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5. L'Assassino e l'alleata


«Siediti ai bordi dell'aurora, per te si leverà il sole;
siediti ai bordi della notte, per te scintilleranno le stelle.»

- Swami Vivekananda



La prima cosa che vidi fu la luce di troppe fiammelle per poterle contare: i candelabri di cristallo erano sparsi negli angoli della sala da ballo come dei grossi bracci di vetro che luccicavano, facendo rilucere le fibbie delle scarpe dei nobili, i bottoni delle giacche, i gioielli delle dame, o tutti i brillantini nella cipria spolverata sui loro volti. Quella sera, gli arzigogolati motivi scintillanti del mio panciotto sembravano accodarsi al resto degli sfarzosi dettagli, ed ogni volta che piroettavo, pareva che il mondo intorno a me diventasse una girandola di baluginii e piccole, tante, troppe luci.

La ragazza che ballava con me rise forte, facendo ciondolare la testa all'indietro abbastanza da far sfavillare la parure di diamanti sparsa attorno al suo collo, ma io aggrottai la fronte senza capire perché ridesse, senza comprendere perché continuassimo a girare in tondo in una specie di quadriglia senza fine, senza costrutto, senza ragione. Ballavamo ancora, e ancora, fino a farci dolere i piedi, fino a che non mi spinse di lato per cambiare compagno di danza e continuare a seguire lo schema in un loop infinito.

Quando mi scontrai fra le braccia della nuova lady a cui il destino mi aveva assegnato, mi accorsi presto che non era una lei, bensì un lui. Le braccia forti mi rimisero dritto, ma non come per correggere la mia postura sbilenca, piuttosto come se volessero avvolgermi in un abbraccio, tanto che la mia sorpresa non fu così grande quando incontrai il volto di Yul. Lui mi sorrise, raggiante, lasciando formare ai lati delle guance un paio di prevedibilissime ma irresistibili fossette; il mondo aveva, all'improvviso, smesso di essere confuso. Mi sollevò appena da terra afferrandomi per la vita, quel tanto per farmi girare, poi sollevò l'avambraccio e i palmi delle nostre mani combaciarono perfettamente.

Non sapevo precisamente quale passo di danza stessimo portando avanti, sapevo soltanto che lo stavo guardando negli occhi, e lui faceva lo stesso con me, mentre le nostre mani si toccavano e i nostri piedi si muovevano per farci girare in tondo, ancora una volta, seguendo il moto che seguivano gli altri, ballando sulla musica che ballavano gli altri. Ma non durò tanto a lungo quanto speravo: ad un certo punto si staccò, mi prese la mano e, con una piroetta, mi spedì semplicemente al prossimo nobile, senza che io potessi protestare. L'unica cosa che feci fu guardarlo impotente mentre iniziava a ballare con qualcuno che non ero io. E nonostante lo chiamassi, lui non si girava mai a guardare.

«Helias.»

Forse sarei rimasto a fissarlo per tutta la durata del ballo, se solo un paio di mani callose e fredde non m'avessero strattonato per le spalle, forzandomi a dare la schiena al rosso per pararmi di fronte a lui. Un paio di occhi gialli come quelli di un alligatore mi scrutarono dritto, trafiggendomi con lo sguardo, con una tale intensità che ebbi il terrore che m'avessero scavato un buco proprio in mezzo al petto. Le ciocche corvine gli scivolavano accanto alle tempie, una gli lambiva l'angolo netto e sensuale della mascella. La piega delle labbra si sollevò appena verso l'alto in uno di quei sorrisi imperscrutabili che mi facevano ghiacciare il sangue nelle vene, e al tempo stesso arricciare le dita dei piedi per l'avvertimento di quel calore dentro allo stomaco.

Un braccio mi avvolse la vita, il palmo della sua mano si piazzò fra le mie scapole, le dita lunghe e affusolate disegnarono un percorso invisibile lungo tutta la mia spina dorsale, premendo appena sulle vertebre quasi suonasse un piano, un'arpa di cui soltanto lui conosceva le corde. Fui quasi sul punto di sciogliermi, almeno finché non s'avvicinò al mio orecchio: il suo respiro mi solleticò il lobo, cosa che il mio corpo accolse con un brivido elettrico. Però il brivido divenne gelo puro, quando ascoltai le sue parole. «Non puoi scappare da noi.» Non sapevo perché parlasse al plurale, visto che attorno ad Alaister non c'era nessuno. Soltanto io. Eppure, sentii l'irrefrenabile bisogno di mettere distanza fra di noi. Era una sensazione primitiva ed impellente.

L'urgenza diventò ancor più grande quando, dietro di lui, alle estremità della pista da ballo e parecchio più lontano, scorsi la figura di Lysandro. «Sei nelle nostre mani.» mormorò il Re degli Assassini, ma io sapevo che il cortigiano non faceva parte di quel "nostre". Anzi, per qualche strana ragione lui rimaneva là, fermo, come se una qualche barriera lo tenesse lontano da tutte le persone che ballavano. Vidi le sue gambe muoversi, eppure era come se corresse sul posto. Guardai le sue labbra aprirsi, chiudersi, formulare delle parole, ma sembrava che sputasse soltanto vento: non sentivo niente.

La musica aumentò di volume e, mentre i miei occhi notarono il corpo di Lysandro farsi più basso, più piccolo e stranamente più familiare, il mio braccio venne ancora una volta strattonato indietro: girai su me stesso, voltandomi di spalle, per capitombolare ancora una volta nel mio posto preferito. Fra le braccia di Yul Pevensie.

Stavolta però mi tenne sospeso per iniziare a curvarsi verso il basso in un imprevisto casquet, così profondo che per un momento credetti di cadere a terra. Ma la mia schiena cozzò contro un materasso morbido, quello di casa nostra. L'assassino era a torso nudo, sopra di me, con il mio riflesso negli occhi blu che si riempivano di lacrime. Non disse una parola, lui. Si limitò a piangere.

Una goccia mi cadde fra le labbra, ma non era salata come m'aspettavo. Era acida. Sapeva di...


Spalancai gli occhi.
Lo feci così all'improvviso che, quando vidi la metà di un limone sospeso sopra le mie labbra, quasi sussultai saltando giù dalla brandina. Non tanto per lo spavento, quanto per l'assurdità della situazione. Ecco di che cosa sapevano le lacrime di Yul: di limone.

