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04.

Il sapore di un bacio ti mette i brividi
Ti lasci andare e chiudi gli occhi
Poi ti dimentichi del resto

-Il sapore di un bacio, Raf

Alla fine venne fuori che quel coglione di Stefano aveva pure ragione: ero gay e manco me n'ero accorto.

Ci pensò Tiziano a farmelo capire, perché lui aveva questa sorta di dono speciale: vedeva le cose ma non te le diceva mai chiaramente, ti portava a comprenderle a modo suo.

Avevamo sedici anni ed eravamo alla festa organizzata da Diletta Romelli, la nostra compagna di classe. Diletta era forse la più ricca di tutta la scuola, viveva in una villa di circa quattrocento metri quadri e aveva addirittura i domestici a suo servizio.

I suoi genitori viaggiavano di continuo e lei ne approfittava per invitare praticamente l'intero paese.

Casa sua diventava una specie di quei villini che si vedono nei film americani: alcool che scorreva a fiumi, luci stroboscopiche e tanti, ma davvero tanti ragazzini in piena crisi ormonale.

Io e Tizio quella sera ci preparammo a casa mia, anche se lui mi prendeva sempre per il culo quando gli proponevo di farlo; diceva che quelle erano cose da femminucce.

A me sinceramente non me ne fregava un cazzo, io volevo che ci preparassimo insieme perché quello voleva dire avere più tempo per noi, per cazzeggiare anche nel pomeriggio e mangiare qualcosa prima di uscire.

Comunque lui, dopo avermi perculato, alla fine cedeva sempre e arrivava con lo zaino in spalla per portarsi il cambio dei vestiti. Quello era il periodo del look finto trasandato: pantaloni lenti che sembravano cadere da un momento all'altro e maglioni larghi, ma non abbastanza da coprire il fisico alto e slanciato che stava iniziando a prendere il posto dello stecchino che era stato fino a poco tempo prima.

Io, invece, mi vedevo sempre uguale: non ero cresciuto in altezza, restando nel mio modesto metro e settantacinque, e non ero riuscito a far venir fuori nemmeno un accenno di muscolo. C'è da dire che, a quell'età, mi sembrava più sensato nutrire lo spirito piuttosto che il fisico.

Quel mese avevo i capelli con le punte di un azzurro elettrico meraviglioso, e tanto bastava a farmi sentire a posto con me stesso.

Arrivammo a casa della Dile che erano quasi le dieci di sera; il cancello principale, alto quasi quattro metri, era stato lasciato direttamente aperto e il vialetto che portava alla sua villa era illuminato da decine e decine di fiaccole accese per l'occasione.

Noi viaggiavamo sul Booster scassato che era appartenuto a mio cugino molti anni prima, ma sinceramente non ce ne fregava molto, anzi! Quando metà scuola si girò al nostro arrivo, perché la marmitta bucata faceva un rumore improbabile, io e Tizio scoppiammo a ridere e scendemmo a fatica da quel catorcio a due ruote.

Andammo a salutare i nostri compagni di classe e ci fermammo a chiacchierare con loro, usciti per fumare una sigaretta. I Romelli erano sì permissivi, ma guai a lasciare odore di fumo in casa!

All'interno i ragazzi ballavano in ogni angolo disponibile, rendendo quasi impossibile riconoscere la mobilia della casa. Io però la conoscevo a memoria, perché Diletta l'estate precedente l'avevo frequentata.

Ero andato da lei ogni week end e ci eravamo baciati un po' ovunque, e ci eravamo toccati un po' ovunque.

Tiziano diceva sempre che lei non era adatta a me, che mi ci voleva qualcuno di meno snob, più terra terra; io gli rispondevo che non la conosceva per niente, e che se l'avesse fatto avrebbe cambiato idea. In realtà non era vero: Dile era davvero snob e sono certo che a Tiziano non sarebbe piaciuta proprio per niente, ma era la mia ragazza e non volevo che si parlasse male di lei.

Comunque finita l'estate l'avevo lasciata perché avevo capito che neanche a me piaceva poi tanto. Per fortuna era abituata a queste storie brevi, non se la prese e riuscimmo perfino a rimanere amici.

Quella sera, con tutta la bolgia presente, la villa sembrava una casa come tante altre. Non si notava il lampadario in cristallo appeso al centro esatto del salone e nemmeno il marmo tirato a lucido del pavimento. I quadri antichi di cui erano disseminate le pareti potevamo tranquillamente essere scambiati per poster di boyband del momento, e il tavolo da pranzo in stile barocco non era imponente come al solito.

Mentre Tiziano parlava con qualche ragazza, io andai a prendere da bere in cucina; uno dei vantaggi dell'avere un'amica ricca era sicuramente l'alcool a disposizione durante le feste.

«A te non t'ho mai visto. Chi sei, un puffo?»

Mi girai con la migliore delle mie espressioni incazzate, pronto a dirne quattro a chiunque avesse parlato, ma rimasi interdetto non appena i miei occhi incrociarono i suoi, di un verde così brillante da risultare quasi fastidioso.

