Capitolo 1 - Blu (Prima Parte)
Verity riprese conoscenza ancor prima di aprire gli occhi. Si sentiva strana, riposata, come se avesse dormito per delle ore e in quel momento fosse piena di energie.
Sotto di lei qualcosa le solleticava la pelle nuda delle braccia e delle caviglie, riportandole vari ricordi alla mente. Uno in particolare era legato a due delle sue migliori amiche: Selene e Silvia.
Durante il suo diciassettesimo compleanno, circa tre anni prima, le aveva invitate entrambe a un pomeriggio nella natura, con corrispettivo pranzo. Avevano preso un autobus e, in circa un paio d'ore, avevano raggiunto la loro meta.
In montagna c'era stata un'aria talmente fresca da averle provocato i brividi, la calma e la tranquillità della natura ricoprivano come un manto ogni cosa. Un velo leggero che l'avvolgeva e la chiudeva nel suo delicato abbraccio. Il benessere era parso infiltrarsi sotto i suoi vestiti per accarezzarle l'epidermide curiosa, donandole uno stato di pace che nulla era mai riuscito a darle.
La natura le provocava sempre quell'effetto, il contatto diretto con qualcosa di delicato ma, al medesimo momento, puro e vero.
Si erano sistemate in un parco pubblico, altre famiglie e coppie pranzavano con un semplice picnic intorno a loro. Non erano da sole, eppure sembrava che fossero racchiuse in una bolla che le isolava da ogni cosa. C'erano loro tre e la montagna, nient'altro.
La tovaglia, interamente di un color panna, era servita solamente per il cibo e le bevande, dato che poi avevano deciso di accomodarsi sul terreno, a stretto contatto con l'erba verde brillante e rigogliosa.
Erba, ecco cos'era lo strano materiale che le stava solleticando le zone scoperte. Lunghi e morbidi ciuffi le accarezzavano la pelle, svegliandola dolcemente dal suo sonno profondo.
Con estrema lentezza, Verity aprì gli occhi, sbattendo più volte le palpebre, in maniera tale da poter adattare la vista alla luce circostante.
Sopra di lei alti alberi si allungavano con i propri rami fino al cielo di un blu simile ai lapislazzuli, privo completamente di stelle. Le foglie erano di circa tre tonalità più scure, mentre i tronchi parevano essere quasi neri come l'inchiostro.
La ragazza non sapeva minimamente come avesse fatto ad arrivare in quel posto. Era stata rapita? Qualcuno l'aveva lasciata in quel luogo? E per quale motivo avrebbe dovuto farlo?
Ma soprattutto, perché ogni cosa era blu? Era la notte a creare quell'effetto monocromatico, oppure solo un'illusione ottica causata dal fatto che si fosse appena svegliata?
I suoi ricordi erano confusi, linee di colore che si mescolavano tra loro, creando solo dei dipinti caotici e per nulla dettagliati. Nella sua mente aveva un quadro astratto che faticava a schiarirsi, mantenendo le sue forme confuse e di difficile interpretazione. Kandinsky non avrebbe potuto creare un capolavoro migliore e meno concreto di quello che aveva lei in testa, legato alla sua memoria.
Piano piano, la ragazza raddrizzò la schiena e si mise a sedere, osservandosi intorno.
Ciò che la colpì di più furono i colori: ogni cosa era sulle tonalità e le sfumature del blu, non era un'invenzione della sua mente o solo un'apparenza iniziale. Era tutto monocromatico, dal cielo privo di stelle all'erba blu cobalto.
Era per caso impazzita?
Stava sognando, ne era quasi sicura, non era possibile che quel luogo fosse reale, tuttavia non ricordava nulla a riguardo.
Vagamente, come se qualcuno l'avesse colpita, le tornò in mente un nome: Dante Alighieri. Esattamente come il famoso autore fiorentino, anche lei si trovava nel bel mezzo di una selva oscura.