Riuscii a rimanere immobile ad analizzare la situazione, nonostante un certo sforzo di volontà. Sentivo il peso leggero delle lenzuola sulle gambe e poi qualcosa di stretto che mi avviluppava l'intero torace. Non erano corde, non ero affatto legato. Anzi, ero libero di agitarmi e di mettermi a sedere in qualsiasi momento. Eppure continuai a stare fermo, con le pupille che roteavano per fissare la stanza intorno a me: dalla stuoia su cui ero steso, potei soltanto guardare un calderone che fumava appena fra le fiamme di un camino, qualche sedia, bacinelle piene di garze insanguinate, erbe, e vari strumenti di metallo che non conoscevo.

«Ti sei svegliato.» esordì in tal modo una voce di donna, matura abbastanza da farmi pensare che avesse una certa età, ma nemmeno troppo avanzata. L'estremità di una testa spuntò nel mio campo visivo, allineandosi alla mano che continuava a spremermi succo di limone fra le labbra, goccia a goccia, con estrema pazienza.

Immediatamente, rotolai giù dalla stuoia e afferrai il primo oggetto metallico nelle vicinanze, rivolgendoglielo contro alla gola, premuto sulla giugulare. Numerose fitte di dolore mi colsero all'improvviso, così come l'ennesimo capogiro, ma ricacciai la sofferenza come avevo fatto mille altre volte, senza cedere.

«Chi sei?» chiesi, la voce ridotta ad una specie di sussurro rauco, ma il corpo sempre all'erta. In quell'attimo di silenzio che si andò a creare, mi limitai a studiarla con le palpebre strizzate in un'occhiata truce: era una donna massiccia, non come di chi è in sovrappeso, più come qualcuno che a furia di cucinare, lavare, cacciare e tessere, aveva finito per farsi i muscoli. I capelli castani erano raccolti in una crocchia morbida sulla nuca, nascosti da un fazzoletto beige stretto intorno al viso, un po' come le massaie che si vedevano gironzolare nelle periferie di Skys Hollow. Anche gli abiti trasudavano umiltà e semplicità, sebbene il viso celasse una certa bellezza ormai sfiorita dal tempo.

«Mi chiamo Tynam. E sei in casa mia, perciò porta un po' di rispetto.» rispose, liquidandomi, con un'espressione che non mostrava alcun timore, ma solo stanchezza nei grandi occhi verdi. Quando mi accorsi di starle premendo al collo un cucchiaio, capii perché. Abbassai il braccio. «Sei al sicuro. Ora torna seduto, o ti si riapriranno le ferite.»

Trattenendo a stento un sospiro dovuto alla debolezza, feci come mi era stato detto, ma senza smettere di guardarmi intorno come un animale al di fuori del suo habitat. Le assi di legno sul soffitto, l'odore di porridge, la frutta fresca tagliata sul tavolo: sembrava una piccola villetta rustica, semplice, così tanto che mi metteva a mio agio. La donna, adesso conosciuta come Tynam, avvicinò una sedia alla mia stuoia e si accomodò, iniziando pian piano a controllarmi le garze. Ora che la vedevo all'opera, mi resi conto del mio stato: avevo delle fasciature avvolte tutt'intorno al torace, lungo i polpacci e sul braccio sinistro.

«Quanto tempo è passato? ... Dove siamo?» chiesi, frastornato, mentre mi tastava con meticolosa delicatezza le ferite per controllarne lo stato. Per qualche istante rimase in silenzio, premendo le labbra fra di loro.

«In una casa fra le montagne, appena fuori dal bosco. Nascosta dalla vegetazione e dalla nebbia.» Distolse lo sguardo dalle garze per piantare le pupille dentro le mie. Mi lanciò una strana occhiata, come se tentasse di leggere qualcosa dentro di me. «A qualche miglia di distanza dal campo di lavoro di Ender.» sillabò, fissandomi, mentre io drizzavo semplicemente le spalle, cercando di non battere ciglio.«Perché è da lì che vieni, giusto?»

Le mie labbra tremolarono per un istante, e non era per la paura. Più per la tentazione di raccontare tutto quello che avevo vissuto a qualcuno, nel modo più puro e semplice, più crudo e sofferente, come non avevo mai fatto. Anche se a volte, nella stretta capanna dove tenevano rinchiusi tutti i prigionieri, ci si sentiva invogliati a consolarsi con i reciproci racconti, era troppo duro parlarne sapendo di non avere una speranza, una via d'uscita. Capivamo che era molto meglio tacere, invece che ricordarci il motivo per cui ci trovavamo ad un passo dalla morte. Ma adesso era diverso, non ero più ad Ender. Tuttavia, decisi di restare in silenzio, la bocca sigillata.

«Mio marito e mio figlio sono stati catturati cinque mesi fa.» La mascella cedette, spingendomi a spalancare la bocca per la sorpresa. «Ma questa casa c'era da prima.» mentre spiegava, avvicinò un paio di forbici alla mia pelle, facendomi quasi temere che mi ferisse dopo avermi fatto una tale rivelazione. Invece, iniziò a tagliarmi le garze vecchie, che avevano assunto un colorito giallastro. «Eravamo qui per controllare i movimenti delle guardie, per conto dei ribelli.»

Le mie sopracciglia si sollevarono all'istante, e se prima ero sorpreso adesso fui totalmente spiazzato. Una ribelle. Quella donna era una ribelle.

«Perché me lo stai dicendo?» aggrottai la fronte, perplesso in un senso puramente negativo. «Come fai a fidarti?» sbottai, corrucciato. Avrei potuto essere chiunque, una spia del Re, una guardia mandata a raggirare una povera donna. Eppure, vidi la sua severa serietà sgonfiarsi in un debole sorriso, un po' amaro. Afflitto, avrei detto.

«Ho passato quattro giorni a medicarti le frustate che hai sulla schiena.» disse, gettando le fasciature vecchie in un secchio per poi intimarmi con un gesto delle mani a tenere le braccia alte, in modo da poter avvolgere nuovamente le garze pulite attorno alla pelle. Per un istante, travolto dalla sorpresa per la precedente confessione, non feci caso alla frase. Solo dopo ne presi realmente atto.

«Quattro giorni?!» esclamai, sgranando gli occhi. Non potevo essere stato addormentato per così tanto tempo. Sembrava che fosse passata appena una notte: il cielo fuori dall'unica finestrella visibile era biancastro a causa della nebbia, ma si notava che era mattina. Lo stesso cielo, sebbene meno azzurro, che avevo visto quando ero uscito dalla miniera, con il Capitano della Guardia Reale che mi apriva le manette e le guardie che mi tenevano puntate contro le spade. Sembrava che fosse passata un'eternità, da allora.

