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9 ▪️ IL FANTASMA DI JAQUELINE

«Toglimi una curiosità. Come l'hai capito?» Mi domanda Milo, mentre saliamo a bordo della sua macchina.

«Facendo una serie di semplici collegamenti. Quando io e Alex litigavamo, ogni volta lui se ne andava di casa, portando Fabio con sé. Forse per distrarlo dai climi tesi che si creavano tra le mura domestiche e farlo svagare un po'.»

«E andavano a La Spezia?»

«Entrambi amavano il mare e... spesso sì. E sceglievano sempre lo stesso hotel, sulla costa.»

«Quindi tu pensi possa essere lì.»

«Da bambino, ogni tanto, Fabio si confidava con me. So per certo che i paesaggi delle Cinque Terre li portava nel cuore. E Sarzana, luogo in cui Valerio ha spedito Fabio, è una cittadina in provincia di La Spezia. Probabilmente Fabio ha usato quei soldi per soggiornare lì. Per rivivere il suo passato felice, assieme al padre. Anche se ora Alex è in America.»

«Mi auguro che Valerio lo trovi. La Spezia non è una città piccola.» Sospira Puglisi, mettendo in moto la sua Jeep. «E mi auguro anche che fidarsi di lui non sia stato un enorme sbaglio.»

«Te l'ho detto, sceglievano sempre il solito hotel, nel quartiere del Torretto. Se la mia intuizione è giusta sarà un gioco da ragazzi trovarlo.»

Scendiamo lungo Via Prögler.

«E per quanto riguarda Valerio, non ti preoccupare, ispettore. Con le informazioni che abbiamo sul suo conto non sarà così stupido da tradire il patto.»

*****

Parcheggiamo l'auto in uno spiazzo sterrato, circondato da una fitta boscaglia. L'auto del King, una scassata cinquecento rosso scuro, è posteggiata a fianco alla nostra, all'ombra di un grosso larice.

«Buona fortuna, ispettrice.»

«Me le caverò.» Cerco di rassicurarlo. «Ricorda che, ben nascosta, ho una pistola.»

Il suo sguardo, cupo, è perso nel vuoto. Il volto è contratto in un'espressione tesa. E non lo nascondo, anche io lo sono. Sono consapevole di non essere all'altezza del compito e ho paura di ciò che accadrà.

«Sì, avrai anche una pistola, ma ricordati che lui avrà un fucile.»

Deglutisco. Le mie certezze iniziano a vacillare. «Forse venire qui non è stata una buona idea.»

L'arresto degli strozzini è stato solo un colpo di fortuna. Non mi capiterà una seconda volta.

«Ma tu sei più intelligente.» Si volta verso di me, mi fissa in un modo... strano. Intenso potrei definirlo. Mi manda messaggi che non riesco a decifrare.

«Hai qualcosa sul labbro.» Mi dice.

«Eh?»

«Hai qualcosa qui.» Si tocca il labbro inferiore con l'indice.

«Che cosa?» Provo a toglierlo, strofinando con un dito. «Ora?»

«No, no. C'è ancora.»

Avvicina una mano al mio viso, con il palmo mi sfiora una guancia, con il pollice il labbro inferiore, e io provo ancora una volta quella strana sensazione. Quel calore che mi avvolge, quella voglia di stringerlo a me.

Dannazione, no! Non adesso, devo concentrarmi, restare lucida. Non posso distrarmi proprio ora!

Ma poi succede. Milo si sporge lentamente verso di me e mi bacia.

Lì per lì rimango di pietra, muscoli contratti e cuore a mille. Ma poi chiudo gli occhi e mi rilasso, ricambiando il delicato e casto bacio e lasciandomi trasportare dalle emozioni. Scopro un lato di me rimasto per troppo tempo sepolto sotto metri di ghiaccio e sofferenze, lasciandomi scaldare da quel contatto fugace.

«Okay, okay.» Lo interrompo dopo un po', prendendolo per le spalle e scostandomi da lui. «Ora però è meglio che vada.» Accenno un sorriso per mascherare il disagio. Improvvisamente ho un caldo tremendo, come se qualcuno avesse acceso un falò nell'abitacolo della macchina.

«Nel caso il suo fucile battesse la tua intelligenza.» Si gratta la testa, ancora più imbarazzato e impacciato di me, scompigliandosi la capigliatura perennemente in ordine. «Ma sono sicuro non succederà.»

