Capitolo 13
La settima fatica fu una delle sfide più dure, ma paradossalmente non prevedeva eliminazioni immediate, se non alla fine. Ormai eravamo quarantasei ragazzi, e il ritmo delle eliminazioni si era fatto sempre più intenso. Alla fine della prova, comunque, ci sarebbe stata una selezione drastica. Il Re aveva in serbo per noi una gara massacrante, che avrebbe fatto emergere solo i più resistenti.
La sfida era una corsa: dovevamo percorrere cento giri intorno al castello. La parte più difficile, però, sarebbe arrivata nei due giri successivi, il centounesimo e il centoduesimo, dove i due ragazzi più lenti di ogni giro sarebbero stati eliminati.
Tutti partirono subito a pieno ritmo, ma io decisi di seguire il mio passo. Non volevo bruciarmi troppo presto, e il mio corpo, stanco dalle fatiche precedenti, mi consigliava prudenza. Alcuni ragazzi rimasero con me, ma man mano che i giri passavano, molti si allontanarono. Sembravano irraggiungibili. Quando ci accorgemmo che ormai metà dei concorrenti ci aveva superato già tre volte, capimmo che la gara ormai era limitata a noi. Gli altri erano fuori dalla nostra portata.
La fatica si fece sentire, ma ero ancora determinato a non mollare. La mia caviglia, ancora dolorante per il morso dello scorpione, mi dava fastidio, ma mi sentivo relativamente fresco rispetto ad altri. La corsa, però, cominciava a farsi davvero estenuante. La fine si avvicinava, ma eravamo solo a metà strada.
A dieci giri dalla fine, la situazione cambiò. Saetta, un ragazzo veloce come un lampo, figlio di un pescivendolo, aumentò notevolmente il passo. Alcuni dei ragazzi più allenati presero la sua scia, riuscendo a stargli dietro, ma io e altri tre ragazzi ci guardammo negli occhi e capimmo che sarebbe stata una sfida tra noi. Noi quattro.
Eravamo in tre a resistere al ritmo impetuoso di Saetta: i gemelli Vancini, Luca e Paolo, e il ragazzo che tutti chiamavano Luciano, ma soprannominato "il cammello" per via della sua statura imponente e dell'aspetto non proprio gradevole. Il suo passo era potente, ma anche molto pesante.
Quando mancavano quattro giri al termine, il "cammello" prese l'iniziativa. Con una falcata lunga e decisa, allungò il passo e ci distaccò. Io e gli altri gemelli ci scambiammo uno sguardo e sapevamo che avevamo solo un'opportunità per non rimanere indietro. Ma Luca, purtroppo, non ce la fece: cercò di forzare troppo il ritmo per tenere il passo, ma il suo fiato lo abbandonò dopo poche decine di metri. Fu costretto a fermarsi, ed era chiaro che per lui la gara finiva lì.
Il centoquattresimo giro sarebbe stato decisivo. Eravamo rimasti in tre: io, Paolo e il "cammello". Il cammello era stanco, ma era ancora lì con noi. Poi arrivò il rettilineo finale, proprio dopo la torre della sala degli specchi. Fu il momento decisivo: chi avrebbe avuto la forza di sprintare fino alla fine?
Chiusi gli occhi per un momento, sentendo il dolore alle gambe e alla testa, e poi spinsi il corpo al massimo. Mi lanciai verso la meta con tutta l'energia che avevo, cercando di non pensare alla fatica. Quando riaprii gli occhi, mi resi conto che ero avanti e che il traguardo era ormai vicino.
Mi girai un attimo e vidi Paolo, stremato e con un passo zoppo, ma determinato a non mollare. Lo vedevo avvicinarsi al traguardo, ma ormai era troppo tardi per lui. Il "cammello" era distante, con le mani sui fianchi, deluso per non aver avuto la forza di rispondere al mio sprint.
Ce l'avevo fatta! La gara era finita per me. Ero entrato tra i primi due, passavo il turno, e la competizione continuava.
Con il cuore che batteva a mille e la lingua fuori dalla fatica, mi diressi verso la fontana. L'acqua fresca mi scivolò sulla nuca, ma non bastò a calmare il dolore che sentivo nel corpo. La sfida non era ancora finita.
In quella fontana, tra le mani bagnate e il respiro affannoso, mi resi conto che ormai c'erano pochi di noi rimasti, ma nessuno era pronto a cedere.
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