II. L'assassino
“𝓛𝓪 𝓬𝓸𝓵𝓹𝓪 𝓮’ 𝓯𝓸𝓻𝓼𝓮 𝓵𝓪 𝓹𝓲𝓾’ 𝓽𝓻𝓲𝓼𝓽𝓮 𝓬𝓸𝓶𝓹𝓪𝓰𝓷𝓪 𝓭𝓮𝓵𝓵𝓪 𝓶𝓸𝓻𝓽𝓮.”
𝓔𝓵𝓲𝔃𝓪𝓫𝓮𝓽𝓱 𝓚𝓾𝓫𝓵𝓮𝓻-𝓡𝓸𝓼𝓼
*
Quando arrivò il momento del pranzo, Kenton ci si buttò su con una voracità impressionante.
La zuppa d’orzo che veniva dalle cucine non era il manicaretto più buono su cui avesse mai messo le mani, ma era a digiuno completo dalla sera prima, e non vide neanche la cameriera buttare una mestolata nel suo piatto d’ottone, ci si gettò sopra senza ringraziare o dire una parola.
“Fame?” chiese Cedric, che lo guardava apprensivo soffiando sul suo cucchiaio di zuppa, seduto a una delle due lunghe tavolate della sala mensa. “Com’è andata la punizione?”
Il ragazzo si irrigidì, sentendo quelle parole. D’un tratto sentì le sue ginocchia bruciare di nuovo, risentì il freddo che l’aveva avvolto nello stanzino, e le sue guance si arroventarono al pensiero che tutti l’avevano visto arrivare in ritardo quella mattina, zoppicante e col labbro spaccato.
“Come vuoi che sia andata?” sibilò risentito, tra un boccone di zuppa e l’altro.
“Okay, scusa, volevo solo assicurarmi che stessi bene, tutto qui…”
“Sto benissimo. Acqua passata.”
“Da come hai aggredito quel piatto di zuppa non si direbbe…”
“Sto bene, Ced. Davvero.”
L’amico fece una smorfia, come se stesse riflettendo sulla sincerità delle sue parole. Sembrò decidere che quella risposta era soddisfacente per lui, perché cambiò argomento una volta che si fu assicurato che Kenton era ancora vivo e vegeto e, soprattutto, non intenzionato a parlarne.
“Visto il nuovo arrivato?”
A quella domanda, lo sguardo di Kenton tornò in automatico a lui, come ormai aveva fatto centinaia di altre volte quel giorno. William era nell’altra tavolata, quella di fronte alla sua, e il ragazzo alzò gli occhi dalla sua zuppa per osservarlo meglio. Aveva un manipolo di studenti intorno, soprattutto più giovani, api attirate dal miele della novità.
In tutta la sua permanenza lì, Kenton non aveva mai visto nessuno più di buon umore di lui il suo primo giorno. Di solito i ragazzi erano abbattuti al loro arrivo, alcuni erano incazzati neri, i più giovani in lacrime. William invece sorrideva, gli occhi neri accesi di vita. Chiacchierava con Thane, un ragazzo di dodici anni che era là con loro da mesi ormai, che non l’aveva presa benissimo il giorno del suo arrivo.
Non sembrava neanche turbato dalla zuppa di dubbia natura della mensa, né dalla governante che passava tra i tavoli a controllare che ognuno di loro svuotasse il suo piatto sino all’ultima goccia. Non degnò di uno sguardo il tavolo dei professori, dove gli insegnanti, separati dai loro studenti, consumavano il pasto parlottando tra loro a bassa voce.
Era bello, bello come una serata di fine Ottobre, una ventata d’aria gelida che segna la fine dell’estate e l’arrivo del crepuscolo.
“Ken? Ken?”
La voce di Cedric lo riscosse dai suoi pensieri. “Huh?”
“Ti ho chiesto se hai visto il nuovo arrivato.”