Lo studio le aveva, per caso, dato alla testa? Era da giorni che rimaneva con il viso sui libri, nel tentativo di imprimersi nel cervello tutte le informazioni riguardo allo scrittore e le sue opere, in previsione di un esame all'università.
Fatalità voleva che, giusto l'ultimo ricordo riguardo alle ore di studio passate, fosse legato al proemio dell'Inferno della celebre Commedia. In esso, infatti, il protagonista si trovava al centro di una selva oscura, simbolo del peccato in cui era finito.
Dopo il suo risveglio il protagonista, nonché lo stesso autore, aveva iniziato a camminare per un po', fino a quando non aveva raggiunto un colle con la cima illuminata, simbolo della strada da dover percorrere per raggiungere Dio. A bloccarlo, tuttavia, c'erano state tre fiere, ovvero tre animali: una lontra, un leone e una lupa.
«Speriamo di non incontrare alcun animale ostile qui» commentò Verity, alzandosi in piedi per poter iniziare a camminare. L'unica soluzione a lei disponibile era di cercare una via d'uscita, in modo tale che potesse andarsene il prima possibile da quel luogo. In parte ella provava una leggera paura, non sapendo con precisione dove si trovasse o chi si potesse annidare dietro ai tronchi scuri.
Una particolarità che notò quasi subito, nel contempo che si spazzolava un po' i vestiti e iniziava a camminare, riguardava l'illuminazione. Il cielo era privo di stelle, un velo scuro che avvolgeva ogni cosa. Eppure riusciva a distinguere perfettamente ogni caratteristica degli alberi e i ciuffi d'erba, così come le loro tonalità e le sfumature, le quali erano ben evidenti. Tuttavia non c'era nulla che potesse essere indicata come fonte di luce.
O almeno, non era visibile a lei.
Nel contempo che camminava, Verity non poteva fare a meno di affermare, con sempre maggiore convinzione, che tutto quanto fosse solo un sogno. Cercava di ricordarsi se per caso, la notte prima, fosse andata a dormire, tuttavia nessuna immagine le appariva davanti l'occhio della mente, solo un immenso vortice di colori.
A quel punto, decise di fare la prova del nove controllando l'ora sul proprio orologio da polso. Spesso, negli istanti in cui si rendeva conto di essere in un sogno, dava un'occhiata alle lancette o i numeri di un orologio qualsiasi, il primo che trovasse a portata di mano, per poi distogliere lo sguardo e portarlo di nuovo sull'orario dopo qualche secondo. Se non si fosse veramente trattato della realtà, l'ora sarebbe cambiata di molto. Tuttavia, quest'ultimo non era presente al suo posto.
Verity iniziò ad avere il respiro leggermente affannato, la preoccupazione che le inondava le vene. Dov'era finito? Non se lo toglieva mai, a meno che non dovesse farsi la doccia. Ne aveva per caso fatta una prima di mettersi a dormire? Dimenticandosi, così, di rimetterlo prima di andare a letto?
Eppure nel sogno dovrebbe esserci stato lo stesso, il suo cervello dovrebbe averlo registrato come un suo accessorio perenne. Com'era possibile che, invece, non fosse per nulla presente? Non era un guaio o un problema enorme, tuttavia questo spaventava la ragazza, non avendo a disposizione l'unica cosa che poteva donarle una qualche sorta di sicurezza.
I segni, però, erano ancora al loro posto.
Fu in quell'attimo che, con grande stupore, Verity notò che lei non era blu. Forse l'aveva data per scontata come cosa, o probabilmente credeva che, in qualche maniera, si fosse fusa con l'ambiente circostante e, di conseguenza, ne avesse assunto le varie sfumature. La realtà dei fatti, però, era che lei era l'unica cosa colorata che avesse visto da quando si era svegliata.
La pelle, leggermente abbronzata, era in netto contrasto con i jeans lunghi blu chiaro che le fasciavano le gambe. Le scarpe erano le sue solite da ginnastica bianche, mentre la maglietta a maniche corte fu ciò che la sorprese di più di tutto il resto: era sicura non fosse sua. Essa era formata da undici strisce cromatiche diverse, nette e distinte tra loro. Si iniziava dal blu per arrivare, infine, al giallo sul bordo in fondo.