«Non c'è da stupirsi tanto.» rispose lei. «Dopo quella caduta dal precipizio, temevo che non vi sareste più risvegliati.» Sfarfallai le ciglia, confuso, lasciandola togliere le garze intorno alla criniera di capelli dorati anneriti ed unti dalla sporcizia.

«Precipizio...?» Aggrottai la fronte, lasciando cadere le palpebre per godermi il buio davanti agli occhi, ricordando lentamente le svolte della mia fuga. Il ragazzo apparso dal nulla, la corsa, quello che pensavo fosse Yul, i segugi. «E' vero, noi...» Ricordai tutto quello che ci era capitato dopo. Ecco perché spalancai immediatamente gli occhi, raggelandomi sul posto. «Il mio amico?! Dov'è il mio amico?!» Un moto di angoscia mi attanagliò all'improvviso lo stomaco, pietrificandomi sopra alla brandina con gli occhi strabuzzati. Ricordai la freccia che lo aveva in mezzo alle spalle, e i nostri corpi che volavano nel vuoto. Gli alberi che si avvicinavano, i gemiti di dolore e poi il buio più totale.

Non poteva essere morto. Non poteva, perché lui era tutto quello che mi era rimasto. L'unica possibilità, per me, di andare avanti: non avevo uno scopo, un posto dove andare o rifugiarmi. Una volta mi sarebbe bastato trovare un angolo di terra in mezzo al bosco, un angolo proprio come questo, dove condurre la mia vita semplicemente con la persona che amavo, in totale libertà. Ma adesso non ero libero, anche se avevo abbandonato Ender: il Re mi era alle calcagna, e non si sarebbe dato pace finché non mi avrebbe riacciuffato.

Ecco perché quel ragazzo mi era così necessario. Sembrava sapere esattamente che cosa fare. Pareva che m'avesse salvato per uno scopo preciso. Ma se lui era morto, allora non l'avrei mai scoperto, e sarei rimasto completamente solo.

«Ah, il ragazzo che era con te? E' laggiù.» Tynam avanzò un cenno del capo alle mie spalle, cosa che mi fece di nuovo balzare in piedi, per raggiungere la brandina che era a qualche metro dietro alla mia.

Riverso sulla stuoia, ricoperto dalle lenzuola fino alla vita, c'era il mio misterioso aiutante, ridotto in uno stato spaventoso. L'unico pezzo di pelle visibile erano le labbra. Il resto era tutto fasciato: dalla vita al petto, dalle spalle alle braccia; perfino la gola e gli occhi, il che mi fece impressione, perché alla Fortezza dell'Assassino quando si copriva lo sguardo a quel modo, significava che quella non era più una persona, bensì un cadavere freddo ed inutile.

I lunghi capelli d'argento scuro che aveva esibito in una treccia il giorno in cui era venuto a salvarmi, adesso erano mozzati in maniera scomposta ed imprecisa, ad un'altezza che oscillava dalla spalla fino all'orecchio, per colpa dei colpi di freccia che aveva incassato. Inoltre, tutte le dita erano saldamente legate e drizzate da un numero impressionante di ramoscelli, come se si fossero spezzate e avesse bisogno di qualcosa per fare dritte, e la stessa cosa valeva per il braccio sinistro. L'unica parte del suo corpo che riuscivo ad intravedere, quelle labbra sottili, adesso erano pallide ed esangui.

Mi sedetti vicino a lui, sfiorandogli l'interno del polso con le dita. Attraverso il tessuto della medicazione, sentii che non era molto caldo. Il suo petto si alzava ed abbassava troppo lentamente.

«Mi dispiace, ma...» La ribelle mi raggiunse, posandomi la mano sulla spalla. «... Non credo che si risveglierà.» Trattenni a stendo un lamento di dolore, e questa volta non era affatto fisico. Lasciò andare un leggero sospiro, sottraendo il suo tocco per spostarsi verso il fondo della stanza ed iniziare a girare il porridge che bolliva nel pentolone. «Ha avuto fortuna con la freccia, non ha colpito nulla di vitale importanza, ma nella caduta si è spostata parecchio e gli ha lacerato la pelle.» Il rumore del legno contro il metallo era l'unico suono nel silenzio, fra gli intermezzi che si creavano durante le sue frasi. «Ha perso molto sangue e deve averti protetto atterrando, perché si è preso tutte le fratture che sarebbero spettate a te.»

Un'altra ragione per cui gli dovevo la vita, e per la quale non poteva morire. Era fuori discussione. Gli strinsi la mano con delicatezza, sperando che nel suo sonno riuscisse a sentire la mia presenza, a capire che qualcuno lo stava aspettando. Non ricordavo il suo nome, ma ero sicuro che, da qualche parte nella mia mente, ci fosse la risposta.

«Vieni a mangiare.» La bruna dispose un paio di piatti sul tavolo, armandosi di mestolo e pentolone, prima di iniziare a servire con estrema tranquillità. Rimasi a guardarla dal basso della brandina, senza muovermi o senza lasciare la mano di quel ragazzo. Non lo conoscevo per niente, ma in qualche modo sentivo una specie... Di legame. Avevo bisogno di rimanere al suo capezzale, ad aspettare che si risvegliasse. E poi, non avevo alcuna voglia di mangiare. «Lo so che ti sembra difficile, ma il tuo corpo ne ha bisogno.» Repressi un grosso sospiro. Lo sapevo benissimo che ero scheletrico, ma ogni boccone mi pareva un nauseabondo promemoria di quello che mi era mancato per un anno intero. «Forza.»

Mi alzai a fatica, mugolando fra le labbra una specie di borbottio. Poi, mi misi a sedere di fronte alla donna, i pugni posati sul tavolo e il piatto bollente di porridge il cui filo di fumo mi si sparpagliava per tutta la faccia. Il mio stomaco brontolò rumorosamente, e poi si richiuse di nuovo nel suo silenzio. Mi morsi l'interno della guancia.

«Avanti, mangia. Non è un alimento solido... Non lo vomiterai.» Le scoccai un'occhiata colma di disappunto, come se non capissi perché ci fosse il bisogno di dirlo in maniera tanto diretta. Non batté ciglio alla cosa, ma continuò a parlare. «Potrete restare qui fino a che non avrete recuperato le forze.» Spiegò, allacciandosi un tovagliolo intorno al collo per non sporcarsi. Dal tono che aveva usato, sembrava si fosse trattenuta dal dire che il discorso valeva soltanto per me, visto che il mio amico... Non si sarebbe risvegliato. Ma io ancora ci speravo.

