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34. 𝑵𝒐𝒏 𝒕𝒊 𝒔𝒄𝒐𝒓𝒅𝒂𝒓 𝒅𝒊 𝒎𝒆


«Amor vincit omnia -
L'amore vince tutto.»
- Virgilio



Si dice che l'attesa del piacere sia esso stesso il piacere.

Ed io mi gustai il tempo che mi separava dall'uccisione di Alaister, senza alcuna fretta, sapendo quale goduria avrei provato a bagnarmi le mani col suo sangue. No, non ero impaziente, nessuno mi avrebbe portato via quella vendetta. Il nostro era un appuntamento ineluttabile: era il nostro destino a volerlo. Eravamo uniti dal sangue e col sangue sarebbe finita.

Senza fiatare, ancora grondante di fluidi scarlatti, permisi alle guardie-samurai di portarmi via. Con la coda dell'occhio lanciai un ultimo sguardo d'intesa verso Ezra e Lyle, rivolgendo loro un rassicurante cenno del capo. Come promesso ad entrambi, avevo sfidato il labirinto del Feng Du e avevo vinto. Ma il mio trionfo era stato possibile anche grazie a loro.

Il prossimo passo, però, spettava solo e soltanto a me. Avrei lasciato fuori da quella storia tutti e due. Né avrei usato gli ultimi poteri rimasti. Dovevo ammazzare il Re degli Assassini con le mie mani e le mie forze.

Guardai le gocce di sangue picchiettare il pavimento ad ogni mio passo, mentre le guardie armate mi scortavano sulle maestose gradinate. I sudditi mascherati mi osservavano con ammirazione, stima ma anche invidia, sapendo che mi sarei avvicinato così tanto al loro amato Imperatore Rosso. Oltre le scale e il trono, lasciai che mi conducessero nel corridoio adiacente, superando lussuose colonnate tempestate di rubini.

Nessuno mi stava mettendo le mani addosso o trascinando con la forza, ma avevo la sensazione di essere un prigioniero di quei samurai, e se mi fossi ribellato alle loro istruzioni, mi avrebbero placcato nel giro di pochi minuti. Infatti, non feci nulla: mi mostrai accomodante e tranquillo. In fondo ero un vincitore. Davanti a me si sarebbe dispiegato un brillante destino da Cavaliere dell'Imperatore Rosso, se solo non fossi stato così determinato ad ammazzarlo... Che peccato.

Dopo una serie di porte scorrevoli di lucido legno rosso e carta di riso raffinatamente dipinta, raggiungemmo quello che sembrava un terrazzo con un bagno termale. La vasca d'acqua calda, circondata da sassi muschiosi e alberi di ciliegio in fiore, brillava d'oro sotto la luce diretta del tramonto, sollevando nuvole di vapore.

In brevi attimi mi misero le mani addosso, incuranti che fossi sozzo di sangue, alla ricerca di armi. Mi tolsero tutto ciò che avevo. Meno un paio di forbicine nascoste tatticamente fra la pianta del piede e la suola di una babbuccia. Ezra le aveva criticate tanto, invece quelle forbici si rivelarono assolutamente necessarie. Non mi serviva altro che piantarle nella giugulare di Alaister.

«Hai poco tempo per mostrarti presentabile in vista dell'udienza col nostro Imperatore. Non sprecarlo.» mi avvisarono, lasciandomi un changshan lungo con spacchi laterali, di seta rosso sangue, tutto pieno di bottoncini sul petto. Abbinato ad esso, un paio di pantaloni neri semplicissimi e sandali di legno. Poi si allontanarono, chiudendo le porte scorrevoli alle loro spalle, appostandosi fuori: riuscivo a vedere le loro ombre attraverso la parete di carta di riso.

