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L'Assassino e il Prologo



«Non concentrarti sul finale. Ogni scelta ha una svolta verso un finale in sospeso. Un enigma drammatico genera spargimenti di sangue passando sempre da una situazione all'altra. Le morti non finiscono.»




❖ Un mese prima  


Il vecchio camminava a passo pesante all'interno di quel claustrofobico cunicolo, mentre piccoli fiumiciattoli circumnavigavano il sentiero, appena illuminato dalla fioca luce delle lucciole azzurre che ronzavano fra le stalagmiti, rincorrendosi come se giocassero a nascondino. Le gocce d'umidità scivolavano dalle volte rocciose, picchiando il terreno con suoni silenziosi che si mescolavano ai suoi passi, al fruscio del suo mantello, al ticchettio sordo del suo bastone.

Arrancava, stancamente piegato dalla gobba nascosta sotto alla veste; il volto possedeva l'aria grave di chi ha qualcosa di urgente, importante, qualcosa di vitale da dire, ma la strana preoccupazione di chi non riesce ad usare la voce per parlare. Il lungo mantello dietro ai suoi piedi strisciava come la coda di una lucertola, ogni tanto impigliandosi fra le rocce per poi strapparsi; soltanto che il tessuto non ricresceva, ma rimaneva spezzato in fili confusi, come in un groviglio di capelli annodati.

Gli occhi antichi e stanchi dell'uomo, cerchiati da quelle sagge rughe che racchiudevano, una ad una, un singolo angosciante avvenimento, questa volta erano più gravi e tirate del solito, sintomo che qualcosa di brutto stava per accadere. O magari che era già accaduto, ed ora bisognava raccogliere i pezzi di quel che era stato rovinato.

Quello che prima era un bagliore azzurro e fioco, adesso iniziò a trasformarsi in un'accecante luce viola. Ed ecco che il vecchio s'arrestò all'improvviso, sigillando le labbra barbute in una linea sottile, mentre lo sguardo correva da una figura all'altra.

Il buio, così fitto nei cunicoli stretti e gocciolanti di quelle caverne, adesso non era che un ricordo lontano: da ogni più piccolo angolo di quell'enorme salone scavato nella roccia spuntavano cristalli luminosi, che lampeggiavano come se seguissero i battiti dei cuori di quegli abitanti sotterranei. I bambini correvano da una parte all'altra con rumorosi schiamazzi, farfalle colorate svolazzavano posandosi distrattamente sul pelo dell'acqua, ninfee galleggiavano in piccoli laghi intorno a cui erano sistemati tavoli dove la gente mangiava, dialogava, o magari leggeva con la testa china sui libri.

Eppure, quando il vecchio barbuto entrò trafelato dal grande arco di pietra, togliendosi dal viso il pesante cappuccio nero, molteplici occhi viola si fissarono sulla sua figura. E lui scrutò quegli sguardi color malva uno ad uno, soppesandoli come se conoscesse i loro segreti, i loro ricordi, le loro paure. Guardava gli abitanti di quella città sotterranea e la gente lo fissava di rimando con un reverenziale rispetto, mentre lui cercava, con ansiosa disperazione, una sola persona. Un ragazzo.

E quello stesso ragazzo si sollevò sulla sua vertiginosa altezza. Una lunga treccia si mosse alle sue spalle scivolando nell'aria come un fascio d'argento; ogni ciocca intrecciata scintillava dispettosamente di grigio, come il mercurio liquido che anche se cerchi di schiacciarlo, ti scivola sempre da sotto alle dita senza neppure bagnarti; ogni setoso filo di quei capelli sembrava esser stato ricavato dal ferro della lama più affilata. E i suoi occhi, i suoi brillanti occhi viola come ametiste, così pieni di colore da ricordare un bellissimo campo di lavanda che nessuno, laggiù, avrebbe mai potuto vedere, fissarono lo sguardo del vecchio e capirono.

Le labbra sottili e così chiare da sembrare bianche, simili agli spicchi di un frutto ancora acerbo, si scoprirono appena in un'espressione colma di tensione, rivelando i candidi canini leggermente più appuntiti del normale. Le lunghe ciglia d'argento s'abbassarono per un attimo, l'istante in cui avrebbero appurato che la chiamata di quel vecchio equivaleva a qualcosa di terribile.