«Perché ci stai aiutando?» chiesi, raccogliendo il cucchiaio dal cesto di posate in mezzo al tavolo. «Capisco la questione dei ribelli, ma noi... Le guardie ci sono alle calcagna. Hanno dei segugi.» spiegai, mentre disegnavo dei cerchi nella poltiglia beige dentro al piatto. Avrei potuto anche approfittare di lei, avrei potuto restare in silenzio, ma non mi sembrava giusto che qualcuno che non c'entrava nei miei guai finisse nello stesso posto terribile da cui io ero fuggito.

«Guardami.» Fece un cenno a se stessa, a tutto quello che aveva intorno. Solo una casa silenziosa nascosta dalla collina e poi la solitudine. «Non mi rimane poi molto da fare.» Lasciò affondare il cucchiaio dentro al porridge ed iniziò a mangiare, soffiando su quella pappetta più volte prima di metterla in bocca e deglutire. «E poi, non lo faccio solo per te, ma anche per me.» aggiunse, mentre io aggrottavo la fronte, senza chiedere alcun chiarimento. Per un po' il silenzio fu il nostro unico argomento di dialogo.

Sospirai, decidendomi a mangiare solo qualche minuto dopo, e sorprendendomi di come il tutto non fosse così terribile come me lo immaginavo. Una cucchiaiata dopo l'altra, il cibo inziava a sembrarmi migliore di quanto ricordassi, anche se si trattava di pura e semplice sbobba.

«Quel ragazzo ha fatto davvero tanto per te.» Il commento, all'improvviso, spazzò via il mutismo generale. Piegò le labbra in un leggero sorriso, non come se mi compatisse, più come se sperasse con me per un suo risveglio. «Siete amanti?» Per poco il porridge non mi andò di traverso.

«Eh?! No, no no, affatto.» Scossi la testa per avvalorare le mie parole. Come poteva essere il mio amante, quando non avevo nemmeno la più pallida idea di chi fosse? Sì, certo, lui era la voce che mi aveva salvato in più occasioni e sentivo che c'era qualcosa di molto importante ad unirci... Intenso. Ma amanti, ovviamente no. Lei alzò le spalle, stringendosi nella schiena, come se la cosa non cambiasse l'opinione che si doveva esser fatta su noi due. Poi, quando finalmente concludemmo quel pasto, sparecchiò velocemente e mi fece cenno d'alzarmi, spiegandomi che era ora di darmi una bella ripulita. Non sapevo che cosa avesse in mente, almeno fino a che non mi intimò di uscire: disse che le guardie erano già passate dai vari sentieri che portavano alla casa un paio di volte in questi giorni, per cui era improbabile che rispuntassero ancora.

Fuori, l'aria profumava d'erba fresca ma faceva abbastanza freddo da farmi stringere negli stracci che indossavo. Tynam aveva portato con sé una grossa tinozza di legno, una stecca di saponi bianchi come il latte, stracci puliti, spazzole e spugne e poi dei vestiti puliti che, ben piegati in un quadrato perfetto, erano difficili da studiare. Mi spiegò con estrema tranquillità che il ruscello distava solo di una manciata di passi: il tempo di dirlo ed eravamo già davanti ad un corso d'acqua limpido abbastanza da vederne il fondo pieno di ciottoli bruni, terra e muschio. Non era una zona esposta, perché gli alberi tornavano ad innalzarsi seguendo la linea del fiumiciattolo che scendeva fino in fondo alla collina nebbiosa.

«Cerca di sopportare il freddo. Non sarà una cosa molto lunga.»

Io invece, mentre mi sollevavo i lembi dell'abito, sapevo che ci avrebbe messo un bel po' per spazzare via lo sporco e il sale incrostato dalla ragnatela di frustate sulla schiena, così come il sangue sotto alle unghie e fra i denti, o i sassolini dai tagli sulle piante dei piedi. Mettere a lucido un relitto non significava farlo diventare nuovo, solo cercare di ridargli un po' della gloria d'un tempo. Quindi avrei sentito parecchio freddo. Del resto, era ottobre.

«Sì...» Infilai i piedi nel ruscello e lasciai che, dopo aver riempito la tinozza, mi rovesciasse sulla testa una vagonata d'acqua gelata mista a sapone disciolto. Strinsi i denti per non batterli, rattrappendomi su me stesso nel tentativo di cercare un po' di calore. Poi, con una certa premura e una pazienza che, a quanto pareva, doveva essere la qualità distintiva di quella donna, incominciò a strofinarmi la spugna insaponata su ogni lembo di pelle: ad ogni passaggio si riusciva a vedere la striatura di pulito rispetto allo sporco.

«Non mi hai ancora detto come ti chiami.» Immaginai che fosse il suo modo di distrarmi. Esitai per qualche istante, ma poi capii che non avevo più bisogno di nascondere la mia identità. Non faceva differenza, e un po' di sincerità era il minimo per quel che stava facendo.

«He-elias.» balbettai, perché avevo troppo freddo per parlare con fluidità. Accolsi di buon grado le foglie di menta che mi passò fra le dita, iniziando a strofinarle fra i denti, pulendoli e sentendo automaticamente l'alito rinfrescarsi.

«Allora, Helias. Le guardie di Ender non si affaticano per giorni alla ricerca di un semplice criminale...» Sentii le sue dita massaggiarmi il cuoio capelluto, pieno di sapone, per poi spazzolare via lo sporco dalle spalle: si affaccendava senza smettere nemmeno per un secondo. «Quindi, qual è la tua storia?» La mia storia. Così lunga e così travagliata che non sarebbe stata affatto facile da raccontare. E non volevo riviverla ancora, interamente. Perciò rimasi in silenzio, voltandomi dall'altra parte in modo che potesse pulirmi tutta la schiena, ed iniziare ad occuparsi della parte più complicata. Lei non insistette col chiederlo, io contraccambiai senza chiedere di lei. Quando incominciò a lavorare sulle frustate, mugolai a denti stretti, socchiudendo le palpebre. Il sapone bruciava come acido contro il tessuto cicatriziale.

Poi, nel tentativo di distrarmi, iniziai a parlare. «La mia storia non è molto diversa dalle altre.» esordii, guardandomi la punta dei piedi che s'arricciava dal freddo dentro l'acqua. «Avevo una casa.» Una casa mia, una che mi apparteneva davvero. Tutte quelle dicerie sul fatto che la casa fosse costituita dalle persone con cui si viveva e non il luogo? Per me non erano che bugie. Quando vivevo con mia madre, il bordello era pieno di regole e costrizioni, orari da rispettare e donne invidiose in ogni angolo. Poi, la strada era diventata la mia sistemazione, e subito dopo la Fortezza dell'Assassino, un posto in cui era molto meglio dormire con un occhio aperto, perché nessun momento era davvero sicuro. Ma poi riuscii ad acquistare quell'appartamento, e finalmente sapevo che era il posto perfetto: avevo scelto la locazione, i mobili e perfino con chi abitare. Ed era una casa perfetta.