Ansioso di levarmi di dosso la patina incrostata di sangue e i vermi, mi spogliai e calai velocemente nell'acqua. Mi immersi fino alla testa, strofinandomi la pelle come un ossesso, facendo ampio uso degli oli da bagno situati, in vasetti a forma di carpa, proprio al lato della sorgente. L'acqua bollente, dopo tutte le sfide estenuanti che avevo superato, era meravigliosa. Mi aiutò a sciogliere i muscoli e a far guarire meglio le ferite. Non osai rilassarmi, però. Ero ancora in pericolo.

Trovate un posto sicuro dove nascondervi per un po', potrebbe volerci del tempo. Se riuscirò nella missione, diventerà tutto molto pericoloso. State pronti.

Avvisai telepaticamente Ezra, che avrebbe trasmesso il messaggio anche a Lyle. Avevo detto se perché sapevo che niente era scontato. Il mio avversario era un abilissimo omicida, con il potere di un Signore dell'Oltretomba. Avrei dovuto esserne spaventato, invece tutto ciò che sentivo dentro di me era pura e semplice determinazione. Scorreva nelle mie vene e trasformava il mio sangue in ghiaccio.

Tutti gli addestramenti sostenuti nella Fortezza dell'Assassino mi attraversarono gli occhi, veloci come il lampo di un fulmine: Alaister che mi aggiustava la postura, che mi mostrava come impugnare un coltello nel modo giusto, che mi spiegava quanta forza serviva per sfondare il muro di costole di un avversario e arrivare al cuore. Chiusi le palpebre. Presto tutto sarebbe finito.

Fai attenzione. Lyle sostiene che sia molto strana la presenza di Alaister qui. Ho un brutto presentimento.

Mi rispose lo straeliano, poco prima che le guardie venissero a chiamarmi. Uscii dalla vasca, pulito fino all'ultimo centimetro del mio corpo, e una folata magica di vento caldo mi spirò fra i capelli, asciugandoli almeno parzialmente. Indossai gli abiti, calzai i sandali, infilai la maschera da volpe e nascosi le forbici dentro al polsino della manica di seta, esattamente come facevo un tempo con i pugnali celati.

Poi, ricominciò la camminata: superammo tutta una serie di corridoi opulenti. Statue di tigri e dragoni scarlatti sembravano quasi sorvegliarmi, con i loro occhi tempestati di pietre preziose. Le guardie svoltarono ancora, stavolta senza serrare i ranghi, un po' più larghi intorno a me, come se vedendomi ripulito dal sangue e vestito come uno di loro fossi meno pericoloso.

Infine, ci fermammo davanti ad austere doppie porte di legno intarsiato. Le maniglie a forma di dragoni dorati vennero afferrati da due guardie, una a sinistra, una a destra, che mi spalancarono l'entrata davanti. «L'Imperatore vi aspetta nelle sue stanze private.» Sentii il cuore accelerare, veloce come un candelotto di dinamite piazzato in mezzo alle costole, e le mani sudare abbastanza da doverle asciugare contro l'abito.

Superai la soglia e le porte vennero richiuse alle mie spalle, un tonfo che risuonò fino in fondo alla mia anima. Nessuna esitazione, mi ricordai, stringendo le mani a pugno.

Mi ritrovai in una ampia e sfarzosa camera da letto. Le pareti erano coperte da stoffa da parati color avorio di tessuto setoso, su cui erano cuciti intricati ricami rossi a forma di gigli ragno e aironi che volavano per magia sui muri. L'immenso letto era basso, col materasso raso terra avvolto da veli e fili di corallo rosso. Il parquet scuro era lucido e rifletteva perfettamente i bagliori delle lanterne di carta che fluttuavano verso il soffitto.

Tutta l'atmosfera era soffusa, come se quel mondo fosse inscatolato in un vivace incantesimo rosso sangue. Un'intera parete a vetrata affacciava sul regno di Red Mask, riempiendo la camera del colore aranciato del tramonto e mostrando il paesaggio di pagode, ciliegi e labirintici canali d'acqua. Sarei rimasto a guardare il panorama in attesa di Alaister, ma poi, con la coda dell'occhio, colsi un'unica macchia di colore che stonava con il resto.