Allora decise di muoversi: i piedi calpestarono silenziosamente il suolo roccioso, le spalle larghe e possenti si mossero avanti ed indietro attraverso il movimento sinuoso dei muscoli, le ciocche argentee scivolarono verso le tempie ed alcune sfuggirono dalla treccia, stuzzicando i tratti affilati della mascella. Si fermò dinnanzi al vecchio, stringendo i pugni tanto da sentire le sue unghie affondare nel palmo della mano.

Inaspettatamente, il vecchio allungò un braccio verso il ragazzo, mettendosi in punta di piedi per arrivare a toccare con le dita nodose l'orecchio a punta di lui, costellato da orecchini di metallo, tirandolo in sua direzione, per potergli sibilare poche frasi a bassa voce.

«I morti hanno parlato.» esordì, con un tono così secco da far pensare che avesse bisogno di sorseggiare qualcosa di fresco. Dopo, si voltò semplicemente dall'altra parte, uscendo dalla sala comune con un cenno del capo, intimando al ragazzo di seguirlo.

Il ragazzo fissò per qualche istante l'enorme gobba sulla schiena dell'anziano incappucciato, scrollando un sopracciglio: e da quando l'anziano aveva la gobba? Era finta? Mentre lo scalpiccio dei loro piedi risuonava per il sentiero buio, il più giovane affiancò il saggio.

«I morti hanno parlato... Cosa vuoi dire? Hai sue notizie?» esclamò, con un tono colmo di così tanta speranza e urgenza che non fu soltanto il respiro ad accelerare, ma anche il battito del suo cuore. Cercò in qualche modo di scorgere nel buio un indizio che gli facesse capire dove stavano andando. Ma il vecchio non rispose, e lui si morse la lingua fin quasi a farsela sanguinare, in quell'attesa.

Il ragazzo aveva perso. Avrebbe dovuto proteggerlo, era compito suo, esclusivamente suo. Del resto, nessuno avrebbe mai capito cosa potesse significare avere una connessione mentale con qualcuno: sentire i sentimenti di un'altra persona, vedere attraverso i suoi occhi, percepire le sue paure. Nessuno avrebbe mai capito il collegamento che aveva con Lui. E aveva rovinato tutto. Non se lo sarebbe mai perdonato.

Ogni volta che ci pensava, aveva voglia di sfondare, rompere, far del male a qualcosa o qualcuno, distruggendolo. Avrebbe dovuto soltanto vegliare su di lui e aveva fallito. Ora, nella sua mente, non c'era che silenzio. Tutto quello che c'era stato nel corso degli anni, tutto quello che aveva condiviso, sembrava essersi estinto come se Lui non fosse mai esistito.

Il filo dei suoi pensieri, che non avevano fatto altro che consumarlo come acido corrosivo per un anno intero, s'interruppe quando arrivarono dinnanzi ad un'imponente arcata, che recava lungo la pietra una vistosa incisione di cui riusciva a malapena a leggere le parole, tanto era rovinata dal tempo. Oltre l'arco, il pavimento roccioso si spalancava in un buco nero da cui proveniva un vento gelido e un lento boato: sembrava il brontolio dello stomaco di un mostro. Gli fece accapponare la pelle.

«Dove siamo?» chiese, sentendo una sottile paura farsi strada lungo la spina dorsale. Non aveva mai visto quel posto, nonostante avesse vissuto in quei cunicoli e in quella città sotterranea praticamente per tutta la vita. Scommetteva che anche gli altri abitanti non avevano idea dell'esistenza di quel luogo.

«Ricordi che siamo tutti intrappolati qua sotto?» Il vecchio restituì la domanda, accarezzandosi piano la barba, mentre il giovane annuiva con aria perplessa. «Be', non è esattamente la verità.» concluse, secco, alzando i vecchi occhi violacei per incontrare quelli del ragazzo, dello stesso colore ma di una tonalità forse più intensa.

«Non è possibile.»

No, non era possibile: tutti sapevano che non c'era via d'uscita da quelle gallerie maledette, da quelle caverne buie. Erano la salvezza e la maledizione di tutto il suo popolo. Perché quasi anni prima una magia protettiva aveva fatto sprofondare la Città, cancellandone l'esistenza dalla faccia del Continente Magico, sigillando tutti quanti in quell'abisso di buio che li proteggeva, sì, ma li intrappolava allo stesso tempo. Avrebbe dato di tutto per vedere il cielo, una volta soltanto. E il sole, che aveva letto solo nei libri.