«Non avevo molti amici, in verità. Piuttosto nemici.» Ripensai a Lysandro, che con tutti i battibecchi che avevamo avuto e con tutti gli anni che avevamo passato insieme a litigare, si avvicinava in modo contorto ad una strana specie di amico. Ma restava comunque un nemico. «Ma c'era qualcuno che amavo molto.» Lui, che mi aveva aperto gli occhi su così tante cose, ed io, che non mi sentivo mai abbastanza da riuscire a ripagare tutto quello che lui aveva fatto per me. Tutto l'amore che mi aveva dato e che io, stupidamente, gli avevo restituito sotto forma d'odio. «Avrebbe dovuto bastarmi avere noi due. Forse saremmo riusciti a lasciarci tutto alle spalle anche senza avere un soldo, ma...» Strinsi le labbra, sentendole tremare.

Quanto avevo maledetto quel giorno. Il giorno in cui Yul aveva incontrato l'acquirente che gli aveva offerto il lavoro, una spia di chissà chi mandata per tenderci una trappola e, con un tempismo perfetto, annientarci. Chiunque fosse stato, ce l'aveva fatta. «Ma volevamo un futuro tranquillo, sicuro. Perciò abbiamo osato.» Strizzai gli occhi, portandomi le nocche contro la faccia, premendole sulle palpebre, come per scacciare l'immagine del mio assassino dai capelli rossi che annaspava in una pozza di sangue, lottando per restare cosciente un minuto di più. «E abbiamo perso tutto. Io ho perso tutto.»

Mi tremava la voce, ma raccontarlo faceva bene. Però non aggiunsi più nulla, e la donna si limitò a stringermi una mano sulla spalla, come a farmi capire che aveva intuito. Che sapeva perfettamente di che genere di perdita stavo parlando. Sentii la faccia farsi calda, le lacrime premere agli angoli degli occhi, ma poi l'ennesima secchiata d'acqua si riversò come una cascata ghiacciata sopra tutto il mio corpo, e quella sensazione scomparve. Finalmente aveva finito di togliere tutto lo sporco: tamponò delicatamente le parti ferite e lasciò a me il compito di asciugare il resto del corpo. Infine, indossai gli indumenti che mi aveva dato. Erano larghi – cosa che risolse allacciandomi una cintura in vita – ma faceva un piacevole effetto essere di nuovo vestito, con abiti veri. Non c'entravano nulla con gli abiti lussuosi che amavo un tempo, anzi, si trattava di robetta da contadino, ma al posto degli stracci avrei apprezzato qualsiasi cosa.

Mentre tornavamo in quella specie di casa nascosta, mi raccontò che si trattava degli abiti di suo figlio. Poi, mi invitò a sedermi con la schiena di spalle al fuoco, in modo da asciugare la matassa di riccioli d'oro che gocciolavano lungo le spalle, ancora bagnati. Ci mise parecchio a pettinarli, districando nodi: la cosa sembrava perfino piacerle, tanto che iniziò accuratamente a tagliarli, facendoli ritornare all'altezza delle orecchie, come li portavo un tempo.

«Ancora non ho capito perché ci stai aiutando tanto.» dissi, ad un certo punto, reclinando il capo all'indietro per lanciarle un'occhiata. I suoi occhi verdi scintillavano in bagliori aranciati, così vicina al fuoco. Sentii la legna ardere e scoppiettare, il suono delle forbici che tagliavano, il rumore lieve della spazzola che scivolava fra le ciocche. Poco più in là, il ragazzo dai capelli argentei continuava a restare immobile e addormentato.

«Perché mi sono ripromessa di non ignorare mai chi ha bisogno di aiuto.» La bruna sorrise, posando le forbici per poi allontanarsi un poco, ammirando il risultato. Mi mostrò un'espressione colma d'approvazione. Ci si sentiva bene, puliti e con la pancia piena. Mi ero dimenticato la sensazione. «Sai, una volta vivevo a Skys Hollow.» ritornai a guardarla, all'improvviso molto più concentrato su di lei che su di me.

«La capitale, davvero?»

Skys Hollow: la stessa città mondana con i tetti verde smeraldo e rosso ciliegia spolverati di nebbia, la stessa città col quartiere di lusso fatto di palazzi bianchi come la porcellana e colonnati, la stessa città con la scintillante cupola del Teatro Reale e il lungo fiume Tibor. La stessa città col Castello di Cristallo che troneggiava su ogni cosa, facendoti sentire piccolo ed insignificante.

«Sì. Abitavamo in una bella casa vicino al fiume.» Mentre la studiavo, figurandomela come una cittadina da metropoli, vidi i suoi occhi perdersi nelle fiamme, la spazzola restare a mezz'aria, l'espressione di chi sta tornando indietro nel tempo. «E' andato tutto bene per un po', ma... Più il tempo passava sotto il dominio del Re, più la gente si impoveriva. Le tasse si alzavano, la nobiltà si arricchiva e così si avvicinava il disastro.» Scosse la testa, abbassando la spazzola per passarmi una mano fra i capelli, sentendo i riccioli dorati rispondere ondeggiando. Abbassai gli occhi verso i piedi nudi, guardandomi le dita che dondolavano. Sapevo quanto i nobili fossero corrotti. Quanto una grossa fetta del regno fosse nei guai per colpa loro. Come Assassino, avevo fatto quello che potevo per aggiustare le cose, ma ovviamente non era stato abbastanza. Nulla era abbastanza, finché quel mostro del Re era vivo.

«In poco tempo ci siamo trovati sul lastrico.» continuò, senza accentuare gesti o espressioni. Sembrava, ormai, una ferita molto vecchia. Forse non rimarginata del tutto, ma vecchia. «Ed io ero incinta di un altro figlio.» Le lanciai uno sguardo sorpreso. «Siamo stati buttati fuori di casa, ed io ho partorito in una bettola in periferia...» La sua espressione divenne dura, contrita. Fece qualche passo verso la finestra: ormai era pomeriggio, e con l'inverno alle porte il sole era quasi calato completamente. Rimase a fissare fuori. «Non avevamo abbastanza soldi per poter partire e sostenere un secondo figlio. Ho dovuto abbandonarlo.»