Sul comodino a fianco del letto c'era un minuto portagioie. Dall'interno spuntavano tanti piccoli fiori azzurri, i petali schiacciati contro lo specchietto e un po' sgualciti. Schiusi le labbra per la sorpresa, rendendomi conto che conoscevo il loro nome. Non ti scordar di me.

L'estensione gigantesca della nostalgia che mi raggiunse ebbe il potere di farmi sentire, anche solo per un istante, minuscolo ed insignificante. Mi resi conto che stavo assaporando quella sensazione per cercare di ricordarmi intensamente qualcosa che non arrivava. Qualcosa che avevo dimenticato.

Eppure, sapevo che quei fiori io li avevo già visti mentre il carro prigionieri mi portava verso il campo di detenzione più spietato del continente. Fiori magici. Mi avevano inseguito verso Ender come per proteggermi, mentre io mi mettevo in punta di piedi sul carro e afferravo le sbarre, gridando. Gridando che non mi sarei dimenticato. Ma di cosa? E perché?

"Presta attenzione ai dettagli" aveva detto la volpe.

Sapevo solo che quei fiori mi avevano dato speranza in un momento di totale prostrazione e disperazione. E dovevano pur significare qualcosa.

Sì, dovevano significare qualcosa. Qualcosa...

I miei sforzi per ricordare s'interruppero quando la porta scorrevole di fronte al letto si aprì e un uomo muscoloso scese le scalette di legno che portavano verso un'altra sezione delle stanze private imperiali. Dietro la sua schiena si intravedeva un giardino zen, un lago di carpe e un terrazzamento sfarzoso. Ma ci prestai davvero poca attenzione, mentre mi toglievo la maschera. Ogni singola fibra del mio essere era concentrata su di lui. Alaister.

Il corpo tornito era avvolto da un kimono di seta nero ossidiana con decorazioni di foglie d'acero rosso; la veste era un po' aperta sul petto scolpito e i capelli corvini, lunghi fino alle spalle e un po' mossi, erano chiusi in un molle codino laterale. Non indossava la sua maschera, così i suoi occhi dorati poterono affilarsi su di me e soppesarmi dalla punta dei piedi fino a quella dei capelli, come se non mi riconoscesse affatto.

Poteva fare il finto tonto quanto voleva.

Aprì le labbra, come per dire qualcosa, ma lo interruppi prima. «Ciao, Alaister.» E mi lanciai contro di lui.

La rabbia fluì e l'oscurità la inseguì, bruciando nel mio corpo, raggelandomi. Ghiaccio e fuoco, odio e furore, sangue e lacrime, che mi aggredirono, divampando, colmandomi fino in fondo. Avevo i pugni stretti come pietre e le forbici dentro una mano, quella mano che adesso si stava fiondando sul collo dell'uomo così velocemente, mentre il mio corpo tremava, scosso nel profondo dall'ostilità, dal puro astio, che divampava nella mia gola come veleno.

Disprezzo, avversione e dolore. La mia pelle era talmente tesa che potevo sentire il sangue martellare nelle tempie, il cuore battere dentro alle orecchie e i denti scricchiolare nella bocca per quanto li stessi digrignando.

Le forbici raggiunsero la pelle di Alaister. Ma era la sua mano, non il suo collo. Colto di sorpresa da quello spasmo di collera violenta, l'unico modo che aveva avuto per salvarsi era stata parare il mio attacco con il palmo: le forbici si erano conficcate proprio al centro, trapassandogli la mano, mentre il sangue gocciolava copioso fra le nostre dita. Ma io continuavo a spingere e spingere, cercando di arrivare alla sua gola, invano.