Tanti avevano provato a fuggire con la magia, ma i cristalli che costellavano le caverne, che fungevano da barriera magica per tenere nascosta la loro presenza, li trattenevano all'interno, isolando il loro potere all'interno. Altri, semplicemente non avevano provato nulla. Nessuno voleva vivere in un mondo in cui lo spietato Re del Continente Magico aveva vinto.

«Ho dovuto tenerlo nascosto... Ma sì, è possibile.» un singolo sbuffo dalle labbra «Perché quando il regno è caduto, l'unico collegamento che è rimasto con il mondo di fuori, è quella fossa.» spiegò il vecchio, uno dei pochi abitanti che aveva vissuto abbastanza a lungo da ricordarsi di com'era, quando regnava la pace. «E tu la userai per andare a salvarlo. Oggi stesso.»

Il giovane dai capelli d'argento non sapeva se infuriarsi, gridare o imprecare. Nel dubbio, rimase in silenzio, ad occhi sgranati. Aveva da sempre avuto una possibilità per andarsene di lì e il vecchio gliel'aveva tenuta nascosta. 

Sapeva che l'aveva fatto per tenerlo al sicuro: i propri occhi e quelli della sua gente - viola acceso - parlavano chiaro riguardo alla propria provenienza. Il Re lo avrebbe catturato e ucciso, nel migliore dei casi. Nel peggiore, torturato per chissà quanto. Ma il ragazzo era arrabbiato lo stesso col vecchio, perché poteva decidere da solo se andarsene o restare.

«Ma sei fuori di testa, vecchiaccio?» Le sue parole riecheggiarono di caverna in caverna, con una eco sottile che scomparve solo dopo un po'. «Come hai potuto tenere nascosta una cosa simile a tutti quanti?! Stiamo parlando di una via d'uscita! Cazzo...»

«Calmati e ascolta. La principessa Elynor mi ha parlato.» Dal modo in cui le sue folte sopracciglia bianche si stavano inarcando, si doveva trattare di qualcosa di grosso.

«La princ-» un momento d'esitazione, poi il ragazzo comprese. E ammutolì. «Elynor... Edna?!» esclamò poco dopo, strabuzzando gli occhi. Il vecchio annuì, con un solo cenno del capo. Con "i morti hanno parlato" l'anziano intendeva quella donna. Ed entrambi sapevano che lei era morta, perché il maledetto Re di Darlan l'aveva uccisa.

Quel giovane dai capelli d'argento aveva vissuto la morte di quella donna centimetro per centimetro, quasi fosse morto lui stesso, quasi avessero accoltellato il proprio ventre, quasi avesse visto la macchia del proprio sangue allargarsi sul tessuto del vestito. In quell'istante, il suo collegamento con Edna era cessato. Ed era passato a Lui. Colui che non era riuscito a salvare.

«Mi è venuta in sogno e mi ha mostrato il futuro.» Il vecchio, che pur in tensione aveva cercato di mantenere la calma fino ad allora, serrò la presa attorno al bastone, tanto forte che le nodose nocche sbiancarono. «Accadrà qualcosa di terribile. Verrà liberato soltanto per essere portato dritto nel Castello di Cristallo, dove il Re avrà intenzione di usarlo per i propri scopi.» Scosse la testa, come se non volesse continuare.

«Che cosa?!» Deglutì.

«Gli terrà testa.» Su questo nessuno dei due aveva dubbi: Lui era così testardo che riusciva sempre nelle sue imprese. O in quasi tutte, perché nell'ultima aveva perso. Aveva perso tutto. «Ma poi verrà ucciso proprio dal Re.» rivelò l'anziano Saggio.

Un verso s'innalzò fra le pareti rocciose della caverna e, in ritardo, il ragazzo s'accorse che era stato proprio lui ad emetterlo. Un singulto di dolore e sorpresa. «Devi cambiare il futuro.» Gli posò le mani sulle braccia, stringendole forte. «Il Capitano della Guardia Reale di Skys Hollow andrà a prenderlo. Devi arrivare prima di lui. Devi salvarlo.»

