𝟏𝟎. 𝐈𝐥 𝐠𝐢𝐨𝐜𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐬𝐢𝐥𝐞𝐧𝐳𝐢𝐨
Spesso posiamo sulle spalle del silenzio la responsabilità delle parole che non abbiamo coraggio - o volontà - di pronunciare.
Ogni voce può essere una freccia letale tanto quanto una benedizione. Detiene sia la facoltà di condannare, che di salvare dalle fiamme dell'inferno.
Tutto è relegato nelle mani di chi ne impugna il prezioso, ambivalente potere.
Ma, ad ogni modo, qualunque uso si decida di farne, un solo fiato non può che implicare un certo cambiamento. E, soprattutto, conseguenze.
Il silenzio, al contrario, è un diavolo tentatore, che ci offre la possibilità di affidare la battaglia – e soprattutto i suoi esiti – nelle misteriose mani del Fato. O, ancora più semplicemente, di relegare i proiettili nel caricatore di qualcun altro, riversando su di lui ogni decisione. Ogni responsabilità.
Il non detto è l'alibi di ghiaccio perfetto per chi vuole sbarazzarsi dal peso di una scelta. Per chi non ha alcuna intenzione – o sufficiente coraggio - di avventurarsi negli abissi, alla scoperta di ciò che si cela oltre la punta dell'iceberg, ma preferisce rimanere ancora un po' a sguazzare in superficie.
Forse si tratta di orgoglio. O, piuttosto, di raggelante vigliaccheria.
L'orgoglio ci ergerà sempre ad un – quasi - imbattibile Achille. Ma, al contempo, sarà esso stesso il tallone maledetto. L'aberrante debolezza che ci porterà alla sconfitta, procurandoci incalcolabili perdite.
È una spada a doppio taglio: ciò che detiene la facoltà di renderci erculei e imbattili un attimo prima, conserva nelle proprie mani anche il potere di inabissarci definitivamente un attimo dopo.
Se l'orgoglio è un boccone avvelenato da mandar giù, la viltà si bloccherà quasi sicuramente all'altezza della trachea, nel vorace tentativo di soffocarci. E un bicchiere di prodezza, qualora fosse reperibile, non sarà nemmeno sempre sufficiente ad aiutarci ad ingoiarla.
Ma qualcosa si deve pur fare per non soccombere. In ogni circostanza.
Estrarre da se stessi quelle dannate parole, che si sono conficcate sotto pelle in una serie infinita di proiettili, non è affatto un'operazione di routine. Ma potrebbe essere fondamentale al fine di evitare di finire i propri giorni liquefatti in una pozza di cose non dette. Polverizzati dal proprio ego e dalle proprie paure.
La sopravvivenza non è garantita. Ma il raggiungimento di un certo senso di libertà, sì. Perché il gioco del silenzio è un'eterna partita che non ha vincitori né vinti, ma solo infelici vittime di se stessi; un processo dal quale non si può che uscirne condannati all'ergastolo, serrati fino alla morte dentro di sé, tra mura di prigioni invalicabili e prive di serrature.
Tuttavia, se si riesce a liberarsi dalle sue catene, c'è una minima possibilità di uscirne, non dico da vincenti, ma almeno da persone libere.
Chiudo il libro con un tonfo sordo, facendo attenzione a non farmi scoprire da Miss Morris, intenta a sciorinare l'una dietro l'altra una slavina di informazioni – a detta sua – essenziali per la nostra futura carriera universitaria.
E mentre quelle parole vorticano nella testa come un uragano, preferisco smarrirmi nell'inseguimento del drappo di nubi che si srotola all'infinito oltre l'enorme vetrata, anziché stare ad ascoltare Miss Morris e la sua noiosa lezione di matematica.
L'alito leggero che aleggia nell'aula conserva l'inconfondibile aroma di terriccio e fogliame umido, risultato del cruento acquazzone che ha appena smesso di scrosciare su una New York a cui sembrano aver strappato il sole dal petto. Si diffonde nell'ambiente a macchia di caffè, serpeggiando tra i banchi, fondendosi al leggero sentore di pioggia che qualcuno pare aver intarsiato sulla pelle.
Non qualcuno.
Lui.
Isaac Miller.
La bussola interiore deve aver smesso di funzionare perché, all'improvviso, mi ritrovo alla volta del suo profilo marcato - talmente perfetto che non può che essere stato concepito da un pittore, senza poter fare nulla per deviare la rotta.
La pioggia ne imbeve gli steli corvini, sciogliendo la sua chioma scura in petrolio liquido, fluido. Alcune gocce serpeggiano sul suo collo robusto, sciacquando i tratti precisi di un tatuaggio, che intarsiano la sua pelle eburnea in una scia elegante di inchiostro; altre finiscono per ruzzolare e disperdersi sul suo costato, impregnando la t-shirt color panna, che fa capolino da una pesante felpa grigia, come un raggio di luna da uno strato nebbia; il fango incrosta la suola delle Nike bianche, si frantuma ai suoi piedi, si disperde sul pavimento in orme scure, come quelle che sento marchiarmi a fuoco le iridi ad ogni secondo che passa.
