20
Belgio 1853, novembre.
-Che freddo.- mormorai mentre mi strofinavo le mani nei guanti di capretto bianco. Ero fuori dalla mia vecchia dimora, in attesa dei miei genitori; di lì a poco saremmo saliti sulla carrozza per andare e trovare il mio piccolo nipotino appena nato.
-Sono così emozionata.- Sussurrai fra me e me, era così bello vedere un bimbo dalle gote rosee pieno di vita. Ti faceva tornare l'amore per la vita.
Vidi la carrozza avvicinarsi, dopo che era uscita dalla rimessa, e venire a fermarsi davanti a me. I miei genitori ancora non si erano visti.
La vettura si fermò davanti alla mia figura e la porta si aprì come per magia e Jean ne venne fuori, tendendomi una mano.
-Che ci fate voi qui? Cosa sta succedendo?- Non rispose alle mie domande, la mia mano sembrava essere comandata da una volontà al di fuori della mia. La afferrò con la sua e, come se tutto si fosse mosso vorticosamente intorno, mi ritrovai nell'abitacolo.
Le parole mi morirono in bocca, avrei voluto chiedere, avere spiegazioni, dare una parvenza di logica a tutto ciò, ma mi sembrava di avere il cervello annebbiato; una fitta nebbia che non mi permetteva di dare voce ai miei pensieri.
La carrozza prese a muoversi lentamente e sobbalzava di frequente, come se stesse procedendo su una strada fortemente dissestata.
-Guardate.- Jean mosse una mano e le pareti della carrozza scomparvero, ora eravamo su una sorta di calesse aperto. Il vento era gelido e sferzava con grande forza, come se fossimo al centro di una bufera. Ma i miei occhi, i miei poveri occhi, erano concentrati su ciò che vedevo a terra. La mia mente smise di ragionare, ero convinta di essere in un girone dell'inferno; sotto di noi sfilavano varie figure, o meglio, vari ricordi.
Cominciai a fremere per il terrore, vi erano le cose peggiori del mio passato, gli abusi di mia madre, li rivedevo lì, come animati da una forza oscura, avvolti da una nebbia, uno ad uno. Poi ci furono i ricordi dell'abuso, cercai di coprirmi gli occhi con le mani ma quelle di Jean mi trattennero da fare quel gesto.
-Guardate, guardate da che schifo provenite.- Sentii le lacrime pizzicarmi, perché ero costretta a rivedere tutto ciò? Ero riuscita ad inscatolare i miei ricordi più dolorosi e a nasconderli in un angolo della mente, perché tutto stava venendo fuori di nuovo?
-Jean perché mi state facendo questo?- Cercai di aggrapparmi alla sua giacca e nascondere il viso nel suo petto ma fu come se stessi cercando di afferrare dell'aria; la sua figura eterea sfumava dalle mie dita come se fosse stato un fantasma.
-Smettetela di essere debole, guardate il vostro passato e vergognatevi.- Avvertii un tocco gelido sulle tempie e il mio viso si voltò da solo, cercai di resistere ma era come se la mia muscolatura fosse stata passata. Mentre la carrozza procedeva lentamente, con il volto fisso sui miei ricordi, fui costretta a guardare il tutto senza proferire parola. Ogni ricordo nuovo, che compariva, veniva inghiottito dal successivo così da creare una catena infinita. Incredibile era il numero di terribili ricordi che avevo, ancor più strabiliante il fatto che la mia mente fosse in grado di ricordarli tutti. Le scene cominciarono a svanire, gradualmente, come della fuliggine al vento e come per magia eravamo davanti alla casa di mio fratello. All'ingresso, ad attendermi vi erano due figure, la mia finta cugina Maria Clementina e l'altra, la mia vera cugina, scampolo del mio passato e della mia orrida famiglia, conosciuta come Roxana. Avevano un sorriso maligno stampato sul volto e allungarono le loro lunghe mani, lunghissime mani spettrali, fino ad arrivare al mio corpo. Loro rimasero ferme dove erano con i loro corpi, ma gli arti sembravano essere in grado di estendersi, come se fossero state dei nastri. Il mio corpo venne sollevato di peso e trascinato verso l'interno di quella casa. Jean rimase sulla vettura, guardava fisso davanti a sé.