La rivelazione fu così imprevista e scioccante che non seppi che cosa dire, perciò rimasi in silenzio. Io avevo perso la persona che amavo, ma come doveva essere perdere qualcuno che era il prodotto di se stessi? «Gli avevo perfino dato un nome... L'avevo intessuto sulla sua copertina, prima di lasciarlo in strada. Così chiunque l'avesse trovato, avrebbe saputo come chiamarlo.» Sentii il suono del suo lungo e pesante sospiro anche a distanza. «Ma ormai, sono passati decenni.»

Si voltò verso di me e potei constatare che il suo viso non aveva nulla di diverso da prima: nessun dolore, nessuna lacrima sulle guance. A distanza di anni, forse avrei assunto quell'espressione apatica anch'io. «Dopo siamo stati alla Baia del Teschio, un posto pericoloso ma economico. Lì abbiamo incontrato un gruppo di ribelli... Ed eccomi qua.» Si inginocchiò ai miei piedi, incominciando a togliere con una pinzetta le pietre che mi si erano infilate nelle ferite e che non se n'erano andate neppure con la pulizia più approfondita. Non badai al dolore, era facilmente sopportabile.

«Lui come si chiamava?» domandai, tenendo tese le gambe, la testa abbandonata sullo schiena della sedia, gli occhi sollevati verso l'unica finestra sul soffitto: una specie di oblò mezzo-nascosto dal muschio. Le stelle brillavano intensamente, costellando il cielo. Fino ad un po' di giorni fa, fissavo il cielo notturno sperando che qualcosa mi portasse via. Le stelle dovevano aver espresso il mio desiderio.

«Colui che viene dall'isola... Il significato del suo nome.» Una mezza risata suonò dalla sua gola. «Era il nome di mio padre e be', gli era stato messo perché sua madre veniva da un'isola. Il suo nome...» Posò la pinzetta dentro ad un secchio, avvolgendomi i piedi con delle garze, concludendo anche quell'ultima operazione. «Lyle.» Sfarfallai le ciglia dalla sorpresa. «Sono convinta che sia ancora là fuori.» Alzò la testa ed io fui convinto che stesse guardando quell'oblò come me. «Ogni mattina prego perché il sole si levi anche per lui. Ogni notte che le stelle scintillino per lui.» Si alzò e si spolverò i vestiti, avvicinando una sedia al fuoco, ma senza accomodarsi, non prima di aver scelto un libro da una piccola libreria accanto al caminetto.

«Conoscevo un bambino con quel nome.» raccontai, con un sorriso malinconico sulle labbra e gli occhi pieni di ricordi: il giorno in cui mi aveva dato la mano, spingendomi ad alzarmi. Il giorno in cui mi aveva stretto per incominciare a ballare, alle spalle del Teatro Reale, con la musica che ruggiva e l'orchestra che produceva la sua migliore sinfonia. Il giorno in cui mi aveva gridato di correre, ma io non avevo fatto in tempo. Quella era l'ultima volta che lo avevo visto. Dubitavo che stessimo parlando dello stesso Lyle.

«Ora dovrebbe avere all'incirca la tua età.» ammise, guardandomi attentamente. Come collegando i Lyle che conoscevamo, cercai di immaginare il mio non più come bambino, ma come ragazzo, quasi adulto. Non ci riuscii. Però sorrisi assieme alla donna, in un modo che condivideva la stessa silenziosa nostalgia e mestizia.

Dopo, iniziò a leggermi una storia che parlava di una ragazzina che entrava in un modo magico attraverso uno specchio, forse un po' infantile, ma la debolezza mi fece addormentare. E, per una volta, il mio sonno fu senza sogni, libero di poter riposare come non facevo da tanto, tantissimo tempo.



Mi sarebbe piaciuto dire che tutto si risolse in fretta, invece passò qualche giorno e il mio aiutante dai capelli d'argento non accennò a risvegliarsi. Restò con la benda sugli occhi, il petto che si sollevava lentamente, le dita totalmente immobili. L'unica nota positiva, era che il colore delle sue labbra si era fatto un po' più roseo. Ogni tanto Tynam, che stavo imparando a conoscere ogni giorno sempre di più, gli cambiava le bende e sussurrava qualche esclamazione perché sorpresa dalla velocità del rimarginarsi delle ferite. Una cosa positiva, sebbene lui continuasse a dormire.

Quanto a me, cercavo pian piano di rimettermi in sesto: avevo iniziato a fare le flessioni e gli addominali, e poi a correre all'alba sempre tenendomi nelle vicinanze della casupola, seguendo il corso del fiume per non perdermi. Mi esercitavo ad arrampicarmi sugli alberi più alti e a tirare i coltelli verso quelli più lontani. La donna che mi ospitava nella sua umile dimora non mi chiedeva spiegazioni, anzi, sembrava approvare ogni mia mossa.

Inoltre, mangiare stava incominciando a piacermi, e lentamente integravo alimenti più solidi rispetto all'usuale porridge di verdure o funghi che lei preparava. La sera, invece, ci mettevamo davanti al fuoco a leggere storie e ad immergerci in modi diversi, non tanto per dimenticare quello che ci circondava, più per sperare in qualcosa di migliore, quando tutto sarebbe finito. Non importava se la fine del regno sarebbe stata fra cento o mille anni: fantasticare non era vietato, o almeno, non lo era ancora. Non si poteva mai sapere.

Più le giornate passavano, più ero fiducioso che le guardie si fossero allontanate del tutto da noi, perdendo le nostre tracce. Ormai, avevamo bruciato i vestiti vecchi e l'odore di sporco si era del tutto allontanato dalla mia pelle, quindi i segugi sarebbero stati meno utili di prima. Qualche volta chiedevo alla bruna del perché non mi domandasse se avevo incontrato suo marito o suo figlio, ma lei mi spiegava sempre che non voleva saperlo. Forse era meglio così. Sarebbe stato brutto spiegarle che, in quella desolazione, ci assomigliavamo un po' tutti. Avevamo smesso di essere delle persone con una vera e propria identità. Non eravamo che... Animali. O qualcosa di brutto che ci si avvicinava.

L'unica variazione nella routine che si stava formando, era quella verificatasi unna volta, mentre correvo, quando avevo visto in lontananza un gruppo di guardie. Dovevano star impazzendo: non trovavano i nostri corpi, e ciò voleva dire che non eravamo morti cadendo dal dirupo. Ma non avevano idea di dove potevamo esserci cacciati, e la cosa era decisamente positiva.