Eppure lui non si mosse, né indietro né avanti, quasi fosse disposto a morire. Chiuse le dita intorno al mio pugno. Le sue, tremavano. Tremavano forte, come se un terremoto lo stesse scuotendo dall'interno. Poi ci fu solo una parola.

«Helias.»

Soltanto un sussurro, ma il suono del mio nome, pronunciato con una voce diversa da quella di Alaister, mi fece sobbalzare.

Soltanto... Un battito di palpebre.

Un crepitio di scintille magiche.

Oddio.

E poi, come l'acqua della pioggia che cadeva, l'incantesimo si infranse e il vero Imperatore Rosso fu di fronte a me.

...

L'Imperatore Rosso. Non era per il colore ricorrente di quel regno, o di quelle maschere.

"Sapete, i luoghi cambiano nome spesso. Come le persone. Diventano qualcun altro quando meno te lo aspetti." aveva detto la volpe.

"Tutti indossano una maschera. E tu non devi mai, mai fidarti delle maschere" aveva cercato di avvertirmi mia madre.

"La maschera di sangue svelare" perfino la profezia aveva fatto intendere uno svelamento.

Le braccia mi dondolarono lungo i fianchi. Lasciai cadere a terra le forbici, che tintinnarono seminando qualche goccia di sangue sul pavimento. «No.» rantolai, senza voce, senza fiato.

La parete a vetri rifletté l'immagine di lui. Le spalle ampie e i muscoli sodi, la pelle eburnea e le labbra carnose. Il naso dritto e un paio di occhi blu notte, simili a zaffiri, e il viso incorniciato da corti capelli rosso sangue. Era ancora più bello che nei miei ricordi, perché se in questi due anni Lui mi aveva accompagnato come la sfocata visione di un fantasma, adesso era lì. Di fronte a me. Reale.

Molto più reale del gioco di Morfeo. Molto più reale di qualsiasi speranza.

«No. Non è vero, non è reale...» ansimai, indietreggiando. Era la cosa più logica da pensare: Alaister che nascondeva le proprie fattezze, sapendo che non avrei mai potuto ucciderlo con quell'aspetto. «E' un'altra illusione, è un trucco.» mormorai. «E' impossibile.»

Ma lui fece un passo avanti, verso di me. «Ogni storia che si rispetti ha bisogno di un miracolo.» disse Yul Pevensie, allargando le labbra in un sorriso che tracciò fossette irriverenti sulle sue guance, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime di commozione. «Altrimenti nessuno crederebbe nell'amore.»

La distanza fra di noi divenne gigantesca, come un oceano, come la lontananza inespugnabile fra la vita e la morte. Gigantesca come l'origine del mondo. Lasciate innescare la magia da un pulviscolo di stelle - il big bang - e può nascere forma, colore, espressione... Il nostro mondo divampava, assalito da tutti i ricordi che ci avevano legato, da tutti i ricordi che erano stati tranciati, stroncati dal destino.

Yul che si portava un dito sulle labbra e mi sussurrava "sshh" infilandosi un gioiello nelle tasche. Che mi baciava per la prima volta in carrozza, per scherzo, e mi salvava da un'asta di schiavi. Che sfidava regole e sovvertiva falsità per guadagnarsi la nostra libertà. Che mi regalava gli spartiti, che si dichiarava, che veniva a vivere con me.

Yul che sperava nel nostro futuro e poi finiva per essere catturato, mero oggetto di una trappola meschina che lo avrebbe fatto morire. Morire per salvarmi. Il futuro che avevamo sognato, così ardentemente, ci era stato strappato via e lo avevo visto spegnersi dolorosamente mentre lui spirava fra le mie braccia.

Ma adesso ce l'avevamo, un futuro. La vita, a volte, faceva dei giri incredibili prima di tornare al suo posto.

Ed eccoci lì, che ci incontravamo di nuovo, dopo anni. Anni di mancanza e di dolore. Anni di grida e lacrime. Anni di lotte e di sangue. Anni di sogni e di speranze soffocate. Anni in cui non avevo mai, nemmeno per un istante, smesso di amarlo.