Un lungo istante di silenzio si protrasse dinnanzi all'arco di pietra, prima che il ragazzo scattasse.

«Certo che voglio andare a salvarlo, ma verrei ammazzato in un secondo ad Ender!» Era già abbastanza frustrante così, non gli serviva che anche il vecchio gli ricordasse la sua totale impotenza. Fu per quello che il misterioso anziano, con un movimento rapido delle braccia sotto ai lembi del mantello, si tolse una vistosa sacca dalla schiena, sbattendola ai suoi piedi. Ecco perché aveva la gobba: non era altro che quello zaino, che sotto al tessuto ne dava l'illusione.

Con un cenno del mento, gli intimò di guardare all'interno: un mantello, qualche provvista di cibo ed acqua, una fionda ed uno dei cristalli azzurri della grotta, che pesava come un macigno. Rimase a lungo in silenzio, sollevandolo in una mano, quasi ipnotizzato dal pulsare di quella luce violacea, che sembrava andare a tempo con il suo cuore.

No, non sembrava. Andava davvero a tempo con il suo cuore.

«Non capisco...» biascicò, mentre quel bagliore gli illuminava il viso avvolto dalle tenebre.

«Lo senti il potere?» disse il vecchio misterioso, abbozzando un sorriso compiaciuto sotto ai baffi bianchi. Ed era strano, sì, ma quel ragazzo lo sentiva: sembrava quasi che la sua mano fosse una calamita e, quel cristallo, un magnete. Ogni fibra del suo corpo se ne sentiva attratto.

Certo, ognuno degli abitanti del suo popolo aveva un potere: c'era chi sapeva controllare l'acqua o chi spostava gli oggetti con la forza del pensiero; chi poteva teletrasportarsi e chi poteva mutare in animale. Ma quel cristallo era diverso. Era quasi come se fosse esso stesso un potere.

«Io... Lo sento.» sussurrò, fissando quel cristallo come se fosse un prezioso cimelio. In un certo senso lo era. «Non capisco.»

«Capirai come usarlo quando sarà il momento.» Mentre il vecchio parlava, stava già risistemando lo zaino che aveva preparato, mettendolo in spalla al ragazzo, quasi fosse un nonno premuroso. «Però usalo soltanto per entrare e uscire da Ender. Ricorda: questa non è una battaglia, ma una fuga.»

Era vero: non poteva combattere contro tutte le guardie di quel maledetto campo di prigionia, non era neanche un combattente, lui. Doveva solo compiere quel salvataggio e fuggire da quel luogo il più lontano possibile.

«Se ci riuscirò... Cosa dovrò fare? Come ritornerò qui? Questo posto è sigillato.» La sua voce suonava stranamente timorosa: abbandonare tutto per tornare al mondo di sopra, che non aveva mai visto se non da disegni e ascoltato da vecchi racconti, non sembrava molto piacevole, soprattutto se si pensava al fatto che stava per andare in una delle prigioni più spietate del continente. O forse di tutto il globo.

Eppure, avrebbe visto il cielo. E avrebbe potuto salvarlo, riparare ai suoi errori, donargli la libertà che gli spettava.

«Stai tranquillo, Lui saprà come tornare.» rispose e, per qualche ragione, si indicò il collo. Un altro dei misteri strambi di quel vecchio, che non avrebbe specificato. A volte il ragazzo lo detestava davvero per questo. Fu accompagnato verso il fosso, oltre il grande arco di pietra. Insieme, fissarono la voragine nera con un miscuglio di panico e aspettativa che fece annodare loro le viscere. «Vai a salvare Helias.»

Dopo quelle parole e un lungo minuto di silenzio in cui tutte le certezze del giovane vacillarono, chiuse gli occhi, prendendo un profondo respiro. Poteva davvero uscire per la prima volta dalla tranquillità della sua città sotterranea per andare a sfidare una prigione di massima sicurezza? La risposta era una sola. E l'avrebbe trovata saltando nel buio.

L'anziano signore rimase a lungo a guardarlo, mentre precipitava. Le sue ultime parole, furono: «Buona fortuna, Ezra.»



Sapevo che qualcuno stava gridando. Sentivo le urla nelle orecchie, percepivo quel groppo di disperazione intrappolato all'altezza dello stomaco e quella voglia dirompente di strapparmi i capelli, uno ad uno, graffiandomi la faccia con le unghie, facendomi saltare le corde vocali e scoppiare i capillari degli occhi a furia di stritolare le palpebre.

