𝟏𝟖. 𝐋𝐞 𝐝𝐞𝐜𝐥𝐢𝐧𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐝𝐞𝐥 𝐦𝐚𝐥𝐞
L'arrivo del fine settimana porta con sé solo le peggiori declinazioni del male: maltempo, malessere e malumore.
Nuvole e pioggia così fitte da inghiottire l'orizzonte e restituirne al mondo una brutta copia, grigia e fuori fuoco, come una fotocopiatrice a corto d'inchiostro.
Un fastidioso nemico alle calcagna, travestito da insistente e insopportabile mal di testa, accompagna invece ogni mio passo. Riesce in qualche modo a distrarmi dalla vera, profonda e inestirpabile radice del male: il senso di colpa, che torna a strangolarmi i sensi e a corrompermi le sinapsi, al punto da non essere più in grado di plasmare un unico pensiero positivo.
E mentre afferro alcuni indumenti dall'armadio, scegliendoli in maniera casuale dalla fila di capi, li piego e li impilo con cura in una valigia, è un'unica frase a percuotermi senza sosta - come un martello tra pensieri fattisi di chiodi: "È colpa mia. Di nuovo".
L'ennesimo punto caduto come un meteorite al centro del bersaglio, tra i lembi più deboli e dolorosi, a demolire una realtà già riemersa da ferite profonde, non è altro che opera mia.
Oggi come allora, sento ancora tra le dita il peso di quella pistola, quasi come se io stessa ne avessi premuto il grilletto per la seconda volta.
Da quel giorno, da quel terribile momento, ho sempre pensato che un cuore che si spezza, debba produrre lo stesso sordo fragore di un colpo di pistola. Un proiettile che crepita all'improvviso, sfreccia cavalcando la cresta dell'aria e, infine, termina il proprio viaggio andando a schiantarsi nel punto più debole.
Ieri ne ho avuto la conferma.
Del resto, nel modo in cui Adam mi ha guardato prima di lasciare l'appartamento, non ho rivisto altro che le pupille svuotate del mio ultimo, peggiore, imperdonabile errore. Una colpa impossibile da redimere. Un conto di sale ancora da pagare, custodito nella tasca di chissà quale vecchia giacca...
Il suono del campanello mi raggiunge come un fastidioso ronzio lontano, poi sempre con maggiore insistenza, fino ad obbligarmi ad abbandonare faccende e pensieri per accogliere l'ignoto disturbatore.
E mentre mi dirigo verso l'entrata dell'appartamento, una fila di volti conosciuti sfila rapidamente davanti ai miei occhi, in una serie disordinata di diapositive. Tutti, meno quello che invece si stampa al di là della porta, nella sua abituale, composta e pietrificata sicurezza.
<<Ciao, Eleanor.>>
<<Mamma>> mi affretto a riprenderla, <<Sai benissimo che non desidero più essere chiamata in quel modo.>>
Mia madre ciondola lentamente la testa - incorniciata dall'usuale acconciatura impeccabile, forse nel tentativo di rassettare un vecchio ricordo. E dopo essersi premurata di riporlo nell'abissale cassetto dal quale pare esserle sfuggito, ritrova immediatamente tutto il proprio equilibrio.
<<Perdonami. Tendo sempre ad ancorarmi alle abitudini.>>
Mi soffermo per qualche secondo a studiarne il volto: gli ombretti, quei marroni caldi che enfatizzano le sfumature ambrate delle iridi, perfettamente sfumati sulle palpebre; il consueto maquillage abilmente impresso sulla pelle, dal quale sfuggono alcune rughe sottili ai lati degli occhi e delle labbra, come lievi increspature su sabbia asciutta; quell'intenso e familiare velo opaco di rossetto rosso, a suggellare una maschera di sensualità e irradiante sicurezza.
Come se non lo sapessi.