Passavo quel che mi rimaneva della giornata davanti alla brandina del mio salvatore. Lo guardavo, studiando la forma del viso, la linea dei muscoli, la sua altezza esagerata – i piedi avanzavano di un bel po' da quel letto improvvisato –, le orecchie leggermente a punta e i canini più affilati del normale. I grandi occhi color malva restavano riparati dalle palpebre chiuse, così come dalla benda candida sopra di esse. La pelle bianchissima, nei pochi punti esposti, lasciava intravedere appena la linea violacea delle vene. Anche silenzioso ed addormentato, aveva qualcosa di armonico ed ipnotizzante che non seppi spiegare in alcun modo.

Come dire? I giorni andavano ripetitivamente avanti senza che accadesse nulla di importante, di diverso. Almeno finché non arrivò l'undicesimo giorno. Lì le cose cambiarono.


Stavo quasi per uscire dalla porta, con una vecchia balestra arrugginita alla mano e l'intenzione di mettermi a cacciare qualcosa di più grosso di uno scoiattolo, quando udii dei rumori alla porta: qualcuno bussava. Mi congelai, facendo scattare il capo in direzione della padrona di casa. Lei, prontamente, si avvicinò per guardare fuori dalla finestrella: mi bastò notare le spalle scattare verso l'alto, sobbalzando, per capire che lì fuori non ci doveva essere nulla di buono. Si allontanò dall'ingresso in tutta fretta, correndo verso la piccola libreria che custodiva i libri che leggevamo la sera.

«Forza! Dammi una mano.» mi incitò, iniziando a spostare la libreria in avanti con rapidità, aggrottando la fronte dallo sforzo. Accorsi velocemente ad aiutarla: quando il mobile fu completamente tirato, mi accorsi che dall'altro lato c'era una fossa scavata nella roccia e nella terra della collina abbastanza grossa da nasconderci più di una persona. «Prendilo, sbrigati!» Mi fece un cenno verso il ragazzo ferito, che io acciuffai da sotto alla braccia trascinandolo con una certa difficoltà, ma sapendo perfettamente che dovevo nascondermi velocemente.

Una volta acquattati contro la concava rocciosa dietro alla libreria, la tirai a me e la donna stessa spinse. Sentii altri battiti abbattersi contro la porta, ma ora tutt'intorno a me era calato il buio più totale. Date le dimensioni ristrette del luogo, tenevo il mio aiutante stretto al petto come se avessi voluto abbracciarlo, il suo capo poggiato alla mia spalla, le labbra vicino alla guancia, i capelli d'argento sparsi intorno alla mia pelle. Continuava a dormire silenziosamente, o almeno così pareva dal respiro regolare, visto che la tenebra mi impediva di guardarlo in volto. Visto che Tynam aveva provveduto a lavarlo giorno per giorno mentre io mi allenavo, profumava di sapone e di lavanda.

I dettagli del mio misterioso accompagnatore svanirono quando iniziai a sentire rumori dall'altra stanza: voci appena udibili, ma dal timbro decisamente aggressivo.

«...Piuttosto nascosta, non crede?»

«Siamo nel bosco, è ovvio che...»

Persi per un attimo la conversazione, quando sentii il ragazzo al mio fianco mugolare qualcosa fra le labbra. Strizzai gli occhi dalla sorpresa. Ora non era decisamente il momento di svegliarsi.

«...Qualcuno con lei?»

Una risata. «Non vede? Chi potrebbe mai esserci? Sono una donna sola!»

Silenzio. «Non prenderci in giro, puttana!» E poi una serie di rumori violenti che mi fecero pensare che l'avessero scagliata da qualche parte sul pavimento, facendo cadere qualcos'altro. Dovevano aver notato le brandine con le coperte spiegazzate, o i due piatti sul tavolo che ancora non avevamo sparecchiato dalla colazione.

«No! Non è come...» Una specie di mugolio, simile ad un grido di dolore trattenuto, mi fece stringere gli occhi in due fessure. Forse avrebbero scatenato ancora per un po' la loro frustrazione, per poi lasciarla andare, ma... Non volevo correre il rischio che la uccidessero, inavvertitamente o volutamente. Non sarebbe stato giusto.

Perciò, anche se non era quello che avrei dovuto fare, spinsi la scrivania in avanti con una spallata. Potevo avere tutti i difetti del mondo, ma non ero un codardo. Perciò continuai a spingere, finché non riuscii ad aprire una fessura da cui far emergere le mani, lasciando avanzare il mobile in avanti. La mia apparizione fu così inaspettata ed improvvisa che la prima guardia sgranò gli occhi e, per un singolo secondo, rimase immobile. Secondo che mi fu assolutamente necessario: afferrai la prima cosa che trovai a portata di mano. Una forchetta.

Andò benissimo comunque, perché svolse la sua funzione quando la conficcai nell'occhio del soldato più vicino, sfruttando il suo momento d'agonia per rubargli la spada che pendeva dal fodero al suo fianco. Un lampo argenteo, e la lama gli trapassava lo stomaco da parte a parte, facendolo stramazzare al suolo in una pozza di sangue. Il problema, però, è che non mi ero occupato dell'altro. Quando mi voltai, con un certo orrore mi resi conto che la seconda guardia stava sollevando la spada per preparare ad affondarla contro il ragazzo dai capelli argentei, riverso a terra ancora dormiente, il corpo che spuntava a metà da dietro alla libreria.

«Ezra, no!» gridai. Non sapevo come, ma all'improvviso mi ricordavo il suo nome. Strappai dal corpo dell'altro uomo la spada e la lanciai come un giavellotto contro la schiena del secondo, sperando di colpirlo prima che lui colpisse il mio sconosciuto amico. Non fu così.

Ma successe lo stesso qualcosa di incredibile: lui spalancò gli occhi viola e, con un movimento lesto della mano, deviò la spada, che sbatté rumorosamente contro il legno che gli fasciava la mano, tenendogli le dita dritte. A quel punto, la lama che avevo scagliato era ormai affondata: la guardia vacillò e cadde in avanti sul pavimento con un tonfo rumoroso. Dopo, silenzio. La porta era rimasta aperta, ma non entrò nessun altro, segno che erano gli unici a cui doveva essere stata assegnata la zona, da controllare probabilmente per l'ennesima volta.

