello come solo lui sapeva essere, con quel sorriso aperto e quel dentino che sporgeva appena un po'.
Piccolo difetto che lo rendeva ancora più... Tiziano.
«Perché proprio quella?»
Lui fece spallucce e venne a sistemarsi su quel lembo di stoffa appeso con me, la testa vicino ai miei piedi e le sue infradito praticamente attaccate al mio naso.
«Non lo so, ti ci vedrei bene a Roma. La città eterna che ospita un artista senza tempo. Sei un po' eterno anche tu, in effetti».
«Eterno per chi?»
«Per tuo padre. Forse un po' per Diletta. Sicuramente per me».
Lo stomaco mi si strinse in un nodo che non si sarebbe sciolto nemmeno con quintali di balsamo.
Appoggiai foglio e matita a terra e misi le mani dietro la testa, sollevandola poi verso il cielo, o quel poco che se ne intravedeva tra le fronde degli alberi.
«Ci dovresti andare, a Roma. O magari a Firenze. So che ce n'è una anche a Milano».
Sbuffai una pernacchia.
«Insomma, ti sei informato bene per dove potrei fare domanda, eh? Che c'è, sta diventando troppo e inizi ad avere paura?»
Tiziano sbiancò, sgranando gli occhi e perdendo quel mezzo sorriso che aveva da quando si era sdraiato di fronte a me.
«Cazzo dici?»
Mi misi a sedere e lo guardai dritto negli occhi, deciso a non perdermici, quella volta.
«Dico che se ti spaventa tanto rimanermi accanto, allora sei tu che te ne dovresti andare, non io».
Mi alzai cercando di non perdere l'equilibrio, raccolsi le mie cose e marciai in casa senza voltarmi indietro, nemmeno quando mi sentii chiamare.
Era la seconda volta in quel giorno che ignoravo così platealmente i suoi richiami e la cosa sicuramente doveva farlo incazzare.
Ne ebbi la conferma quando mi piombò davanti, in salone, l'aria minacciosa di chi odiava l'indifferenza e le sue mani ancora addosso, ancora aggrappate a me.
Stava iniziando a divertirmi quel suo modo di urlare va' via con la bocca, ma supplicare un resta con il corpo.
«Questa settimana ha fatto schifo solo per colpa di Nicolò», decretò con la sfacciataggine di guardarmi dritto in faccia.
«Nicolò non c'entra un cazzo. Siamo io e te che facciamo schifo, ultimamente».
«Ti dico di no. Mi mette a disagio, fa battute di continuo e si sente superiore a tutti. Come si fa a stare con uno così?»
Non era vero.
Non ero innamorato di Nico, quindi non avevo di certo il prosciutto sugli occhi per colpa di un'infatuazione. Riuscivo benissimo ad essere oggettivo, e lui non era affatto uno che si sentiva superiore a nessuno.
«Parli del mio ragazzo o della tua?»
«Nicolò non è il tuo ragazzo. Una persona che scopi solo d'estate, se non hai niente di meglio da fare, non può essere definita il tuo ragazzo. Perché ti ostini a difenderlo così?»
Era arrabbiato.
Tiziano non si capacitava di come potessi tenere le parti di Nico e non le sue, ma non era così che stavano le cose.
Chiedeva a me perché mi ostinavo a difenderlo e invece era il primo che si incaponiva a trovare in lui cose assurde pur di... pur di fare cosa? Qual era il suo obiettivo? Ero così stufo, così stanco di quel comportamento assurdo che iniziai ad arrabbiarmi su serio. Staccai il braccio con stizza e lo spinsi indietro con forza.
«Ma che cazzo di problemi hai, si può sapere? È tutta la settimana che gli dai contro per il puro gusto di farlo! Attacchi Nicolò e non ti accorgi che hai una mezza vipera al tuo fianco che mi offende di continuo, e ti arrabbi pure se non prendo le tue parti!»
«Perché sei mio amico. Mio! Nicolò è arrivato dopo».
«Anche Martina».
Un gemito di frustrazione mista a rabbia gli uscì dalla gola e mi riverberò dritto nello stomaco; lo guardai accovacciarsi con le mani nei capelli. Dio, li avrebbe staccati se avesse continuato così.
Tirò su la testa di scatto, gli occhi arrossati e incattiviti.
«Veto».
«Cosa?» domandai incredulo.
«Metto un veto per Nicolò. Nicolò è un veto», si alzò piano e iniziò ad avanzare, facendomi indietreggiare per lo sguardo che aveva messo su.
Sembrava poter distruggere i muri solo con gli occhi; di certo avrebbe potuto distruggere me, se avesse voluto.
«Veto, veto, veto, veto!»
Lo ripeteva a voce sempre più alta, a un centimetro dal mio viso. Sentii la parete dietro di me e capii che da lì non ne saremmo usciti. Ero con le spalle al muro, letteralmente e metaforicamente.
«Allora, cosa dici adesso?»
Ridussi le palpebre a due fessure e scandagliai ogni centimetro del suo viso.
Non era il mio Tiziano, quello. Era diventata una persona diversa, una persona più cattiva, ed ebbi il terrore che una piccola parte di quel marcio di suo padre avesse iniziato a farsi strada dentro di lui, e io dovevo riprendermelo; gli afferrai il viso tra le mani e poggiai la fronte alla sua, in punta di piedi e di cuore.
«Dico che anche Martina è un veto. Da adesso in poi torniamo ad essere solo io e te, chiaro?»
Vidi l'azzurro dei suoi occhi farsi liquido e lo sentii annuire contro di me.
Mi sarei ripreso Tiziano a qualsiasi costo. A qualsiasi prezzo.
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