È arte pura che si distingue dalla monotonia di quadri asettici. Un dipinto autentico che spicca tra tele false, croste prive di qualsiasi valore.
Lo dimostra il fatto che se ne sta zuppo di pioggia, in mezzo a perfetti damerini vestiti di tutto punto.
In un ambiente dove l'apparenza conta più della verità, stride come una nota stonata all'interno di una partitura che dovrebbe essere capolavoro di armonia.
E non gliene importa nulla.
Solo chi lo conosce sa che i giochi di ombre e luci non risparmiano nemmeno la sua tela.
Esattamente come la sottoscritta, pare smarrito nei propri universi, impegnato ad abbozzare quello che ha tutta l'aria di essere un disegno – forse un ritratto.
Sospinta dalla curiosità, mi sporgo leggermente in avanti per analizzare ciò tiene tra le mani, ma sono davvero troppo lontana per riuscire a identificarne con chiarezza i tratti. A maggior ragione dal momento che le spalle larghe del moro, così come la sua schiena, coprono quasi del tutto la visuale.
Un pizzico di delusione a incresparmi gli occhi, mi ritraggo lentamente, nel tentativo di non attirare troppo l'attenzione di Alice, seduta al mio fianco e dedita alla trascrizione ossessiva di ogni singola parola rotoli dalla bocca di Miss Morris.
Mentre resto a guardarla, non posso fare a meno di sorridere: quando le ho raccontato ciò che è successo tra Adam e Claire - finendo per abbattere l'argine e dare libero sfogo a ogni sospetto su una loro possibile relazione clandestina, Alice non ha esitato un secondo a schierarsi dalla mia parte.
I giorni si sono trascinati pigramente l'uno dietro l'altro. Tra pozzanghere ingannevoli, foglie secche che danzano al suolo sospinte dal vento, passi che si inceppano e ombrelli che si spezzano, si è finalmente giunti alla dipartita della settimana; ad un nuovo venerdì d'autunno, in cui non si prevedono altro che lacrime dal firmamento.
Ma di Adam e Claire, ancora nessuna traccia. Nemmeno l'ombra di un'orma nella melma che hanno perduto dietro di sé, in quell'infernale lunedì di pioggia.
Neanche una parola, una voce, un messaggio di scuse da parte del mio fidanzato o da quella che consideravo una delle mie migliori amiche.
Persino mia madre sembra essere svanita nel nulla: si ostina ad ignorare i miei messaggi, le mie richieste d'aiuto e di onestà, lasciandomi crogiolare in un silenzio così tagliente da avvertirne distintamente i graffi sulla pelle.
Lo stesso che mi divora da un'eternità, ma che negli ultimi giorni pare essere diventato ancora più famelico e insaziabile.
Tuttavia, per quanto possa davvero sembrare un carcere dalle mura invalicabili - che non fa altro che imprigionarmi dentro me stessa, mi rifiuto di prostrarmi ai piedi dell'orgoglio di Adam, del mutismo di Claire o della vigliaccheria di mia madre.
Di sicuro non sarò io ad andare alla ricerca di coloro che hanno preferito perdersi tra le agevoli vie del non detto, anziché optare per il tragitto più impervio e tortuoso delle spiegazioni.
Non posso fare a meno di lanciare un'altra occhiata alla schiena di Isaac, anch'egli colpevole di avermi lasciato impietosamente annegare tra le mille voci del silenzio, incapace di interpretarne gli infiniti significati.
Sussulto quando avverto dita gelide e affusolate posarmisi su una spalla.
<<Stai bene?>>
Rispondo con un secco cenno della testa ad una Alice crucciata, rendendomi conto solo in un secondo momento che la lezione è terminata. L'aula si sta svuotando progressivamente come un alveare delle proprie api, mentre la mia migliore amica resta a guardarmi con circospezione.
<<Ancora nessuna notizia dal Dio Adam e dalla divina Claire?>> indaga, la curiosità mescolata a un pizzico di risentimento incastonati nelle gemme cerulee.
Mi affretto a far sparire il materiale all'interno della tracolla, scuotendo la testa in segno di diniego. <<In ogni caso, non sono il tipo che corre dietro a qualcuno. A maggior ragione dal momento che quel qualcuno ha preferito fuggire, anziché affrontare la verità. Lui mi doveva... mi deve almeno qualche spiegazione, non credi? Ma non sarò io a prostrarmi ai suoi piedi, alla disperata ricerca di conforto. Se vuole salvare questo rapporto, gli converrà rinunciare all'orgoglio: questa volta non ho nessuna intenzione di farlo al posto suo.>>
L'orgoglio mi raschia la gola, mi si conficca nella giugulare come la spina di una rosa, non ne vuole sapere di lasciarsi ingoiare.