In un atto di pura curiosità e come ultima spiaggia, si strappò un capello.
Non avrebbe dovuto fare male trattandosi di un sogno, eppure lo percepì benissimo. Tuttavia, non si preoccupò molto di quel dettaglio, esattamente come aveva fatto per la mancanza dell'orologio, avendo già vissuto un'esperienza simile durante un'altra notte, tempo prima.
Si portò i sottili ciuffi davanti agli occhi. Come sospettava, anche i suoi capelli biondo scuro erano rimasti dello stesso colore. Sicuramente anche gli occhi, con le iridi simili a cioccolato fondente, non erano state modificate dal luogo circostante.
Verity lasciò cadere a terra i pochi capelli e, con calma, riprese il suo viaggio. Più avanzava e più aveva la sensazione di star girando intorno. Stessi alberi e medesime conformazioni, l'unica cosa che si stava modificando gradualmente era la luce. Questa, infatti, pareva star calando sempre di più, come se qualcuno la stesse spegnendo lentamente. In pochi secondi, Verity si ritrovò in mezzo al buio.
Il sogno si stava ufficialmente trasformando in un incubo.
Fin da piccola, infatti, da quando aveva visto l'episodio di un cartone animato un po' spaventoso, la giovane era terrorizzata dal buio. O meglio, da ciò che vi si poteva annidare dentro. Per quanto paradossale, amava i film e, più in generale, il genere horror, proprio per quel brivido che le causavano lungo la schiena, se fatti o scritti veramente bene.
In quegli istanti, però, quelli che le si stavano diffondendo per il corpo attraverso il sistema nervoso, più simili a una scarica elettrica che altro, le causavano il gelo nelle ossa. La paura iniziò a pervaderla ovunque, dalla punta dei capelli fino all'unghia dei piedi.
La ragazza si fermò sul posto e si voltò, con l'idea che, magari, facendo la strada a ritroso avrebbe ritrovato l'illuminazione di poco prima. Tuttavia, non appena fece qualche passo, notò che, in qualsiasi direzione ella andasse, il buio si intensificava sempre di più. Non vedeva più nulla, il blu invadeva totalmente il suo campo visivo.
Chiuse gli occhi e fece dei respiri profondi, nel tentativo di calmare il cuore. I battiti avevano iniziato a pulsare sangue nelle arterie a una velocità incredibile, l'adrenalina che le scorreva in corpo la faceva sentire viva, quando in realtà avrebbe voluto essere da tutt'altra parte.
Fece un passo avanti, quando percepì qualcosa afferrarle la caviglia. Una sorta di mano ruvida, con le dita che parevano artigli, era sbucata da chissà dove e aveva afferrato l'arto della ragazza con forza. Istintivamente, con il cuore che parve esploderle nel petto, Verity gridò e tentò di arretrate, cadendo a terra. La mano non c'era più, ma lei poteva sentirne le dita stringerla ancora.
Si portò le gambe al petto e iniziò a piangere disperatamente, chiedendo di tornare a casa, domandando di svegliarsi immediatamente da quello che, a tutti gli effetti, era diventato un incubo. La botta causata dalla caduta non l'aveva nemmeno percepita.
Non riusciva a fare nient'altro se non piangere e venire scossa dai singhiozzi e i brividi. Avrebbe voluto scappare, eppure le sue gambe non glielo permettevano, all'apparenza molli e incapaci di sopportare il suo peso. Avrebbe desiderato urlare di nuovo, ma la gola si era improvvisamente seccata, impedendole di poter proferire alcun suono. Era terrorizzata, circondata da un mondo tenebroso e pieno di insidie. La mente era totalmente vuota, non era in grado di pensare a causa dello stato di paura in cui si trovava.
Uno strano venticello, all'improvviso, le scompigliò leggermente i capelli, come se qualcuno le fosse passato di fianco.