Eccoci lì. Due girovaghi che si ritrovavano alla fine del mondo. Nell'Oltretomba.

«Yul...?» esalai, con la voce spezzata dal pianto, dallo shock, dalla meraviglia. Immobile. Fermo. Come pietrificato, mentre le lacrime mi solcavano copiosamente le guance.

«Helias...» ripeté, incredulo, commosso, sconvolto.

La distanza fra noi era stata gigantesca. E adesso non lo era più.

Gli andai incontro e mi bastò un balzo perché lui mi prendesse al volo, tenendomi stretto a sé. Non servì altro. Come se, dopo eterni giorni di pioggia passati a guardare le nuvole, dopo il boato squassante dei fulmini, finalmente lo vedessi... Il sole. Il sole che stordisce.

Mi strinse con forza contro di lui e cademmo l'uno sull'altro, rotolando sul pavimento, mentre le mie mani trovavano il suo viso e le labbra le seguivano. Lacrime e risate. Gratitudine e sollievo. E fiatone, perché ero senza fiato, come se qualcuno mi avesse sottratto l'ossigeno per riempirmi i polmoni con la luce del sole. E con il cielo. E l'universo. E l'infinito.

Il mio corpo vibrava di una risata liberatoria mentre anche lui rideva, nonostante piangessimo allo stesso tempo. Ma erano lacrime di gioia, mentre io facevo piovere le labbra sul suo viso, tempestando ogni centimetro della sua faccia di baci, in modo goffo, ma sollevato, non sapendo chi ringraziare per quel miracolo. Forse solo noi stessi.

Il nostro amore aveva vinto tutto e superato anche l'impossibile.

«Pensavo di averti perso... Pensavo di averti perso per sempre...» piansi a singhiozzi, lasciandogli ancora un centinaio di baci che sapevano di sale sulla pelle umida, mentre lui continuava a stringermi e ad accarezzarmi, ancora e ancora, ricordando la consistenza dei miei capelli, la morbidezza della mia pelle, la forma a cuore del mio viso.

«Non mi avevi perso.» rispose, infilandomi le mani fra i boccoli biondi, con quel tocco inconfondibile che era caldo e dolce eppure irruvidito dai calli di una vita passata ad allenarsi e ad assassinare. «Mi ero solo allontanato da casa.» Mi prese il viso fra le mani, appoggiando la fronte contro la mia. «E ora sono tornato.»

Nemmeno mi ero reso conto di essere scoppiato di nuovo in lacrime. O forse non avevo mai smesso. Al contempo, ridevo: era la prima volta da anni, da quando lui aveva lasciato la mia vita nel peggiore dei modi. Feci scivolare una mano sul suo petto, all'altezza del suo cuore, per accertarmi che battesse, per rendermi conto ancora una volta del fatto che fosse reale. Yul era lì con me. Era lì con me. Con me.

Ancora non riuscivo a crederci.

«Ho avuto paura, ogni santo giorno, di non ritrovarti. Ho avuto paura di non poterti rivedere mai più. Ho avuto paura che mi avessi dimenticato.» ansimai, guardando in fondo a quegli occhi blu notte, di cui pensavo non avrei mai più rivisto il colore o la brillantezza.

Il suo volto venne attraversato da un'ombra dolente e rabbiosa. «Sono stato avvelenato. Hanno cambiato il mio aspetto. Hanno cancellato la mia memoria. Hanno allontanato tutto quello che ero per usarmi... Ma non mi sarei mai, mai scordato di te.» Il suo volto si spostò appena nella direzione del comodino, lì dov'era posato il portagioie con i fiori azzurri. «E' per questo che continuavo a chiedere alla volpe di trovarmi quei fiori, anche se non sapevo perché. E' per questo che ho puntato su di te quando sei entrato nel labirinto.» La sua mano mi strinse una guancia, il pollice mi accarezzò il labbro inferiore. «Una parte di me sapeva di essere ancora lo Yul che ti apparteneva.»

