Capitolo 14
L'ottava fatica era la sfida che più di tutte aveva il potere di segnare il destino di chiunque decidesse di affrontarla. Il Re si era rivolto a noi con parole dure e chiare: chi fosse pronto a rischiare la propria vita per Greta doveva affrontare un leone in una gabbia, senza sapere cosa lo aspettava all'interno. La sua offerta era chiara: ritirarsi significava salvarsi la vita, ma rinunciare alla possibilità di vincere. Nessuno scelse di ritirarsi.
Il cuore mi batteva forte, ma non era il momento di voltarsi indietro. La tensione era palpabile, sentivamo il ruggito della bestia, ma non potevamo vedere nulla di ciò che stava accadendo all'interno. Solo il silenzio, interrotto dai suoni dei ruggiti, ci faceva tremare. Ogni ragazzo che entrava non tornava fuori, e la sensazione di impotenza cominciava a farsi strada nella mente di tutti. Un leone non è una creatura con cui si può sperare di combattere o fuggire: se avessi fatto il minimo errore, sarebbe stato finito.
Quando arrivò il mio turno, il "gobbo" mi chiamò. Mi guardò, aspettando una reazione. In quel momento, non c'era scelta. Pensai a Greta, a tutto ciò che avevamo passato, e decisi di entrare. Se avessi avuto una possibilità, avrei dovuto provarci.
Appena varcai la soglia della gabbia, il leone era lì. La sua presenza era imponente, e l'odore di sangue nell'aria era pesante. Non mi distrassi dal suo sguardo, il mio istinto era di non perdere il contatto visivo. C'erano oggetti sparsi per la gabbia – un bastone, dei sassi, una corda, un corno e una tela – ma sembravano inutili. Se il leone avesse voluto, mi avrebbe ucciso in un istante. Ruggiva mentre masticava un osso, ma non si muoveva, come se stesse osservandomi, testando la mia reazione.
Ad ogni passo che facevo, mi sembrava che il leone diventasse sempre più nervoso. Non osavo abbassare lo sguardo, ma quando mi avvicinai abbastanza, notai un pugnale per terra. Non potevo fare a meno di prenderlo, ma appena distolsi lo sguardo, il leone mi attaccò. Con una furiosa ruggita, si lanciò verso di me, facendomi indietreggiare. I suoi denti erano vicinissimi, ma non riuscì a fare altro che farmi arretrare. Non mi persi d'animo, ripresi subito a fissarlo, mantenendo l'intensità del contatto visivo.
Sembrò che la sua furia si calmasse, quasi come se fosse stato ipnotizzato da quel legame visivo. Continuai a camminare, mantenendo gli occhi sempre fissi su di lui, finché riuscii a passargli accanto, sfiorandolo. Lentamente, mi misi davanti alla porta d'uscita. Con il tatto, sentii il catenaccio e, con un po' di difficoltà, lo aprii. Mi allontanai lentamente, ma mai distogliendo lo sguardo, fino a essere fuori dalla gabbia.
Quando finalmente fui fuori, un lungo sospiro di sollievo sfuggì dalle mie labbra. Alcuni ragazzi che ce l'avevano fatta, seppur tremanti, mi guardarono con uno sguardo di comprensione, un accenno di applauso silenzioso per chi aveva rischiato tutto e ce l'aveva fatta.
La notizia che il "gobbo" ci diede al termine della prova fu dolorosa: "Siete rimasti in 26". La metà di noi era già fuori. La competizione era ormai ridotta a pochi coraggiosi e determinati ragazzi. Ma quella fatica mi aveva insegnato una lezione fondamentale: la paura può essere affrontata, e la determinazione, anche nei momenti più oscuri, è la chiave per continuare a lottare.
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