Quella cocciuta abitudine d'imbellettare accuratamente il proprio aspetto esteriore - ogni giorno nel medesimo modo, non è altro che la prova evidente di un disagio interiore: un amore assoluto nei confronti delle proprie abitudini, tanto da aborrire qualsiasi genere di cambiamento.
<<Suppongo che alla fine tu abbia letto il mio messaggio>> scandisco, l'impazienza diligentemente suggellata tra lingua e palato.
Isaac è tornato in città,
dunque deduco sia tornato anche lui.
Chiamami appena puoi, per favore.
Dobbiamo parlarne.
<<Mi fai entrare oppure credi sia il caso di affrontare la questione sul pianerottolo?>>
Mentre mi faccio da parte per consentirle il passaggio, finisco per incollarmi il più possibile alla porta d'ingresso, forse nella speranza di fondermi totalmente con il legno.
Non tanto per timore della conversazione che certamente si srotolerà di lì a poco, in una matassa di fili rimasti a lungo immobili nei propri nodi. Quanto perché conscia di ritrovarmi di fronte ad una fabbricante di manufatti dalla fantasia inarrestabile; abile quanto me nel plasmare i modelli di maschera più adeguati all'occasione.
Come due specchi posti l'uno di fronte all'altro, che non riflettono nulla se non i reciproci vuoti all'infinito, mia madre ed io restiamo a fissarci a lungo al centro della stanza. Nessuna delle due sembra essere intenzionata a lasciar sfuggire un'emozione dai lembi della propria maschera.
<<Sei in partenza?>> Non mi sorprende affatto che gli occhi dell'abile osservatrice siano riuscita a passare in rassegna l'intero salotto in pochi istanti, soffermandosi sulle tracce di disordine che, indubbiamente, devono aver suggerito del movimento. <<Lasci New York?>>
Ti piacerebbe.
<<No, lascio solo l'appartamento.>>
<<E perché?>> Un sopracciglio vola in direzione di un certo stupore, lasciando dietro di sé una scia di rimprovero. <<Non avrai rotto con Adam?>>
<<Non che siano affari tuoi, ma comunque no>> ribatto, gli occhi già pronti a innalzarsi al cielo saldamente trattenuti a terra. <<Abbiamo deciso di stare ognuno per conto proprio per un po'. E non mi sembrava corretto restare in un posto che non mi appartiene.>> E che, per inciso, è di proprietà dell'ennesima persona a cui ho spezzato il cuore - un dettaglio non di poco conto, ma che ovviamente non merita di esserle rivelato.
<<Eleanor.>> Un sospiro greve scivola via dalle labbra dipinte.
<<Mamma>> mi limito a riprenderla di nuovo, evitando però di ricordarle la faccenda del nome.
<<Eleanor>> insiste ancora, questa volta puntando sonoramente un tacco sul pavimento di marmo. Il colpo fastidioso che ne deriva, è un chiaro appello alla disciplina. <<Sai che non puoi permetterti di chiuderti questa porta alle spalle.>>
<<È solo un appartamento>> minimizzo, nel tentativo di scoraggiare quell'inutile ramanzina. <<Non mi pare la fine del mondo.>>
<<E io non credo di doverti ricordare quanto Adam sia essenziale, perché il copione continui a funzionare al meglio. Sempre che tu sia ancora interessata a questa vita>> dice, lasciando piroettare una mano per aria. <<O il ritorno di Isaac è riuscito a illuderti che sia possibile un reso del passato?>>
Come un fiammifero lanciato su una distesa di paglia, il cuore mi si gonfia nel petto, saturo di fuoco e fumo.
Razionalmente so che quella provocazione non è altro che un prepotente tentativo di cavarmi di dosso un'emozione, una reazione qualsiasi, come un ragno dal proprio buco. Ma istintivamente non posso fare a meno di incendiarmi contro quella totale mancanza di tatto.
