12.
Non servono bugie per me che so vedere
Che cosa si nasconde in ogni tua espressione
Una carezza data, data con tenerezza
È come regalare al dubbio almeno una certezza
E tu lo sai quando lo dico cosa intendo
Amore scusami se ancora ti difendo
-Basti solo tu, Emma Marrone
L'ultimo anno di superiori era iniziato da neanche un mese e a scuola già vedevo le occhiate che mi lanciavano gli imbecilli.
C'era chi non si risparmiava qualche battutina a voce alta, non appena mi camminava accanto, e chi si limitava a bisbigliare qualcosa all'orecchio dell'amico; come se fossi stato così stupido da non notarlo.
Quando passavo io c'era brusio, e questo mi faceva venire voglia di tingermi con i colori più accesi che sarei riuscito a trovare sul mercato.
Ah, che pazienza! E pensare che proprio poche settimane prima avevo deciso che avrei dato una tregua ai miei poveri capelli, ormai sfibrati.
«Oggi pomeriggio mi fai la tinta fucsia?», domandai a Tizio mentre stavamo scendendo al piano terra per fumare una sigaretta.
«Non posso».
«Perché?»
«Ho un appuntamento», disse alzando e abbassando le sopracciglia, con un sorriso stupido sul viso che mi fece venire voglia di dargli un pugno.
«Con chi?»
«Con la Marti».
«E chi è?»
«Ma dai, è quella di quarta. La conoscono tutti!»
Io non ero tutti e non conoscevo nessuna Marti. E poi per cosa era conosciuta, per essere una strafiga? E allora ecco spiegato perché non ne avevo mai sentito parlare.
Era una che la dava via come il pane? Ecco spiegato ancora meglio perché fosse la prima volta che sentivo il suo nome.
«Beh, io no», risposi piccato.
Tiziano si accese una Marlboro non appena arrivammo nel cortile scolastico, poi porse l'accendino anche a me e io feci lo stesso.
«Non fare il geloso. Sei stato tutta l'estate con Nicolò, non ne hai il diritto», e mi fece un occhiolino.
«Non sono stato per niente tutta l'estate con Nicolò. Sono stato più con te che con lui, come sempre».
Era la seconda estate che Nico stava da sua cugina Diletta e, come l'anno precedente, anche quella appena passata l'avevamo trascorsa frequentandoci.
Questo non voleva di certo dire che avessi trascurato Tiziano.
Lui era la mia priorità, come sempre.
«E io starò più con te che con Martina, ma non oggi».
Annuii con fare stizzito, gettai la sigaretta ancora a metà nel posacenere e tornai in classe marciando.
Quel pomeriggio mi feci la tinta da solo, per fortuna il risultato non fu disastroso.
Feci per mandare una foto a Tizio con scritto: "Visto? So fare anche da me", poi cancellai tutto e andai a posare il telefono sul comodino in camera, giusto per non avere l'impulso di controllarlo ogni due secondi.
Misi su un cd nello stereo del salotto e mi accoccolai sul divano col mio album da disegno in grembo.
Sfioravo i fogli leggeri col carboncino, disegnavo tratti e sfumavo piano. Era una sorta di magia, per me: partivo da una linea e mi sentivo come in trance, mi risvegliavo da quel sortilegio solo a disegno finito, quando finalmente tutto acquistava un senso.
Quel giorno guardai il foglio che ritraeva due mani intrecciate: una maschile, dalle vene pronunciate, e l'altra femminile, con le dita affusolate e qualche anello ad adornarle.
Chissà se chi si tiene per mano si ama di più di chi si guarda soltanto, o si abbraccia, mi chiesi.
Come succedeva sempre quando disegnavo, anche quel giorno mi stupii di come fosse trascorso veloce il tempo: si erano fatte le undici e io dovevo ancora cenare.
Mangiai un panino al volo e chiamai mio padre per sapere se era andato tutto bene al congresso a cui stava partecipando. Si sincerò che io non avessi nessun problema, poi disse che sarebbe andato a bere qualcosa con qualche collega e ci salutammo.
Mi infilai sotto le coperte che era quasi mezzanotte e lo sentii scavalcare pochi minuti dopo, come al solito.
Non frequentavo casa sua da un po' di mesi, ormai; da quando avevo scoperto che suo padre sapeva di me e che l'aveva picchiato per questo, quindi Tizio aveva preso l'abitudine di intrufolarsi in camera mia di nascosto, dopo che i suoi genitori si erano addormentati, poi scappava via la mattina presto prima che si svegliassero.
Si infilò sotto al lenzuolo e prese la mia mano nelle sue, la fronte appoggiata alla mia; quella sembrava essere diventata la sua nuova posizione preferita.
«Com'è andato l'appuntamento?», domandai a bassa voce, anche se sapevo che nessuno avrebbe potuto ascoltarci.
Lo sentii sorridere nel buio e qualcosa dentro di me si fermò, in attesa.
«Mi piace, Dome. Mi piace un bel po'».
Mi sembrò che nulla fosse ripartito, dopo quella confessione. Era ancora tutto lì, bloccato nel tempo, come se il mio corpo rifiutasse di accettare quella verità.
Tiziano aveva quasi diciotto anni e qualche esperienza con le ragazze, ma mai, mai l'avevo sentito dire una cosa del genere. E nemmeno io l'avevo mai detta.
Restò in silenzio per un po', poi, con la voce che mi parve tremare appena, aggiunse: «È che siamo grandi, Dome. Non possiamo-»
Annuii, bloccando qualsiasi cosa gli stesse per uscire da quelle labbra bugiarde.
Annuii, grato che non ci fosse abbastanza luce da fargli vedere la smorfia che mi stava sfigurando il volto.
Annuii e mi voltai dall'altra parte, sentendo le sue braccia subito dopo cingermi la vita, e la sua fronte appoggiata alla mia nuca.
Non potevamo, diceva lui, eppure continuava a fare.
«Tanto non sei tipo da storia seria», dissi a mezza voce. «Scommettiamo?»
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