Mentre mi rendo conto di non sapere se quelle parole si riferissero ad Adam o, piuttosto, ad Isaac, mi affretto a proseguire: <<E per quanto riguarda Claire: non posso perdonarla, non ancora. Forse non potrò mai... Di sicuro, non prima di aver ascoltato cos'ha da dire Adam su tutta questa storia.>>
L'italiana annuisce pensierosa, le gemme di zaffiro sciolte nella compassione; nella consapevolezza che, in quest'autunno imbevuto di una pioggia assillante, molte cose si stanno già avviando verso un inarrestabile cambiamento, al quale nessuno è in grado di porre rimedio.
I mutamenti dell'anima sono per lo più impalpabili, ma sono anche i più consistenti: quando i pensieri mutano forma, smettono di sentirsi a casa tra le tempie. Fuggono, senza lasciare orme dietro di sé. Ritrovarli non sarà affatto facile ma, a volte, nel percorso della vita, può capitare di imbattersi in un ripensamento; di incappare in un brandello di un vecchio pensiero e decidere di riutilizzarlo, per farci un elegante vestito nuovo.
Ma i pensieri peggiori sono quelli che non mutano mai: restare al cospetto di un sole che sembra in procinto di levarsi, ma che alla fine non sorge mai; trattenersi una vita intera in una sala d'attesa, aspettando un treno che non giunge mai alla nostra stazione.
Ciò che non si trasforma, ci rilega ad una vita di stenti; un deserto arido, in cui non esiste novità in grado di sfamarci, ma solo eterna sete di qualcosa che, come un orizzonte, pare avvicinarsi progressivamente, e invece non fa altro che allontanarsi ad ogni passo, mentre le nostre orme muoiono nella sabbia asciutta.
Temiamo così tanto i cambiamenti perché spesso ci sconvolgono, ci frantumano le certezze, le riducono in coriandoli per un Carnevale di maschere tristi.
Ma, in realtà, nel mortale itinerario della vita, non dovremmo temere di più la staticità, piuttosto che la trasformazione?
La prima ci porta a perire pregni di rimpianti, senza aver mai assaporato il sapore dolce amaro del rischio. La seconda, invece, è sempre un azzardo. Ma è anche un'improvvisa, lampante occasione di felicità.
<<Mi dispiace che tu sia stata obbligata a schierarti>> continuo. <<Immagino sia stato tutt'altro che facile trovarsi tra due fuochi e dover scegliere se lasciarti bruciare da entrambi, o restare a scaldarti al cospetto di uno di loro.>>
Alice tenta in ogni modo di celare l'ombra dell'angoscia che le offusca il volto, ma le mie iridi ne hanno già colto in flagrante i contorni. Vira lo sguardo altrove silenziosamente, alla ricerca di una qualche distrazione che possa giungere in suo aiuto. Alla fine, opta per adagiare lo sguardo color zaffiro oltre la cattedra, sul volto della professoressa Morris.
<<Ehi, che vorrà Miss Morris da noi?>>
Seguo il filo teso dallo sguardo di Alice, capitolando a mia volta sul volto irrequieto della professoressa, ancora intenta a conferire con un Isaac esplicitamente seccato. Nelle sue iridi di pece zampillano fastidio e avversione in egual misura, come un amalgama di lava in ebollizione, mentre Miss Morris lancia incomprensibili occhiate in direzione mia e di Alice.
Riconosco che è la prima volta che scorgo i contorni di una qualche emozioni sul viso incolore di Miller. Fino ad ora, negli ultimi cinque giorni, non ho colto altro che disinteresse e smarrimento, mentre il suo sguardo accarezzava distrattamente - oserei dire con plateale superficialità, i corridoi gremiti di studenti della Westwood.
Non ha rivolto parola a nessuna delle diverse ragazze prosperose e attraenti che hanno tentato invano di attirare la sua attenzione. Né ha lasciato avvicinare qualcuno, all'infuori di Chuck Davis, divenuto suo leale compagno di banco. Ma per quanto Chuck sia famoso non solo per la prestanza fisica, ma anche per la brillante e spigliata simpatia, credo di non aver scorto nemmeno il raggio di un sorriso sorgere sulle sue labbra cremisi.
A volte ho la sensazione che la sua presenza sia solo momentanea: è comparso dal nulla come un breve bagliore in un cielo di tenebre, un fantasma prossimo alla definitiva dipartita e, prima che riesca a rendermene conto, svanirà con la stessa rapidità con cui è apparso.
Per quanto non mi dispiacerebbe affatto vederlo scomparire nuovamente - così da poter rilegare, ancora una volta, i dolorosi ricordi agli angoli più oscuri della mente, anziché doverci fare i conti ogni giorno - percepire i tratti della sua figura in maniera così sfumata, distante, quasi incorporea mentre aleggia nell'etere, è una sensazione piuttosto strana. Nuova. Estranea.
Quando Miss Morris sventola un misterioso foglio davanti agli occhi di Isaac, irrigiditi nuovamente in tizzoni di carbone spento, quella percezione si fa ancora più marcata. Si mescola al cupo presagio di star giocando una partita a scacchi con il Fato. E che il mio avversario – infinitamente più abile di me – stia già programmando uno spietato scacco matto.
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