Ecco cosa volevano dire i non ti scordar di me. Erano i fiori di Yul. Non sapevo come, e nemmeno quando, ma lui me li aveva regalati e da allora erano diventati il simbolo della resistenza del nostro amore. Come potevo dimenticarlo?

«Come io appartengo a te, Yul. Questa cosa non cambierà mai.» dissi, col cuore tremante di commozione e gioia, che traboccava d'amore.

Spalancò le labbra in un ghigno di trionfo, un'espressione beffarda che a malapena nascondeva quanto profonda fosse la sua, la nostra felicità. Mi era mancato quel sorriso sbilenco. Mi erano mancate quelle fossette.

«Mi sei mancato da impazzire.» sospirai, mentre lui mi baciava le guance, raccogliendo così le mie lacrime, come se fossero una cosa preziosa da non farsi sfuggire.

«Anche tu. Senza di te io non sono più io. Senza di te più niente ha senso.»

E poi finalmente accadde. Con semplicità e spontaneità, spostando i volti contemporaneamente, cogliendo entrambi lo stesso frammento di attimo. Come due calamite che si trovano. Le nostre labbra si cercarono, si trovarono e finalmente combaciarono.

Avevo aspettato quel bacio per anni. Anzi, avevo l'impressione di averlo aspettato per tutta la vita. Nemmeno più un soffio a dividerci: il mio corpo era premuto sopra il suo e lui era steso sul pavimento, col kimono scomposto sul parquet e le mani intrecciate sulla mia nuca. Era un momento perfetto. Schiusi le labbra e respirai dalla sua bocca. Ogni fiato inalato sapeva di lui, del suo profumo, del suo sapore inconfondibile - menta e caramello, proprio menta e caramello - mentre le nostre bocche si fondevano prima con tenerezza, affetto e devozione, e poi sempre più con brama, bisogno, desiderio.

Sentivo di non avere abbastanza mani per toccarlo o abbastanza bocche per baciarlo. E lui era troppo vestito, oppure lo ero io, perché volevo sentire le sue mani dappertutto, fino al punto da stamparmi indelebilmente nella memoria il suo tocco.

Le labbra di Yul erano affamate. Erano dolci, ma anche disperate, frettolose, come lo erano le mie, quasi avessimo paura di essere separati da un momento all'altro, di nuovo. Mio Dio, c'eravamo ritrovati. Ce l'avevo fatta. Lo avevo trovato. Volevo mettermi a saltare. Volevo cantare, volevo urlare a squarciagola e ridere e piangere ancora.

Ma in quel momento, la cosa che volevo più di tutte, era continuare a stringerlo e a baciarlo dimenticando ogni altra cosa al mondo che non fosse lui. Volevo perdermi in lui. Perdere la mia strada, il senso di me stesso, e ritrovarmi dentro Yul. E ricordarmi che ero finalmente a casa.

Un bacio cedette il posto ad un altro, in maniera inebriante e bisognosa. O forse il bacio fu uno solo, ma disposto a continuare all'infinito. Perché nessuno dei due osava staccarsi, respiravamo col naso e ci nutrivamo di quell'istante. Per baciarci e baciarci, fin quando mi resi effettivamente conto del calore e della consistenza di lui.

Della sua solidità, della sua concretezza, così reale e vera. Il desiderio mi stordì, mentre chiudevo le gambe intorno ai suoi fianchi, mettendomi a cavalcioni su di lui.

«Ti amo così tanto...» sospirò, separandosi solo per potermi ammirare, gli occhi blu concentrati e socchiusi, prima di iniziare a spogliarmi. Fu il segnale che mi servì a fare lo stesso con lui, con una certa fretta, le mani che formicolavano e fremevano per il bisogno di toccare la sua pelle nuda e ricordarla, riscoprirla.