Mi voltai verso la bruna, che si era messa in piedi e si stringeva uno strofinaccio intriso di sangue attorno al naso. Mi fissava abbastanza sorpresa, ma neanche troppo. Non doveva essere una sorpresa che uno capace di fuggire da Ender fosse anche tanto abile nei combattimenti: non avevo perso del tutto le mie qualità di lotta. Sbattere un piccone in miniera a qualcosa era servito.

«Non sei un semplice fuggiasco, eh?» esclamò, chiudendo la porta. Mi limitai ad indirizzarle un sorriso, prima di correre verso il mio salvatore, che si era finalmente risvegliato da uno dei sonni più lunghi a cui avevo assistito. Lo presi per le spalle, mettendolo a sedere, ma lui si aggrappò alla libreria ed ebbe la forza di mettersi perfino in piedi. Nel trambusto generale aveva perso la benda sugli occhi, e se non fosse stato per le garze e i capelli scapigliatissimi, avrei detto che stesse una meraviglia. Non era più pallido – benché il colore della sua pelle fosse naturalmente bianchissimo – e si ergeva con una certa sicurezza sul suo... Mi corressi, sui suoi due metri e qualcosa.

«Ezra!» Il mio tono era un misto di sorpresa, meraviglia e perplessità: il tutto perché mi sembrava strano dire il suo nome ad alta voce e vederlo guardarmi di rimando come se fosse la cosa più bella ma anche più normale del mondo. Nemmeno fosse stato naturale, che lo sapessi. «Stai bene?» chiesi, posandogli una mano sul petto, prima di scostarla nel ricordarmi che era nudo, fasciature a parte.

«In realtà Ezrael.» ammise, mettendosi a sedere sulla prima sedia vicina per poi strapparsi dalle mani quei legnetti che l'avevo salvato all'ultimo. Strinse e riaprì il pugno, sciogliendosi e dondolando le dita nell'aria. Più lo guardavo, più mi sembrava che stesse fantasticamente. «E sì, mai stato meglio.» Sì toccò il petto, lì dove diversi giorni prima una freccia l'aveva trafitto. Non sembrava sorpreso dalla sua miracolosa guarigione, anzi. «E tu come stai?» La domanda mi sorprese. Nessuno me l'aveva mai chiesto tanto direttamente da quando Yul era morto, ed io ero finito ad Ender.

«Meglio, anch'io.» ammisi, stringendomi nelle spalle, ricordandomi bene quanto filo da torcere gli avevo dato durante la fuga. Prima convinto che il mio rosso fosse ancora insieme a noi, e poi... Restando imbambolato per interminabili ore come un fantoccio. Ma adesso, a distanza di giorni, mi sentivo un po' più l'assassino e un po' meno lo schiavo. E la cosa mi faceva sentire molto meglio.

«Sono contento.» disse, allungando il braccio per darmi due colpetti sulla testa, allegro. Alzai un sopracciglio, spiazzato dal gesto. Mi avevano desiderato in molti, corteggiato in tanti, ottenuto alcuni ed in modi diversi. Ma un tizio che mi trattava come un cagnolino mi era nuova. Tynam, appoggiata al tavolo, si schiarì la voce.

«E' una bella cosa che tu ti sia svegliato, Ezrael. Avevamo iniziato a sperarci davvero.» commentò, con una voce nasale causata dal fatto che si era tappata le narici con un paio di pezzi di stoffa, arrestando l'emorragia. Intorno alle labbra aveva ancora qualche schizzo di sangue, ma anche lei se l'era cavata piuttosto bene. Il contrario delle due guardie che giacevano a terra. «Ma ora devo toglierti le fasciature e controllare lo stato delle ferite.» Dopo ciò, mi fece un cenno verso i cadaveri, invitandomi a pulire mentre lei si occupava di quel gigante. Ero sinceramente felice che si fosse svegliato, perché significava che avevo un posto dove andare. Anche se stare qui mi era stato d'aiuto, non potevo restare per sempre. Specialmente non ora che il posto non era più sicuro.

Pulii il sangue sul pavimento senza battere ciglio, sebbene non fossi poi così abituato a togliere di mezzo le prove dei miei delitti. Un tempo era il contrario: facevo di tutto perché li notassero. Adesso, mi affaticavo per togliere il sangue che pian piano stava impregnando le tegole di legno, strofinando. Ezrael invece stava avendo lo stesso trattamento che mi era stato rivolto il giorno del mio risveglio: medicato, lavato e, l'ultima cosa che fecero, fu aggiustargli i capelli mozzati in maniera scomposta da una freccia. Li lasciai fare, restando fuori a guardare i corpi bruciare e le fiamme innalzarsi verso il cielo. Sollevai la mano e fissai il palmo, pulito, privo di cicatrici, le unghie tagliate corte, ma non troppo.

Mentre l'arancio del fuoco mi brillava sulla pelle, ricordai di quello che mi aveva detto giorni prima il mio stesso salvatore: "Puoi andare ovunque finché ti tieni stretta la vita" . Finalmente mi sentivo speranzoso.

E la speranza non poté che crescere quando, l'alba di due giorni dopo, ci sistemammo gli zaini in spalla e stringemmo a noi la ribelle, augurandole ogni cosa buona. Augurandole di ritrovare, prima o poi, suo figlio. Il nostro addio fu un saluto generale.

Poi, quando la porta della nostra prima vera alleata ci si richiuse alle spalle, sollevai gli occhi verso il cielo. Il sole si stava levando per noi. E per noi sarebbero scintillate le stelle, quella notte. Perché ovunque stessimo andando, sentivo che le cose iniziavano a migliorare. Che quel posto sarebbe stato quello giusto.




  ❖ ❖ 

*NDA - Un angolo che in fin dei conti non si smentisce*

Hola!
Perché non mi smentisco? Perché sono ritornata ai miei spaventosi papiri, proprio come un tempo. Sì, lo so, questo capitolo sarà stato un po' noioso, come tutti i capitoli di transizione alla "ehi, il protagonista cerca di recuperare le forze, attendere prego!" ma zitta zitta ci ho piazzato qualche.. mhh... Sorpresina, come sicuramente avrete notato. Spero che non ci siano errori o parti strane, quando si scrivono capitoli lunghi rileggerli (avendo già letto i singoli spezzoni più volte) diventa tipo faticoso(?) o più che altro io finisco per non accorgermi degli strafalcioni, rido. Per il resto: dal prossimo capitolo velocizzerò un po' la vicenda, come dire, voglio farli arrivare presto in quel posto magggico(?) e poi farli partire per l'avventura! Così tornerò finalmente a scrivere delle mie strane ambientazioni e gnocchi che spuntano come funghi. Quindi, stay tuned e...
Alla prossima ^^

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