Kenton spostò lo sguardo dal ragazzo che si trovava dall’altro capo della sala, per rivolgerlo verso l’amico. Cedric era un ragazzo corpulento, più alto della media, dalle spalle grosse e il volto paffuto dell’infanzia. I suoi capelli castani erano difficili da domare al mattino, e più di una volta gli erano valsi un richiamo dalla governante, che insisteva sul fatto che avrebbe dovuto pettinarli meglio appena sveglio.
In quel momento, Cedric lo guardava preoccupato, come se avesse notato che c’era qualcosa che non andava in lui, qualcosa di sbagliato.
“L’ho visto, sì.”
“Non lo trovi strano? Sembra… felice.”
“Lo trovo strano,” rispose Kenton, tornando alla sua zuppa. “Ma penso capirà presto che non si tratta di una vacanza. Non so cosa gli abbiano detto i suoi, ma penso che quel sorriso svanirà al più presto.”
Il pensiero di Kenton andò alla cerimonia di iniziazione e strinse il pugno libero che non teneva il cucchiaio, per poi scuotere la testa e scacciare quell’idea con prepotenza. Non era ancora tempo di disperarsi per quello.
“Sì, lo penso anch’io,” concordò Cedric, imboccandosi finalmente della zuppa e facendo una smorfia contrita. “Dio, questa zuppa è atroce! Come fai a mangiarla tanto in fretta?”
“Ho fame,” rispose Kenton, dopo aver deglutito. Se avesse parlato con la bocca piena e la governante l’avesse visto, l’avrebbe rispedito su per lo stanzino.
“Certo che hai fame, ti hanno fatto saltare la colazione… per una camicia fuori dai pantaloni. Che idiozia.”
“È colpa mia. Non sarei dovuto scendere così. Sapevo che sarebbe successo e l’ho fatto lo stesso.”
“Sarà, ma secondo me hanno esagerato. Ieri hanno punito David perché non ha abbassato gli occhi quando Evans gli ha chiesto di farlo. Ultimamente ci vanno giù pesante…”
Era vero, negli ultimi tempi le regole al Saint Cuthbert si erano fatte più rigide, senza nessuna ragione. Era come se il personale si fosse stancato di sopportare i ragazzi e i loro problemi, e avesse deciso di reprimere qualunque istinto che non fosse la più cieca obbedienza e abnegazione.
Continuò a divorare la sua zuppa in silenzio, con gli occhi bassi, accarezzando il pensiero di ciò che stava per accadere senza abbracciarlo del tutto, avrebbe fatto troppo male.
*
Quel pomeriggio si ritrovarono nel loro dormitorio, dove Kenton era intento a leggere Notre Dame de Paris, romanzo francese di grande successo. O, per meglio dire, faceva scorrere gli occhi sempre sulla stessa riga della stessa pagina ascoltando ciò che i suoi compagni dicevano al nuovo arrivato, riuniti intorno a lui come anziani intorno al fuoco.
“Io ho dato uno schiaffo a mia madre,” disse la voce di Thomas, imbarazzata. “Mio padre me ne ha resi dieci volte tanto quando è tornato a casa, e poi sono finito qui.”
“Io sono stato bocciato due volte,” intervenne Peter. “I miei non ne potevano più del mio saltare la scuola, così mi hanno chiuso in collegio.”
“A me hanno trovato a letto con la figlia di un lord. A lei l’hanno spedita in convento, e in quanto a me, eccomi qui!” concluse Eustace.
“Almeno tu sei stato a letto con una donna,” mormorò Cedric, sognante. “A me non accadrà mai.”
“Tu perché sei qui?” chiese Darcy, undici anni, il più piccolo tra loro. “Che hai fatto per farli arrabbiare tanto?”
Kenton fece per posare il libro e mettersi ad ascoltare, incuriosito, ma si trattenne. Non partecipava mai agli interrogatori sulla motivazione di una nuova presenza lì. Non voleva che qualcuno rischiasse di chiedergli perché lui, a soli sei anni, era stato confinato al Saint Cuthbert da due genitori col cuore infranto.