Mentre apriva i bottoncini che mi chiudevano il changshan sul petto, io gli slacciai la cintura di seta che gli chiudeva il kimono intorno alla vita, scoprendo con una certa sorpresa che sotto era completamente nudo. Avvampai, sollevando leggermente le sopracciglia, mentre lui metteva su una delle sue espressioni da terribile.

«Che c'è? Qui le mutande sono scomode.» arricciò le labbra in un sorriso da pervertito, facendo scivolare un dito lungo la mia guancia. «Vedi qualcosa che ti piace, Hel?» ammiccò. Mi mancava persino che mi chiamasse "Hel". «Puoi averlo.»

Mi lasciai andare ad una mezza risata, liberatoria anche quella, come se rompesse ogni minimo dubbio che Yul fosse un'illusione. Era davvero lui. Il solito maniaco. Risi più forte, in maniera dolce, mentre lui indovinava i miei pensieri e rideva con me, sollevandomi la veste da sopra alla testa.

«Certo che posso averlo. Aspetto da due anni, razza di stupido.» esclamai, con un sorrisetto impudente e le ciglia orlate di lacrime. Ridacchiò.

«Vedo che il piacevole vizio di insultarmi non è cambiato.» gongolò, quasi i miei fossero tutti indispensabili complimenti, per lui. Poi mi passò le braccia intorno alla schiena e sussultò. «Ma cosa...?» La sua espressione si irrigidì e, quando si sporse oltre la mia spalla, sgranò gli occhi. Raggelando. «No.» Aveva visto le cicatrici delle mie frustate. «Chi?» sibilò e i suoi splendidi occhi blu si riempirono di ferocia.

«Non importa, è andata ormai, è un capitolo chiuso...» sospirai.

«Dimmelo.»

Deglutii, come se mi sentissi a disagio ad ammetterlo. Era l'amara ironia della sorte che mi addolorava: eravamo caduti in una trappola che prevedeva la liberazione di alcuni schiavi da Ender, ed era finita con me dentro ai suoi cancelli. Come schiavo. Abbassai lo sguardo, abbattuto, ma lui mi colse le guance fra le mani, sollevandomi il viso e guardandomi negli occhi. Mi baciò lentamente le palpebre, prima la destra e poi la sinistra.

«Non avere paura. Puoi dirmi tutto quello che vuoi. Sempre.» mormorò.

«Ender.» rantolai, sostenendo il suo sguardo. Il guizzo di dolore che lo attraversò fu chiaro e visibile, assolutamente concreto. Lo folgorò e, di riflesso, fece male anche a me.

Il silenzio e lo smarrimento che seguì fu peggiore di qualsiasi risposta. Soltanto dopo un profondo respiro, disse: «Avrei dovuto esserci. Avrei dovuto proteggerti da quei mostri.»

Lo sapevo. Sapevo che avrebbe colpevolizzato se stesso. Gli afferrai la mano, intrecciando le sue dita con le mie e la mia espressione si fece dolce, la più dolce di tutte, per quanto fossi grato in quel momento. «Ma l'hai fatto. Più di chiunque altro.» affermai, portandomi la sua mano alle labbra per baciarne il palmo che gli avevo pugnalato, la cui ferita si era magicamente richiusa, ma aveva la pelle ancora macchiata di sangue. «Sei morto per proteggermi. E non dovrai mai, mai più fare una cosa del genere.» Lo guardai con determinazione. «Perché se ci riproverai ti ammazzerò io prima!»

Non erano parole scherzose, ma spaventate. Impregnate dal panico all'idea di perderlo ancora. Di vedermelo portare via di nuovo, proprio adesso che lo avevo ritrovato. «E dopo averlo fatto verrò di nuovo a cercarti in capo al mondo, smuovendo mari e monti e perseguitandoti fino alla fine dei tuoi giorni da non-morto!» ansimai, quasi senza riprendere fiato.

