14.
Facciamo finta che posso schioccare le dita
E in un istante scomparire
Quando quello che ho davanti non mi piace, non è giusto
O semplicemente mi fa stare male
-Facciamo finta, Niccolò Fabi
Alla fine non riuscii ad usare nemmeno la scusa dei soldi, visto che Diletta mise a disposizione la casa che i suoi genitori avevano comprato per le vacanze.
Avevamo scelto di andare in Puglia: cibo ottimo, mare bellissimo e gente accogliente; la sfiga volle che fosse proprio il posto in cui i coniugi Romelli avevano deciso di investire quei tre o quattrocento mila euro, quell'anno.
Scendemmo dall'auto di Diletta che mi sembrava di aver affrontato un viaggio su un carro armato. Per i suoi diciotto anni i genitori le avevano regalato un Hummer; una macchinina piccola e senza pretese, insomma.
Mi ero dovuto sorbire per sei ore la voce stridula di Martina che cantava a squarciagola ogni canzone possibile e immaginabile, e Nicolò che raccontava tutti gli aneddoti relativi al suo primo anno in università.
Appoggiare i piedi al suolo mi sembrò un miracolo.
Più che una casa per le vacanze, quella di Diletta sembrava una vera e propria reggia.
Circondata da un giardino curato in maniera impeccabile -sua madre aveva una vera e propria ossessione per gli esterni, a quanto pare- la casa si ergeva su due piani: mega soggiorno, cucina all'americana, palestra e bagno con sauna al piano terra; camere da letto, altri bagni e sala proiezioni al primo.
Tutto rigorosamente sui toni del bianco e dell'azzurro, perché quella era la dimora estiva, ovviamente. Ah, già, c'era anche la piscina a sfioro, sul retro.
Di sicuro, se avessimo scelto di soggiornare in un albergo, avremmo avuto molto meno lusso di così.
Salimmo per scegliere le stanze e, com'era logico che fosse, Nicolò sistemò il suo bagaglio nella mia stessa camera, così come Martina fece in quella di Tizio. Diletta sarebbe stata raggiunta a breve da un'amica che abitava lì nei dintorni, quindi anche lei non sarebbe rimasta sola.
«Truppa, avete dieci minuti per disfare i borsoni e poi si scende in spiaggia. Chi c'è, c'è, Diletta non aspetta!»
Scoppiai a ridere per quella stupida rima e iniziai ad aprire la mia valigia, ma Nicolò non era della stessa idea, tant'è che mi trascinò sul letto con sé.
«Non mi pare di averti salutato per bene, prima».
Sorrisi in quegli occhi verdi e belli che aveva.
In effetti quella era la prima volta che ci vedevamo dall'anno precedente, ma quando lui e sua cugina erano passati a prendermi, in macchina c'erano già Tiziano e Martina, e io non avevo voluto prodigarmi in troppe smancerie.
Ma ora eravamo da soli, io avevo passato dei mesi da incubo e lui mi guardava come se fossi il ragazzo più bello del mondo. Mi lasciai baciare tra il profumo di lavanda che emanavano le lenzuola e mi lasciai accarezzare da quelle mani che sapevano sempre come farmi rilassare.
Il colpo alla porta mi fece trasalire, e quando alzai la testa vidi Tiziano fermo sulla soglia, il braccio ancora teso davanti a sé e il pugno ancora chiuso fermo lì, sul legno chiaro.
«Diletta ci sta aspettando giù», disse soltanto. Poi fece marcia indietro e sparì dalla mia visuale. Il suo sguardo così serio e duro mi fece venire la pelle d'oca e un dubbio tremendo iniziò a serpeggiare nella mia mente: Tizio aveva sempre detto che non gli interessava assolutamente quali fossero le mie preferenze sessuali, ma era anche vero che non mi aveva mia visto con Nicolò o con nessun'altro ragazzo.
E se la cosa lo avesse disgustato? Se la parte marcia di suo padre l'avesse contagiato?
Un conato di vomito mi fece accartocciare il volto in una smorfia.
«Tutto bene?», mi domandò Nico, mentre con una mano aveva preso a massaggiarmi la schiena.
«Sì, sarà stato il viaggio in auto», cercai di rassicurarlo.
Mi alzai e andai in bagno, portandomi dietro il costume e un asciugamano per fare una doccia al volo.
Dovevo scacciare quel pensiero infetto dalla testa con tutta la forza che avevo.
Mi svegliai di soprassalto quando qualcosa di gelido mi finì sullo stomaco. Alzai la testa di scatto e vidi che Tiziano mi aveva buttato
addosso un ghiacciolo.
«Stronzo».
«Come stronzo? È anche al cedro, il tuo preferito».
Sorrisi e lo scartai, iniziando a mangiare in fretta per evitare che mi gocciolasse addosso. Odiavo la sensazione di appiccicaticcio che lasciava.
«Gli altri?», domandai quando mi accorsi che, sotto gli ombrelloni, eravamo rimasti solo io e lui.
Tizio indicò il mare e io vidi i ragazzi che giocavano con un pallone gigante da spiaggia.
«Che cosa fai con Nicolò?», chiese mentre anche lui guardava gli strambi tuffi che faceva Martina pur di non far cadere la palla.
«In che senso?»
«Sei attivo o passivo? O vi scambiate i ruoli?»
Mi sentii avvampare e per poco non mi strozzai con quel diavolo di ghiacciolo.
«Ma che cazzo di domande fai?»
Tiziano fece spallucce, gli occhi sempre puntati altrove.
Non avevamo mai parlato di quelle cose, noi, mai. E adesso, tutto ad un tratto, gli veniva in mente che forse era una persona curiosa, una che voleva sapere il mio ruolo a letto, ma non si degnava nemmeno di guardarmi in faccia mentre lo chiedeva.
Se ne stava lì, steso sulla sua stupida sdraio, con la caviglia destra che batteva freneticamente nonostante fosse appoggiata alla sinistra; con quell'espressione strafottente che non gli avevo mai visto addosso; con quel ghiacciolo che gli si stava sciogliendo in mano.
Mi alzai di scatto e feci per avviarmi verso gli altri, ma Tizio mi afferrò il polso non appena gli passai accanto e mi trascinò a un soffio dal suo viso.
«Non voglio sentire un fiato, stanotte».
Me l'aveva detto così, puntando quegli occhi di mare nei miei, mentre le dita continuavano a stringere la carne in una presa al limite del doloroso.
C'era una stata una sorta di minaccia in quella frase, ma il suo volto era talmente serio che non riuscii a chiedergli: altrimenti?
Altrimenti cosa fai, Tiziano?
Cosa succede se mi senti scopare con qualcun altro? Anzi, no: con qualcuno.
Tentai di divincolarmi da quella morsa, ma lui la rinforzò e mi portò ancora più vicino, col naso che addirittura sfiorava il suo e quel respiro che mi si infrangeva addosso come una maledizione, o una promessa.
«Mi hai capito?»
Annuii, e solo allora Tizio mi lasciò andare.
Quella fu la conferma che ancora non avevo avuto: io, a quella vacanza di gruppo, non avrei dovuto partecipare.
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