Non che mi stupisca granché, dal momento che mia madre è sempre stata troppo concentrata su di sé per preoccuparsi dell'empatia. O, più semplicemente, di ciò che io possa aver subito, valicato e lasciato alle spalle dopo il trauma – com'è sempre stato nominato dagli psicologi a cui mi ha generosamente scaricato.
<<E il ritorno di Mark, invece?>>, Afferro e rigiro prontamente il coltello dalla parte del manico, <<Non ti illude che sia possibile un reso del vostro passato?>>
Un sorriso leggero le si dipinge sul volto. <<Ho cresciuto una figlia identica a me. E me ne rendo conto solo adesso.>>
Scuoto la testa debolmente, per nulla sorpresa da quel moto d'orgoglio. Del resto, cerca di dipingermi a sua immagine e somiglianza da una vita. Peccato che il quadro di freddezza e apatia al quale - secondo lei - mi sarei dovuta ispirare, si sia fatto sempre più inquietante dopo il trauma. Anno dopo anno.
<<Ad ogni modo, riformulo: sono sicura che tu e Adam vi amiate abbastanza da risolvere qualsiasi problema. Dico bene?>>
Incrocio le braccia al petto, innalzando le difese contro i suoi esperti tentativi di manipolazione. <<Perché sei qui, mamma?>>
<<Ero in zona e ho pensato di passare a fare un saluto alla mia unica figlia, semplicemente.>>
La maschera si modella per un'istante in una smorfia sarcastica. <<E invece perché sei qui, veramente?>>
Forse stanca di dover reggere il peso di tutte le maschere - nascoste nelle maniche come assi, mia madre si abbandona sul divano. Accavalla le gambe magrissime, poi nasconde un ricciolo ribelle - sfuggito dall'ordinata acconciatura - dietro l'orecchio. <<Hai già avuto modo di parlarci?>>
<<Con Isaac o con Mark?>>
<<Direi... entrambi.>>
<<Con Isaac ho scambiato solo poche parole>> ammetto, evitando di accennare al piano di Miss Morris e alla faccenda delle lezioni di recupero. <<Per lo più mi evita e finge di non conoscermi, perciò...>>
<<Meglio così. Meglio così>>, mi interrompe. <<E con suo padre, invece? Mark... Ci hai parlato?>>
<<Non ancora.>>
<<Ottimo. Evitare entrambi è la cosa migliore. Ma penso tu già lo sappia. Dico bene, Skye?>> Si rivolge a me, ma so che, in fondo, quel monito è diretto anche a se stessa. <<Comunque>> esclama, levandosi nuovamente in piedi. <<Sarà meglio che vada. Ho diversi impegni a cui non posso sottrarmi. E tu>>, mi punta un dito contro, <<hai una valigia da disfare.>>
Quando mi dà le spalle per dirigersi verso l'uscita, questa volta, non riesco a trattenermi dall'alzare gli occhi al cielo.
<<Chiamami non appena avrai risolto le cose con Adam>> si premura di aggiungere prima di lasciare l'appartamento.
Non mi darà pace finché non sarà certa che il copione sia al sicuro.
Ai suoi occhi, Adam è il porto sicuro perfetto dove nascondere i nostri segreti: oltre a offrire stabilità e sicurezza come pochi, esercita abbastanza autorità da scoraggiare qualsiasi tentativo d'intrusione. Non accetterà mai, per nessun motivo, che io scelga di abbandonarlo per sfidare acque meno sicure.
Il suono insistente del cellulare mi distrae dalle mie elucubrazioni. Lo afferro e rispondo distrattamente, ancora asfissiata dalle parole tossiche di mia madre.
<<Skye, sono Alice.>>
<<Ah, Alice.>> Una smorfia contrariata sfugge al mio autocontrollo, al ricordo di come gli occhi di Isaac le consumavano il volto durante la loro ultima conversazione.