-Jean! Jean! Non lasciatemi!-
Cercai di dimenarmi, con le mani e le gambe arrancai verso di lui, cercando di resistere, come potevo, a quelle mani da arpie. Ma lui non rispose mai, né si voltò. Vicino alla sua figura l'aria iniziò a tremolare e comparve una figura femminile. Non riuscii a riconoscerla, ne vedevo solo la chioma scura e le spalle. Il mio cuore andò in mille frantumi e come se fossi stata una bambola di pezza invertebrata, smisi di combattere. La mia testa di afflosciò da un lato, gambe e braccia erano molli, si muovevano solo nella direzione di dove venivo trascinata. Vidi la carrozza, con Jean e la donna ripartire, mentre il mio corpo era sempre più vicino al portone. Venni trascinata all'interno, le porte si chiusero. Mi sembrava di cadere all'indietro nel vuoto.
Buio, era tutto buio.
Sentivo quelle sudicie e avide mani scorrermi sotto il vestito, mi strappavano la sottana, il corpetto lasciandomi nuda nel buio. Come serpenti umidi, le dita di quelle megere strisciavano sulla mia pelle fredda come un pezzo di ghiaccio. Le urla mi rimanevano in gola, non riuscivo a respirare, mi stavano soffocando. Mi innalzarono sopra di loro di alcune spanne e mi lasciarono cadere. Poco prima di toccare terra udii le loro risate in lontananza.
Mi alzai di scatto dal letto, scesi immediatamente senza curarmi di indossare le pantofole, il pavimento di legno era duro e freddo contro i miei piedi. Riuscii ad arrivare al lavabo in tempo per vuotare lo stomaco. Era stato uno dei peggiori incubi fatti fino a quel momento, non avevo mai vissuto una cosa di una simile potenza. Ma sapevo bene che quel sogno non faceva altro che dare sfogo al malessere del mio animo. Angelique aprì la porta che conduceva dalla mia stanza da letto al mio salottino adiacente, da quando era arrivata Roxana le avevo chiesto di restare a dormire sempre vicina a me. Le cose si erano complicate notevolmente dall'arrivo di quel mostro. Tutto in lei mi ricordava mio zio, nei modi e nell'aspetto, e non potevo fare a meno di avere un conato di vomito ogni volta che era nelle mie vicinanze. Angelique, che era tutt'altro che stupida, aveva cercato di mandarla via ma non era riuscita, al di là del problema con il mio passato, Roxana si era sempre comportata nel migliore dei modi nei miei confronti. Non vi erano veri motivi per mandarla via, la situazione sarebbe risultata pretestuosa, inoltre la signorina Maes, colei che dirigeva la servitù, non voleva saperne proprio nulla di mandare via Roxana. Sembrava quasi come se vi fosse qualcuno ad intercedere, come se fosse protetta da qualcuno, sicuramente, più in alto e potente rispetto a me.
-Che succede, di grazia?- Si avvicinò lentamente, era sempre molto cauta nei movimenti, era una cosa che apprezzavo particolarmente del suo carattere. Poggiò una mano sulla mia schiena e la accarezzo leggermente, sembrava come se volesse strofinare via gli spasmi a cui era sottoposta la mia cassa toracica mentre rigettavo quel poco di cibo che avevo ingerito qualche ora prima. La sentii allontanarsi per tornare con un asciugamano ed una bacinella in ceramica con dell'acqua fresca. Ne fui estremante grata, l'acqua fresca sul mio viso sembrò attenuare il mio senso di ansia e angoscia provocata da quel sogno. Sciacquai anche la bocca cercando di togliere il sapore acre dei succhi dello stomaco, detestavo vomitare, mi sembrava uno sconvolgimento così forte del corpo che mi era anche solo impossibile comprenderne i meccanismi. Asciugai il volto e tornai lentamente al mio letto, mettendomi seduta con fare pesante.
Angelique si mise vicina e attese che fossi io a parlare, era capace di attendere per ore, paziente, anche se alla fine, magari, non dicevo nulla.
-Non capisco, non capisco proprio. Che ci fa lei qui? Ma perché è tornata?- Quelle domande mi avevo corroso la mente dal momento in cui era arrivata Roxana. Non riuscivo a spiegarmi, io tanto quanto Angy, del perché della sua presenza. Che fosse stata mandata dai miei genitori per vedere come stessi? Puro caso? Le mancavo?
Quando eravamo piccole, nonostante Roxana fosse di qualche anno più grande di me, avevamo sempre avuto un ottimo rapporto. Finché non decise di andare a lavorare per delle nobili famiglie come domestica, il motivo mi era sempre rimasto oscuro dato che mio zio, come la mia famiglia, o almeno così credevo, erano benestanti. Ad ogni modo, nel corso degli anni, non avevo avuto più contatti dato che, dalla morte di mio fratello, non mi era stato concesso di vivere.
-Non lo sappiamo, ma non sembra avere cattive intenzioni.- Poggiò delicatamente la mano sulla mia spalla a confortarmi. Sospirai affranta e passai le mani sul viso per poi pizzicare la base del naso.