Verity raddrizzò la testa spaventata, guardandosi intorno nella speranza di vedere chi fosse stato, sperando non fosse il proprietario della mano di poco prima. La risposta, però, fu che, a malincuore, non riusciva a vedere ancora nulla. Come pochi secondi prima, il blu dominava ogni cosa, rendendo tutto una possibile minaccia.
«Non avere paura» le disse all'improvviso una voce maschile, proveniente dalle sue spalle. Verity si girò immediatamente in quella direzione, scuotendo la testa e strizzando gli occhi più volte, sperando di adattare la vista al buio. Purtroppo, furono solo dei tentativi vani, che portarono con sé solamente altre lacrime, disperazione e angoscia, oltre che aumentare la forte paura.
Poteva essere chiunque, chi le avrebbe rassicurato che non le avrebbe fatto nulla? Chi le diceva che non era il proprietario della mano che le aveva afferrato la caviglia? Non aveva alcuna certezza, solo una forte amarezza e timore che le vibravano nel corpo.
«Non ti farò male, te lo prometto. Sono qui per aiutarti e guidarti.» La voce era calda e rassicurante, morbida e profonda. Era una carezza sul viso che le portava conforto, sussurrandole con sicurezza che sarebbe andato tutto per il meglio.
«Chi sei? Cosa vuoi da me?» Domandò ancora in lacrime la giovane, i singhiozzi si erano stranamente calmati e le davano la possibilità di parlare. La voce, tuttavia, non usciva stabile dalle labbra tremolanti, ma vibrante, sottile e leggera. Fragile.
«Te l'ho detto: aiutarti e guidarti» ripeté l'altro, facendo una piccola risata che, in parte, riscaldò il cuore tormentato e pulsante dell'altra.
«Non so chi tu sia, come faccio a fidarmi di te?» Ribatté stizzita la giovane, chiudendo forte gli occhi e tenendoli celati all'oscurità.
Si trovava nel suo peggior incubo immersa in una delle sue paure più grandi. Come poteva, così dal nulla, accettare l'aiuto di uno sconosciuto? Chi era lui per poterla aiutare a non brancolare nell'oscurità? Sommersa com'era in un mare di blu che, per ironia, era anche il suo colore preferito?
«Posso avvicinarmi?» Le chiese semplicemente lui, il tono gentile e dolce, per nulla minaccioso. Era come se stesse parlando a un animale ferito e abbandonato, il quale aveva bisogno di conforto e di sentire del calore umano per poter stare meglio.
«Va bene» acconsentì alla fine Verity, annuendo e mantenendo ancora gli occhi chiusi, anche se era ancora titubante e restia. Tuttavia, se voleva uscire da quella situazione, l'unica possibilità a sua disposizione era di accettare l'aiuto di quello sconosciuto. Era la miglior opzione che potesse scegliere, a detta sua.
Di fronte a lei percepì qualcosa muoversi, gli occhi serrati e le lacrime che ancora le rigavano il volto già stanco. Il sottile vento che provocò con i suoi movimenti le accarezzò la pelle, causandole ulteriori brividi.
Si immaginò che la stesse guardando con attenzione, esaminandola. A differenza sua, la ragazza aveva la sensazione che l'estraneo riuscisse a vedere, che non si sentisse cieco e smarrito come lei. Percepiva gli occhi di lui puntati addosso, nel contempo che la esaminava centimetro per centimetro.
L'unica cosa che poteva fare la giovane, oltre ad aspettare spaventata, era fantasticare su chi avesse davanti o cosa stesse facendo. Se lo figurava giovane, magari qualche anno più grande di lei, con i capelli e gli occhi scuri, il corpo alto e slanciato.
«Posso toccarti?» Le domandò lo straniero piano, un mormorio che lei udì appena. La voce era più vicina, segno che si trovava a poca distanza.
Il respiro divenne più affannato, talmente tanto che dovette respirare con la bocca. Stava avendo una crisi di panico, l'aria entrava e usciva a fatica dai polmoni.
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