E poi, soprattutto, non voleva dare al ragazzo nuovo l’impressione che fosse interessato a lui. Era raro per Kenton fare di questi pensieri, di solito era ansioso di conoscere i nuovi arrivati. Lui era l’ospite di più vecchia data in quel collegio, tutti quelli arrivati prima di lui avevano compiuto già diciotto anni e se n’erano andati, e conosceva l’edificio e i suoi abitanti come il taschino della sua divisa.
Nonostante questo, non si sarebbe proposto di far fare un giro a quel William, non quel giorno. C’era qualcosa in lui che lo disturbava, anche se non riusciva bene a capire perché.
Forse era quel suo sguardo sfacciato e quel suo sorriso malizioso; forse era la sua voce, così bassa e calda, già quella di un uomo; forse era la sua pelle bianca, i piccoli nei che spuntavano dal colletto della sua camicia come una costellazione; forse erano le sue labbra.
Kenton aveva già visto ragazzi belli prima del suo arrivo. Aveva sospirato dietro Matthew per anni, col suo sorriso largo e caldo e i suoi occhi chiari. Ora Matthew era uscito da un anno dal collegio, e il sentimento che provava per lui si era sfreddato, come le braci nel camino la mattina seguente, grigie e spente.
Con William era stato diverso. Matthew l’aveva stregato coi suoi modi gentili, con la pazienza verso i più piccoli, con il tempo e con la sua presenza, giorno dopo giorno. Kenton l’aveva visto piccolo e inerme a dodici anni il giorno del suo arrivo, e sotto i suoi occhi era diventato un uomo.
Per William era stata una cosa istantanea, un fuoco che divampa nel petto e ti divora, sino a lasciarti senza forze e senza fiato, senza più nulla.
Era rimasto stregato, come una mosca col miele, e aveva paura che quell’attrazione l’avrebbe intrappolato, invischiandolo senza lasciarlo più andare via.
“Sono sempre stato vivace, a scuola,” disse il ragazzo, senza un’ombra di vergogna nella voce. “Non mi andava di presentarmi là dentro, non mi andava di stare seduto sul banco, non mi andava di ascoltare. Ne ho combinate tante, alla scuola e al maestro. Un giorno, la settimana scorsa, mi sono stancato. Ho preso una lampada a olio e la ho sbattuta sul banco, poi l’ho acceso con un cerino. Il fuoco l’ha consumato, poi è passato agli altri banchi, e in qualche minuto la classe era in fiamme. Il maestro c’è quasi rimasto secco.”
“Ma è fortissimo!” intervenne Eustace. “Hai fatto la cosa più forte dopo di me,” gli disse, lui che andava molto fiero della nottata di fuoco con la sua contessina.
“Ordinaria amministrazione,” commentò William, con disinteresse. Ci fu un attimo di silenzio e poi si udì distintamente “Ehi, tu! Tu, con il libro! Tu perché sei qui?”
Kenton restò congelato sul posto, tenendo le mani sul libro e gli occhi fissi sul foglio. Sentì il cuore fermarsi a quelle parole.
Il suo incubo stava prendendo vita davanti ai suoi occhi, e lui non poteva fare niente per fermarlo.
“Non ti sente,” disse Cedric, sempre pronto a difenderlo. “Sta leggendo, lascialo in pace.”
“Non volta pagina da mezz’ora buona. Sta ascoltando tutto quello che stiamo dicendo. Non è vero, Walker?”
Kenton non si chiese come facesse a sapere il suo cognome. L’aveva visto parlare coi ragazzi a pranzo, e di sicuro gli avevano detto che era lui di solito quello che guidava i nuovi arrivati, l’esperto, quello su cui fare affidamento. Si erano di certo stupiti del fatto che Kenton non si era nemmeno avvicinato, tenendosi da parte questa volta.
Sospirò, e abbassò il libro sul suo petto. Spostò lo sguardo verso una delle finestre chiuse, attorno alla quale, per cercare la flebile luce decembrina, si erano riuniti gli altri.