*****

Cammino lentamente lungo lo stretto sentiero, calpestando un tappeto intessuto di rami secchi e di aghi di pino, distribuiti in modo uniforme sul terreno, a tratti umido e fangoso.

Attorno a me il bosco è talmente fitto che crea zone buie, impedendo quasi totalmente la vista del cielo.

Dovrei essere vigile e attenta, captare ogni minimo rumore, dallo scricchiolio di un ramo a un fruscio sospetto. Dovrei anche aguzzare la vista e riuscire a individuare, in quelle zone buie, un eventuale movimento. E invece il mio sguardo è perlopiù rivolto a terra (forse non è stata una buona idea indossare un paio di stivali col tacco) e la mia mente concentrata su ben altri pensieri.

Ho appena baciato il mio collega di lavoro, Milo. Milo lo scansafatiche, l'appassionato di enigmistica che passa un quarto delle sue ore lavorative a fare sudoku, l'uomo che ha fatto quella pessima battuta sul fucile e che si è presentato a casa mia con gli occhi arrossati dal pianto solo perché mia cognata era partita per l'America. E io l'ho baciato.

Eppure non provavo niente per lui. Almeno fino all'altro giorno. Fino a quando non l'ho visto impugnare una pistola in modo sicuro, minacciare quel delinquente di Valerio quasi con spavalderia, infine premere il grilletto e sparare a quello strozzino senza la minima esitazione. Brevi attimi in cui ho visto in lui una persona più matura, più affidabile e responsabile, diversa.

Ma ora? Che cosa provo? Provo davvero qualcosa per lui o è solo il brivido della curiosità?

Quei pensieri mi fanno arrossire di nuovo.

Ma uno sparo improvvisamente mi sveglia, facendomi schizzare il cuore in gola.

Con il fiato sospeso e l'adrenalina a mille mi appiattisco contro il tronco di un albero, guardandomi attorno.

Tra la boscaglia, dietro di me, odo fruscii e scricchiolii, e scorgo una tuta mimetica muoversi, a diversi metri di distanza. In silenzio e senza spostarmi di un millimetro la seguo con lo sguardo.

Dopo un po' riesco a vedere la sua figura chiaramente, accovacciata a terra.

È lui. Manuel Salvoro. Il King. Il leader della setta che per anni ha agito indisturbata, macchiandosi di crimini orrendi, mietendo vittime.

Sento le mani, appoggiate al ruvido tronco, bagnarsi di sudore freddo.

È arrivato il momento. È ora di agire.

Prendo un paio di respiri profondi ed esco dal mio nascondiglio, cercando di farmi coraggio.

Come ho catturato gli strozzini di Valerio, riuscirò anche in questa impresa. Mi ripeto, seppur poco convinta. Devo solo sperare in un po' di fortuna.

Continuando a guardarlo, mi avvicino di qualche passo, cercando di sembrare disinvolta, e di non darlo a vedere che, in realtà, sono terrorizzata.

Lui non è lì. Non è di fronte a me. Sto solo facendo una normale passeggiata nel bosco. Mi dico.

Dopo un po', Manuel, percependo la presenza di qualcuno, alza la testa di scatto, inchiodandomi con lo sguardo. I suoi occhi si sgranano in un'espressione sconvolta quando mi riconosce, e quando si alza in piedi la grossa lepre che regge per le orecchie gli scivola di mano, appiattendosi a terra in un ammasso di pelo e sangue fresco.

Mi avvicino ancora e lui rimane immobile, a fissarmi, come pietrificato da una visione mistica.

Cerco di mantenere un'andatura costante e un'espressione neutra, per non spezzare la sorta di magia che si sta creando, fin quando non lo raggiungo.

Ci fissiamo negli occhi a lungo, senza dire niente. Quegli occhi che per giorni hanno riempito i miei incubi, ora non mi fanno più così paura. Lui avrà anche un fucile sulla schiena, ma io ho un'arma più potente tra mani, e non mi sto riferendo a una pistola.

«Come... come mi hai trovato?» La sua voce è roca e profonda. Mi provoca un brivido lungo la spina dorsale.

«La domanda non è come io ho trovato te... ma come tu hai trovato me.» Il mio tono di voce è piatto, i muscoli del viso e del corpo rilassati.

Devo mantenere la calma e recitare il mio copione in modo impeccabile. O andrà tutto a monte.