Sapevo che ero io a gridare e lo sapevo perché quel corpo era davanti a me, perché sul patibolo c'era troppo sangue, perché il boia aveva ancora l'ascia in mano, perché i soldati ancora ci accerchiavano, perché la gente tratteneva il respiro, perché lui invece aveva smesso del tutto di respirare.

Sapevo che ero io a gridare perché il mondo si era fermato per un istante e non c'erano più suoni se non l'urlo straziante che aveva fatto la mia voce quando il suo corpo aveva toccato terra e non si era più rialzato. Sapevo che erano le mie, le lacrime, perché attraverso quel velo sfocato non riuscivo più a guardare i suoi bellissimo occhi blu, spalancati e vuoti, immobili. Sapevo che il mondo era crudele, perché dopo quella perdita sarebbe andato avanti ma io sarei rimasto lì, su quel patibolo, fermo, come se il tempo avesse smesso di scorrere nello stesso istante in cui lui aveva smesso di vivere.

Non avrei accettato un mondo in cui lui non c'era. Perciò mi limitai a restare lì, con la testa abbandonata sul suo petto, a sperare d'ascoltare un battito che non ci sarebbe stato, ad anelare quelle braccia che non mi avrebbero più avvolto, ad aspettarmi di sentire un calore che sarebbe rimasto ghiaccio. Perché non lo avrei lasciato.

Ma quando il legno del patibolo s'aprì con uno squarcio, spezzandosi esattamente fra me e lui, non ebbi il tempo d'urlare che sprofondai, ritrovandomi ad affondare in una fossa stretta e claustrofobica che straboccava di persone. Per un momento pensai che stessero dormendo, poi però mi accorsi che puzzavano e che c'era troppo sangue. E che accanto a me un uomo aveva gli occhi spalancati.

Quella era una fossa comune. Il mio grido divenne ancor più straziante quando m'accorsi di essere circondato da cadaveri: ma io ero vivo, io mi muovevo; nessuno però sembrava notarlo. Ecco perché urlai, e continuai a farlo anche quando un carro svuotò altri corpi sopra di me, ed io mi ritrovai a soffocare sotto ad una massa di arti in putrefazione, cercando di far sentire la mia voce, perché io esistevo, esistevo ancora.

Agitavo le braccia, ma più cercavo di nuotare fra la morte, più essa mi faceva sprofondare nella fossa. E poi mi rimase soltanto un ultimo spiraglio di luce, che illuminò il cadavere schiacciato accanto a me: riuscii a vedere ciocche rosse e un paio di occhi blu come la notte, spalancati e senza vita.


Mi svegliai scattando a sedere, con un rumoroso sferragliare di catene e un singhiozzo intrappolato nella gola, che misi a tacere premendomi il pugno contro le labbra, forte. Nonostante ciò, le lacrime mi scivolavano copiose lungo le guance, offuscandomi lo sguardo mentre fissavo la luce, fuori dalle minuscole finestrelle, che cambiava e si schiariva, lasciandomi capire che mi ero svegliato appena in tempo per l'inizio di quella nuova, agghiacciante, giornata di tortura.

Molti, in quella minuscola capanna, erano già svegli. Altri non dormivano affatto, piuttosto si stringevano fra di loro tremando per la paura. Non era così strano che io piangessi, per loro: del resto, ad Ender tutti avevano pianto almeno una volta; chi perché non voleva morire, chi perché aveva troppa fame o troppa sete, chi perché era stato frustato talmente tanto che il dolore li lacerava. Ma per me era strano, che piangessi, visto che non ne avevo alcun motivo.

Perché Lui era lì. Le guardie cercavano di minacciarmi, di schiacciarmi, di rendermi la vita difficile, ma io volevo stare soltanto con Lui: quando era assieme a me mi sentivo coraggioso e libero anche se eravamo in catene. E non importava che quel giorno, sul patibolo, avessimo perso, perché l'importante era rimanere e affrontare tutto insieme.