<<Rimuginavo sul fatto che non mi è piaciuto per niente il modo in cui ci siamo lasciate ieri>> spiega, il tono spolverato di insicurezza e zucchero a velo, tipico della Alice che conosco e lontano parecchie leghe da quello che le ho sentito usare l'ultima volta, risoluto all'inverosimile. <<Perciò ho ritenuto di dover chiamare per concordare una missione di pace.>>
<<Non sono arrabbiata con te, Alice>>, mi affretto a precisare, <<solo stupita del tuo inaspettato interesse nei confronti dell'ultima persona che avrei pensato potesse attirare la tua attenzione.>>
Eppure non era scontato che il tenebroso Isaac, con i suoi modi indecifrabili e l'aspetto da rubacuori, sarebbe facilmente diventato un magnete per chiunque? E ancora di più per una come Alice, suggestionata dalle sue infinite letture romanzesche?, contesta subdolamente la mia coscienza.
<<Ad ogni modo, ricordi la festa d'inizio anno di cui ti parlavo ieri? Ho pensato che potremmo andarci insieme. Solo tu ed io, questa volta. Senza uomini e senza...>>
<<Claire>> concludo per lei. Un sospiro di delusione rotola giù dalle labbra screpolate, come un masso percorre rapidamente il dorso di una montagna. Si schianta sul mio cuore già ammaccato come su un'auto in corsa. <<Mi piacerebbe davvero, Alice, ma ho... parecchio da fare qui.>>
<<Sono sicura che il bucato e le faccende domestiche possano attendere, Skye. I drink gratis, invece...>>
<<A dire la verità>> mormoro, il tono basso, a cercare invano di coprire le sue parole, incapace di drappeggiare quella realtà a voce alta. <<sto preparando i bagagli.>>
<<...sono un treno... Aspetta, cosa? I bagagli?>>
<<Tranquilla, lascio solo l'appartamento>> dico, tanto a lei quanto a me stessa, nella speranza di riuscire realmente a ridimensionare le cose.
<<Ho capito>> commenta soltanto. E il tono è sufficiente a convalidare tutta la sua reale comprensione. <<Dunque, a maggior ragione, non credi di aver bisogno di distrarti?>>
<<Può darsi>> ammetto. Questa volta, il sospiro che cerco di rilasciare mi si incastra in gola. Si stringe, si annoda in un pianto strozzato, tra metri di parole e sentimenti in arresto.
<<Al diavolo la festa>> esclama Alice. <<Sarò da te tra una ventina di minuti, con le schifezze più buone che tu possa immaginare. E sì, sono pienamente consapevole della contraddizione.>>
<<Non p...>>
<<Non potevi avere un'idea migliore, Alice>> mi anticipa lei, cavandomi con forza un sorriso dalle labbra. Sono sicura che riesca ad avvertirlo attraverso la cornetta. <<Presumo fosse quello che stavi per dire.>>
<<A dire la verità>> le concedo infine, incapace di respingere ancora quella mano tesa, <<Stavo per dire che quei drink gratis non mi sembrano una cattiva idea, dopotutto.>>
<<Come preferisci, ma le schifezze che ti avrei procurato sarebbero state sicuramente imbattibili>> commenta, l'entusiasmo trattenuto a stento nel sarcasmo.
<<Non ne dubito, ma per stavolta passo>> ribatto in un risolino appena accennato. <<Credo di avere più bisogno di alcol che di dolci sui fianchi.>>
<<Be', in questo caso, passo a prenderti tra un'ora. E cerca di farti meno bella del solito, per favore. Vorrei evitare di sfigurare anche questa volta.>>
Quando chiudiamo la chiamata, dopo un'ironica esclamazione di rimprovero, mi rendo conto di quanto la dolcezza di Alice sia effettivamente riuscita a mitigare una buona dose di - insensata - gelosia nei confronti di Isaac.
Allo stesso tempo, non riesco a fare a meno di domandarmi se quella zolletta di zucchero tuffata in una caraffa di caffè, sia sufficiente a metterne a tacere tutto l'amaro. O se, prima o poi, finirà inevitabilmente per tornare a galla.
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