Ma mi rendo conto che non è affatto semplice. Il solo pensiero che questo uomo abbia ucciso due donne innocenti mi fa venir voglia di piantargli una pallottola dritta in fronte. O di fuggire a gambe levate e lasciarmi alle spalle quest'assurda storia.

«Chi sei?» Mi chiede, confuso, corrugando leggermente le sopracciglia.

Accenno un sorriso, abbassando lo sguardo sull'animale morto accasciato ai suoi piedi. «Sei così cambiato in questi anni. Ma ciò che non è cambiata è la tua passione per la morte.» Sollevo il capo e lo fisso nei suoi occhi chiari, colmi di segreti inconfessabili. «Ti piace cacciare la tua preda. Ti piace adocchiarla da lontano, poi avvicinarti a lei lentamente e in silenzio, senza farti notare. Poi prendi la mira, con calma, senza fretta e...» sollevo un braccio in sua direzione, con pollice e indice a formare una specie di pistola, puntata alla sua fronte. «Boom!» La abbasso lentamente. Lui è smarrito.

«Si può sapere chi sei?!»

«Non ti ricordi quando andavamo a caccia assieme? Lepri, caprioli. Mi hai insegnato tu a sparare. Piazzavi una fila di lattine su un'asse di legno, sostenuta da due cavalletti. Io impugnavo il fucile in modo goffo, tu dietro di me mi circondavi con le braccia, appoggiavi le tue mani sulle mie, aiutandomi a prendere la mira. Mi sussurravi nell'orecchio: "prenditi tutto il tempo che ti serve, non avere fretta". Ho sempre pensato fosse solo una banale scusa per inalare il mio profumo. Ti piaceva così tanto... un po' come quello del sangue. Ma poi quel fucile l'hai usato su di me.»

Il suo volto si incupisce.

«Jaqueline...» sussurra tra sé e sé, perso in ricordi lontanissimi.

«Picchiarmi con un bastone, fino a spezzarmi tutte le ossa, non era stato abbastanza. Mi hai anche piantato qualche pallottola in qua e in là, tanto per aumentare l'agonia. E l'hai fatto con una rabbia cieca, selvaggia. Come impossessato da un demone folle e malvagio.»

Lui scuote il capo. Noto che i lunghi capelli, sulle punte, sono leggermente sporchi di sangue.

«No. Tu non sei Jaqueline, non puoi essere lei. Lei è morta.»

«Ne sei così sicuro?»

«Chi ti ha parlato di Jaqueline? Anna?»

«Ho solo parlato con lei per metterla in guardia dal tuo amico... e da te. Ho assunto questo aspetto per non farmi riconoscere, ma quando tra la folla, nonostante tutto hai capito chi ero, sono fuggita.»

«E per quale motivo lo avresti fatto?» Mi chiede, assottigliando lo sguardo.

«Perché l'ho avvertita? Per impedirti di mietere un'altra vittima.»

«E Darina? Darina Volkov. Lei mi sono divertito un mondo a ucciderla, era una tale antipatica. Come mai lei non l'hai avvertita?» Mi chiede, scettico.

«Non l'avevo previsto. Non credevo l'avresti fatto ancora. Dopo aver ucciso me ti sei tormentato per anni. E ammetto che torturati tutte le notti stendendomi al tuo fianco, sia stata una vendetta piuttosto gradevole.»

«Durante i primi tempi credevo di impazzire. Sentivo il suo respiro, il calore del suo corpo... come se la mia Jaqueline fosse stata lì. Ma poi quando aprivo gli occhi non c'era nessuno.» Socchiude le palpebre, pervaso da un dolore profondo, che sul suo viso traccia una ruga al centro della fronte. Le labbra sono serrate in modo innaturale.

«Perché mi hai uccisa?» Chiedo, mantenendo un tono piatto e freddo.

Lui pare sinceramente pentito. «Ero fuori di me. È stato uno stupido errore. Ma quando me ne sono reso conto era troppo tardi, e l'unica cosa che ho potuto fare era sparare qualche colpo di fucile per far cessare l'agonia.»

«Essere fuori di sé. Che banale e patetica giustificazione.»

Dopo quelle mie dure parole, Manuel per un po' non dice niente. Sembra meditare, con lo sguardo perso nel vuoto e la mente affollata di ombre.

«Una fiamma che brucerà il re... ma certo.» Lo sento sussurrare a un certo punto. Non credo stia parlando con me, ma con una parte molto intima di se stesso. «Jaqueline... il rimorso mi ha bruciato per troppi anni dopo quell'incidente.»