Lui era là, in mezzo a loro, di una bellezza prepotente e a tratti irritante. Era là, circondato dai suoi amici, e lo guardava.
“Sono Ken,” si limitò a dire, rispondendo al suo sguardo. “Tutti mi chiamano così, qui.”
“So chi sei,” rispose lui. “Sei il principe del collegio, quello che sta da più dentro qui dentro, che sa tutto di tutti e difende i più deboli.”
“Tu sai chi sono io, ma io non so chi sei tu.”
“Bill,” rispose il ragazzo, allargando il sorriso. Lo stomaco di Kenton si contorse. “Quindi? Cosa ti porta qui, principino?”
“Ho ucciso qualcuno,” disse, con un tono annoiato.
I ragazzi ridacchiarono.
“È inutile che lo chiedi,” intervenne Thomas. “Non l’ha mai detto a nessuno da quando è qui dentro. Neanche a Ced.”
“Che misterioso,” commentò compiaciuto William. “Con tutto questo mistero inizierò a pensare che hai davvero ucciso qualcuno.”
“Ma io ho ucciso qualcuno,” continuò Kenton, imperterrito.
“Torna al tuo libro, va’,” rispose Cedric, crollando sul suo letto e facendolo cigolare. “Tanto lo so che non ce lo dici.”
Kenton diede un’ultima occhiata a William prima di prendere il suo libro e continuare a leggere. Gli occhi scuri del ragazzo erano ancora su di lui che lo studiavano, non l’avevano lasciato neanche un attimo da quando aveva abbassato il libro e dato la sua risposta. Aveva ancora quel sorriso sul volto, un sorriso che sembrava destinato solo a lui, e Kenton dovette farsi una violenza per costringersi a tornare a Notre Dame de Paris.
I ragazzi si erano allontanati dal nuovo arrivato, il rifiuto di Kenton di parlare del perché fosse lì aveva fatto cadere la discussione molto in fretta, e ora si tenevano a debita distanza da lui.
Kenton sapeva il perché. A breve sarebbe arrivato Hunter insieme al suo gruppo di sbandati. Era da tempo che Hunter e i suoi sottoponevano i nuovi arrivati a sevizie e torture di ogni genere, umiliazioni e prese di potere.
Quella sera sarebbe toccato a William, gli avrebbero spazzato via quel sorriso che aveva stampato sul volto, avrebbero cancellato quella sicurezza che sfoggiava tanto fiero.
Cercò di ingoiare il senso di nausea che l’aveva invaso. Aveva sempre odiato queste pratiche barbariche, che negli ultimi dieci anni si erano inasprite. Non voleva che quel ragazzo smettesse di sorridere, non voleva che quel ragazzo venisse spogliato e umiliato davanti a tutti i suoi compagni, nel nome di un battesimo che non aveva senso di esistere.
Però sarebbe successo.
Ignorò l’istinto che ebbe di avvertirlo, di dirgli che quell’aria da sbruffone sarebbe svanita troppo presto dal suo viso, quell’espressione da spaccone che tanto gli donava. Dirgli quello che lo aspettava non sarebbe servito a niente, se non a spaventarlo e a cancellargli il sorriso più presto. A Kenton piaceva quel sorriso.
Leggere il suo libro era diventato quasi impossibile, tormentato da quei pensieri. Non passò molto tempo che lui decise di arrendersi, di posare la sua copia sul cuscino e mettersi ad attendere con gli altri l’inevitabile.
Sentì Darcy, il più piccolo tra loro, squittire dalla paura e Hunter entrò nella stanza, un ghigno sul volto. Il manipolo ristretto che ancora era rimasto intorno a William si dissipò come fumo.
Eustace si avvicinò a Darcy, lui che era ancora terrorizzato da quando, mesi prima, Hunter e i suoi l’avevano umiliato pisciandogli addosso nel bagno, davanti ai compagni che incitavano e ridevano.