Era un bel ragazzo, non c'è che dire, e aveva su un sorriso da stronzo che era tutto un programma. Teneva in mano un bicchiere con del liquido scuro all'interno e si divertiva a farlo arrivare fino al bordo, per poi lasciarlo ricadere giù in un movimento rotatorio che lasciava quasi ipnotizzati.

Comunque mi aveva appena dato del puffo, non so se fosse perché ero bassino o per via dei miei capelli, fatto sta che non meritava le mie attenzioni. Gli diedi di nuovo le spalle e ripresi a versarmi da bere, anche se lui non sembrò della mia stessa idea.

«E dai, ti sei offeso? Guarda che scherzavo. Anzi, in realtà è proprio un bel colore».

Quindi si riferiva ai capelli, non alla mia altezza. Magari avrei potuto anche perdonarlo.

«Solo che non mi pare di averti mai visto con gli amici di Diletta... Come ti chiami?»

Sembrava intenzionato a non mollare, quindi dopo aver ingoiato un sorso di vodka mi decisi a rispondergli.

«Domenico».

«Domenico? Quel Domenico? Quello che l'ha lasciata un annetto fa?»

Wow, dovevano essere molto intimi se Dile gli aveva raccontato i dettagli sulla nostra storia.

«Proprio io», risposi facendo spallucce. Sinceramente non mi sembrava una cosa degna d'importanza il fatto che l'avessi lasciata, invece lui l'aveva detto come se fosse un evento raro.

«Cazzo», e mi diede una pacca sulla spalla. «Sei diventato quasi una leggenda».

Inarcai un sopracciglio in una muta domanda e lui si mise a ridere. Mi ritrovai a pensare che avesse un bel sorriso.

«Diletta non viene mai lasciata da nessuno, è sempre lei che pianta in asso i ragazzi non appena si stufa».

Annuii e iniziai a chiedermi quale fosse il ruolo di quel ragazzo nella vita della mia ex.

«Quindi tu sei... Il tipo del momento? State insieme?»

Rise di nuovo e scosse la testa, poi mi informò che Diletta era sua cugina e io mi sentii quasi sollevato.

Dentro casa iniziava a fare un caldo insopportabile, così mi avviai verso la porta che dava sul cortile posteriore.

«Non so come ti chiami, comunque», dissi senza voltarmi, ma sapendo che mi stava seguendo.

«Nicolò», e mi appoggiò una mano sulla schiena.

Fuori si stava decisamente meglio. Maggio era appena iniziato ed era bastata una maglietta di cotone leggero per non avere né troppo freddo né troppo caldo.

Adoravo quella parte di giardino: appese agli alberi decine e decine di lanterne illuminavano l'area con fiochi fasci giallognoli e biancastri, e i tronchi erano stati decorati con fili di luci che rendevano tutto quasi magico; le siepi, tenute in ordine in maniera quasi maniacale per volere della signora Romelli, formavano una specie di labirinto che portava al centro esatto della tenuta, ovvero la piscina a sfioro, grande quanto casa mia e illuminata solo dai faretti sul suo fondale. Mi diressi proprio lì, e tra una chiacchiera e l'altra io e Nicolò ci ritrovammo seduti sul bordo con i piedi a mollo.

Aveva tirato fuori una canna da chissà dove e ce la stavamo smezzando tra le risate dovute al niente. Si stava bene con lui, era divertente ridere di tutto e parlare di niente.
Era diverso.

Sentii il telefono suonare ed ero quasi deciso ad ignorarlo, poi mi ricordai che quella era la suoneria solo di Tiziano, e che quindi poteva essere importante.

Quando aprii il messaggio non volevo crederci, aveva scritto solo: scommetto che non hai il coraggio di baciarlo.

Ma dove cazzo era nascosto? Ci aveva seguiti fin lì e io non me nero neanche accorto.

Guardai Nicolò e i suoi occhi così verdi; gli guardai le labbra, i denti perfettamente allineati che mostrava quando queste si aprivano in un sorriso; gli guardai le mani, così vicine alle mie, appoggiate al bordo della piscina. Poi mi sporsi appena e lo baciai, perché Tiziano era orgoglioso, ma io lo ero altrettanto e nessuno doveva dirmi che non avevo il coraggio di fare qualcosa.

Lo baciai e mi eccitai un casino; sentire il suo fiato caldo sulla mia bocca fu qualcosa che non avrei potuto immaginare. Era diverso da quando baciavo Diletta; questo era molto più forte, molto più intenso. Più giusto.

Tornammo alla festa dopo un'ora passata a scambiarci sorrisi e carezze poco caste, poi Nicolò mi salutò con la promessa che si sarebbe fatto risentire presto.

Quella sera Tiziano decise di tornare a dormire a casa, anche se nel pomeriggio eravamo rimasti d'accordo che si sarebbe fermato da me.

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