Finalmente torna a puntare il suo gelido sguardo su di me, storcendo la bocca in un sorriso amaro. «Ma io non ho paura di te. Ormai ho fatto pace con il male che ho seminato. Se dopo quell'incidente davvero sei rimasta al mio fianco per tutti questi anni, dovresti conoscermi abbastanza per saperlo.»

«Quindi non hai paura ad ammetterlo. A dirlo a voce alta che attorno a te hai seminato solo dolore. Che mi hai uccisa, e che dopo di me è stata la volta di quella povera ragazza: Darina Volkov.»

«Perché dovrei averne? Ho ucciso Jaqueline Arrojo e Darina Volkov, e probabilmente finirò all'inferno per questo. Ma io non ho paura.»

«Lo ammetti con una leggerezza che è... sconcertante.» Dico. «Non hai cuore. Non hai scrupoli.»

C'è una breve pausa di silenzio in cui continuiamo a fissarci. I suoi occhi nascondono demoni che si dimenano nell'oscurità.

«Perché sei qui? Che cosa vuoi da me? Scuse?» Sibila tra i denti, dopo qualche istante.

Non rispondo. Forse ho già tutto quello che mi serve.

Quando formulo quel pensiero, un timido raggio di luce filtra tra i rami degli alberi e mi accarezza il volto.

In quel momento, per una frazione di secondo, la sua espressione cambia. Scorgo un lampo nei suoi occhi, forse rabbia. Ma poi, di nuovo, i muscoli del suo viso si distendono in un'espressione più serena.

«Mi dispiace Jaqueline.» Sussurra, allungando una mano verso di me. «Sono stato uno stupido... non meritavi di morire.»

Quando le sue dita fredde e umide di sangue mi accarezzano una guancia, un brivido gelido mi corre lungo la spina dorsale, come una scarica elettrica da mille volt. Un contatto sgradevole, mi dà quasi la nausea. Mi sembra di sentire lo sporco dei suoi crimini attaccarsi alla mia pelle come una malattia contagiosa.

Ma poi la sua mano sale alla mia tempia, la sua espressione lo tradisce, si irrigidisce ancora. È in quell'istante che capisco che cosa sta succedendo, e agisco d'istinto.

Quando i suoi occhi si posano sull'obiettivo della telecamera e la sua mano sul cerchietto che porto sulla testa, con uno scatto gli afferro il polso, mentre con l'altra mano azzanno il suo collo, spintonandolo indietro.

Lui lancia un grido strozzato. «Maledetta bastarda!»

Cadiamo a terra, io sopra di lui, rotoliamo tra il fogliame, l'uno avvinghiato all'altra. Lui impreca, mi tira i capelli, cerca di infilarmi due dita negli occhi per liberarsi dalla mia presa e scappare, ma io non lo lascio sfuggire.

A un certo punto ci ritroviamo sull'orlo di un pendio. Io sotto, lui sopra di me. Le sue luride mani attorno al mio collo premono sulla trachea con forza, una forza in costante aumento. L'aria inizia a mancarmi.

«Farai la stessa fine di Darina e di Jaqueline! Maledetta!»

I suoi occhi sono iniettati di sangue e di crudeltà. Il volto, livido di riabbia, contratto in un ghigno feroce.

«Come facevi a saperlo?» Ringhia. I denti paiono quelli di un animale selvaggio, pronto ad azzannare la sua preda. «Come diavolo facevi a sapere tutte quelle cose?»

Cerco di dimenarmi, lo afferro per il giubbotto, ma il suo peso mi tiene schiacciata a terra.

«Chi te le ha dette?» Sibila. Le sue mani, premute sul mio collo, iniziano a farmi male. Un dolore sempre più intenso. Spalanco la bocca in un disperato bisogno d'aria.

«DIMMELO!» Grida, scuotendomi con violenza.

Raccolgo le ultime forze e con uno scatto fulmineo lo colpisco al collo con due dita, costringendolo a sollevare il busto e ad allentare la presa. Poi, passandogli una gamba sopra alla testa, con un colpo d'anca lo sbilancio, scaraventandolo giù per il pendio.

Lui rotola per un po' di metri, tra alberi e cespugli, finché il tronco di un robusto pino non arresta la sua discesa.

Respirando a fatica, con le mani tremanti mi massaggio la trachea dolorante. Ma non mi lascio fermare dal dolore. Scendo dal pendio e corro ad arrestarlo.

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