«Yul...» sussurrai, piano, inclinando lievemente la testa di lato mentre mi spazzavo via le lacrime dalle guance con il dorso della mano, appesantita dai ceppi intorno ai polsi. Certe volte la paura di perderlo era talmente forte che mi portava a fare quegli incubi orrendi. Ma lì, nella realtà, anche se eravamo entrambi prigionieri del campo di lavoro più spietato del continente, nulla era capace di angosciarmi.

Perché adesso Yul mi stava dolcemente accarezzando la mano, piano, sfiorandola con la punta delle dita, come avendone una deliziosa premura. Ed io rimanevo semplicemente a guardarlo: adoravo farlo. Adoravo perdermi in quegli occhi blu notte, così scuri da sembrare neri, certe volte; adoravo sfiorare le ciocche rosso sangue che gli incorniciavano il volto e sentirne la morbidezza.

A Lui non piaceva per niente stare qui, soprattutto perché temeva che le guardie potessero farmi del male. In effetti, adesso ci stavano strattonando per le catene, trascinandoci fuori dalla capanna a suon di frusta. Qualche dolorosa sferzata cozzava contro la schiena ed io strinsi i denti, senza emettere neanche un singolo lamento: non avrei dato a quei maledetti bastardi la soddisfazione di sentirmi gridare per loro.

Anche Lui taceva: non parlava, ma mi guardava sempre, mi sorrideva sempre, mi accarezzava sempre. Riusciva a rassicurarmi perfino quando noi schiavi venivamo inghiottiti dal buio della miniera di sale, quando venivamo costretti a sbattere picconate contro le pareti, quando venivamo calciati, frustati, derisi, picchiati. E quando molti venivano uccisi, mi metteva una mano sugli occhi, per non farmi vedere.

Oggi, avevamo ricevuto una postazione tutta nostra: un angolo di buio in cui la luce del sole e quella delle fiamme non riusciva ad arrivare, per cui sembrava che colpissimo il buio alla cieca. Ma a me andava bene così, non era così male come sembrava, pur essendo Ender.

Perciò mi limitai a dare qualche picconata alle rocce senza vedere bene dove andavo a parare, perché stavo guardando Yul che si vantava di essere una forza, alzando il piccone soltanto fra due dita. Ridacchiai, una risatina che rimbalzò nella disperata e desolante miniera come fosse un boomerang.

Una guardia mi piantò una scudisciata in mezzo alla schiena ed io caddi con le ginocchia a terra e gli occhi spalancati a causa della scossa di lancinante dolore che, per un solo istante, mi aveva attraversato da capo a piedi. Ma poi sollevai gli occhi verso quel soldato e, dietro di lui, c'era Yul che scuoteva la testa, pavoneggiandosi e facendo gestacci coloriti alle sue spalle, mentre mostrava quel suo bellissimo ghigno strafottente che lo faceva sembrare sempre un po' malizioso.

Non riuscii ad impedirmi di scoppiare a ridere, ancora una volta. Così mi beccai una seconda frustata. Adesso, però, il soldato bofonchiò: «Maledetto svitato.»

Ma io non riuscivo a capire cosa intendesse, perché con me c'era Yul e andava tutto bene. 






❖  


* NDA *

Ciao a tutti cari lettori, qui è Lotty che vi parla. Che dire? Sono abbastanza sorpresa di averlo scritto davvero. Era qualcosa che avevo in mente da tanto, tantissimo tempo, ma molte volte dubitavo di scriverlo davvero, altre mi dicevo "nah, tanto chi lo leggerà mai?". In sintesi non ero certissima di dare vita a questa storia, a questo sequel, ma pensare di abbandonare i miei personaggi a quel tragico destino... Non so se ce l'avrei fatta! E così, alla fine, eccomi qui. Innanzi tutto, vorrei fare un ringraziamento a voltatisakuraxx una cara amica che mi sta facendo da beta e alla lettrice Chic-death che ha subito tutti i miei scleri notturni, mi ha dato consigli per la copertina e ha creato una bellissima fan art su Edna Bloomwood, che - rettifico - metterò qui sotto. La ringrazio tanto! *_* Che altro? Spero che i lettori "storici" delle Cronache dell'Assassino siano felici per la ripresa di questa storia. Ditemi cosa ne pensate, quali sono i vostri sospetti per il futuro o per il nuovissimo aiutante del protagonista. Spero che il prologo vi sia piaciuto! Detto ciò:

Ci vediamo al prossimo capitolo!


Edna fan art

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