Non erano rimasti in tanti, di contrari a queste pratiche. C’era Kenton, che non interveniva mai, ma restava in silenzio e disprezzava ciò che stava accadendo. C’era Cedric, che le prime volte aveva provato a impedire quello scempio, per poi finire battuto in terra, quasi morto. C’era Eustace, che come Kenton non si prestava a certi giochi, restando in disparte. C’era Darcy, troppo impegnato ad aver paura per fare qualcosa. E infine c’era Thomas, il mingherlino, un ragazzetto malaticcio e magrolino che non avrebbe fatto male a una mosca, ma neanche mosso un dito per fermarli.
Tutti gli altri suoi compagni del collegio, su un totale di ottantatré, incitavano e facevano il tifo per gli animali che si sarebbero sfogati sul povero malcapitato.
Hunter era il più grande del collegio, avrebbe compiuto diciotto anni il Marzo successivo, e allora l’avrebbe lasciato per sempre. Era stato uno studente del Saint Cuthbert per tre anni, durante i quali si era impegnato per rendere le vite dei compagni più deboli un vero inferno.
Era un uomo ormai, aveva bisogno di tagliarsi la barba ogni giorno, e i suoi compagni di dormitorio avevano giurato di averlo sentito masturbarsi una volta o due.
Aveva le spalle larghe ma non era rotondo come Cedric, aveva le braccia grosse e tirava un manrovescio da paura. Malley e Jackson, i suoi tirapiedi, avevano sedici anni ciascuno. Li aveva scelti perché avevano tutti i requisiti adatti per adempiere al ruolo: erano passivi, bisognosi di una guida, e avevano istinti violenti che erano solo in attesa di essere indirizzati. Entrambi là dentro per rissa, tutto ciò di cui avevano avuto bisogno era di una guida che incanalasse la loro sete di sangue in qualcosa di più creativo.
Arrivarono dal dormitorio accanto, il collegio aveva sette stanzoni da dodici, e il capo tra loro si fece indicare dagli altri due il nuovo arrivato.
Kenton sentì il cuore stringersi in una morsa come ogni volta nel momento in cui i tre fecero il loro ingresso, seguiti dai compagni di dormitorio che ghignavano già pregustando la preda.
“È quello lì?” chiese Hunter, andando a gran passi verso la finestra dove William stava appoggiato al muro, le braccia incrociate e il solito sorriso furbo sul volto.
“Sono Bill,” disse il ragazzo, i cui occhi scuri dardeggiavano verso l’energumeno appena entrato. “Tu saresti?”
“Oh, non ti hanno parlato di me? Sono sorpreso…”
“Forse non sei importante come credi.”
L’espressione di Hunter si congelò per un attimo, poi il suo ghigno si allargò. “Oh, sì. Con te mi divertirò un bel po’…” mormorò. “Spogliati. Fai in fretta, altrimenti sarò costretto a farlo io, e non ti piacerà.”
Il ragazzo sbatté le palpebre, confuso. “Come scusa?”
“Ho detto ‘spogliati’. Capirai presto che non amo ripetere le cose… non è vero ragazzi?”
Intorno al malcapitato e i tre delinquenti intanto si era radunata una piccola folla di persone, e il sorriso di William si era fatto più tirato. Doveva aver capito che le cose non si stavano mettendo bene per lui, e Kenton provò il bisogno viscerale di mettersi in mezzo e pregare Hunter di non farlo.
Non l’avrebbe mai fatto, però. Ne sarebbe rimasto fuori, come ogni volta prima di quella, anche se avrebbe voluto dire rovinare il bel faccino del nuovo arrivato e spazzargli via il sorriso per sempre.
Non l’avrebbe mai fatto, perché era un ignavo. Questo era uno dei tanti motivi che lo avrebbe condannato agli occhi di Dio.
Questo, il fatto che sospirasse dietro i ragazzi come Matthew, il motivo per cui era lì. Kenton aveva tanti motivi per cui sarebbe andato all’inferno.
Kenton Walker era un ignavo, un invertito... ed era un assassino.
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