-Per non parlare di quella maledetta di Clementina! E' un mese che non fa altro che fingere di stare male e trattenersi, molto più del dovuto qui da noi. E adesso che le festività di Natale si stanno avvicinando, e che la neve cadrà bene sulla nostra città, sarà impossibile mandarla via.- Mi alzai nuovamente e andai verso il caminetto, la brace ardeva pigra nel focolaio.
Quella maledetta mi dava la caccia , come se fosse stata un uomo affamato nel bosco che cerca di prendere la preda. Non faceva altro che starmi alle calcagna, ogni scusa era buona per riempirmi di pettegolezzi e cercare di vedere se ero veramente chi io dicessi di essere. Ricordai con chiarezza quando mi chiese se provavo qualcosa per un certo Albert, non sapendo nulla di quell'uomo dato che i pettegolezzi che mi erano stati istruiti non si erano spinti così tanto nel profondo delle viscere di quella povera donna austriaca, non potei fare altro che restare sul vago.
Tutta questa situazione, dove mi sembrava di giocare al gatto e il topo, Leopoldo sempre più nervoso, profondamente scosso anche lui da tutta questa gente che era venuta a ficcanasare nei nostri affari, era insostenibile. Mi spostai andando alla finestra, poggiai le mani sul davanzale gelido e guardai la notte scura. Quasi come se lo avessi predetto, cominciarono a cadere dei fiocchi di neve. La mia mente volò verso Jean, chissà dove si trovava, cosa stesse facendo, chissà se sarebbe tornato per Natale. Non desideravo altro se non poter stare con lui, e dopo quell'incubo, il desiderio era ancora più forte. Da quando era partito, mi sembrava che metà della mia persona fosse rimasta con lui.
Mi mancava da morire e tutto mi ricordava di lui. Sospirai e con una mano, come a voler rafforzare il gesto mentale, cercai di cacciarlo dai mie pensieri. Mi fidavo totalmente di lui, avevo fiducia nel fatto che sarebbe tornato e che ciò che avevo visto prima, era solo stato un vile tiro mancino.
-Forse è meglio se torno a dormire.- Angelique si alzò e annuì, prese la bacinella sporca e la portò via, tornò un istante in camera per assicurarsi che stessi bene.
Non stavo bene, affatto, la mia mente non riusciva a calmarsi e il sonno sembrava solo un lontano miraggio. Avrei tanto voluto dormire così da dissociarmi dalla realtà, avere quelle ore in cui non pensare, sperando di non essere nuovamente assalita. Mi girai più e più volte nel letto, non trovai pace e così, attesi l'alba.
Il sole rosso, ancora assonnato, si sollevava dietro gli alberi riportandomi a tempi lontani e felici. L'ultima volta che vidi l'alba fu con mio fratello e mia cugina. Avevamo rubato delle pagnotte calde dalla cucina, solitamente nostra cuoca tendeva a far lasciare il pane vicino ad un focolare tiepido. Quel giorno, nessuno avrebbe avuto pane caldo a colazione.
''Credi che la felicità sia questa?- chiese Roxane a mio fratello, egli non rispose subito, si portò solo una mano sullo stomaco e disse:''Se la felicità è la pancia piena, io sono sempre felice''- ridemmo tutti e tre, giovani e senza pensieri, senza ansie per il futuro. C'eravamo noi tre, anime pie e spensierate che come futuro vedevano il pane caldo il mattino dopo. La carne di bue per natale, le passeggiate nel bosco in primavera. La felicità per me era quella, una famiglia che mi amava e il pane. Volevo provare una pace infinita, come una semiretta come nella geometria, un'infinità di numeri in una cifra finita, come gli anni luce nella scienza astrologica, sentirmi definita e reale come la gravità in fisica.
''Cugina, per te cos'è la felicità?''
Passarono anni ed a quella domanda non risposi mai. Non ebbi il tempo di rispondere a Roxane, poiché arrivò il momento di separarci. Da quella volta seguirono vani eventi, le nostre vite che proseguivano, noi che crescevamo...l'incidente e tutto il resto. In quel momento, avvolta dalle mie coperte, avrei risposto che Jean era la mia felicità presente e futura. Ripensai alla prima volta in cui posai gli occhi nei suoi, creando scariche elettriche che nemmeno uno studioso avrebbe saputo fermare, il tocco della sua pelle liscia e mascolina sotto le mie dita piccole e curate, il suo tocco fermo sulla mia nuca e il dolce suono della sua voce mentre parlavamo in un tempo ancora distanti. Eravamo solo conoscenti, avevamo ancora molto da dirci.
In collaborazione con Figlia_dell_inverno
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