Mi rispose afferrandomi il viso fra le mani e baciandomi a lungo. «E' la minaccia più bella che io abbia mai ricevuto.» Sorrise, accarezzandomi il naso con il suo. «E dire che avevo detto sarei stato io, quello disposto a seguirti fino all'Inferno.» Sospirò una risata bassa, un altro suono che credevo non avrei mai più sentito e che invece mi colmò i canali uditivi lasciando dentro di me un senso di nostalgica gioia. Yul è tornato. Noi siamo tornati. Siamo insieme. «Invece l'hai fatto tu, letteralmente.»

Si mise in piedi, col kimono aperto che ondeggiava leggermente intorno a lui, sollevandomi fra le sue braccia. «Come diavolo fai a sorprendermi così? A farmi innamorare di te ancora una volta?» Scosse la testa, con una risata esasperata, come se fosse un caso perso e io ancor più di lui che avevo sfidato ogni legge della logica per trovarlo.

«Lo sai come faccio.» dissi, lasciandomi adagiare sul letto a baldacchino, in mezzo ai cuscini di seta rosso sangue. «E' perché sono il migliore.» ridacchiai, un tono divertito e al contempo commosso, trovando incredibilmente spontaneo - e per questo dolcissimo - tornare alle solite scaramucce di un tempo, che ci definivano così bene.

Sorrise, le fossette scavarono indisponenti nelle sue guance. «Ehi, adesso sono un imperatore rispettato e venerato. Direi che non sono niente male anche io, mh?» si pavoneggiò, sghignazzando, mentre io fingevo di alzare gli occhi al cielo, come se fosse cosa da poco, anche se quella era una realtà sconvolgente. Yul era un Signore dell'Oltretomba.

«Sì, forse non sei male neanche tu, Yul Pevensie.» replicai, avvolgendogli le cosce intorno ai fianchi, senza dargliela vinta. Ben sapendo, invece, che lui era fantastico. Era migliore di qualsiasi cosa e chiunque altro. Perfetto per me.

Con un semplice movimento di mani, il rosso mi ribaltò supino contro il materasso, la faccia fra i cuscini e la schiena rivolta verso di lui. «Cosa-?!» Prima che potessi chiedergli che avesse in mente, sentii le sue labbra scivolare sulla mia schiena. Sulle mie cicatrici. Rimasi senza fiato.

Ogni cicatrice era un punto dove le sue labbra si posavano, un punto su cui respirava, un punto che assaporava. Senza lasciare nemmeno un centimetro vuoto. Yul aveva fatto molti gesti speciali nei miei confronti, ma questo ne eclissava la maggior parte. Un bacio dopo l'altro, avevo la sensazione che guarisse gli orrori e le crudeltà che Ender mi aveva lasciato dentro, estirpando la disperazione con la delicatezza e l'intensità di quell'amore che pensavo di aver perduto per sempre.

Sospirai, stringendomi i cuscini al petto mentre la sua bocca si abbassava, spostandosi fino all'orlo dei pantaloni, che mi tirò molto lentamente alle caviglie, strattonandoli per liberarmi del tutto. Poi la sua lingua lambì le mie natiche tonde, che sporgevano come la più audace delle profferte, e il mio corpo reagì all'istante. Serrai le dita contro ai cuscini e li morsi, affondando la faccia nella seta e arricciando le dita dei piedi, quando la sua lingua iniziò a tracciare dei cerchi lenti proprio nel punto più intimo del mio corpo.

«Non soffocare la voce... Voglio sentirti.» sussurrò, e il suo respiro solleticò lì dove la sua bocca aveva appena iniziato a lappare. «Voglio sentire tutto. Ogni cosa.» subito riprese il suo operato. Sentii la sua lingua penetrarmi, mandandomi un brivido acuto lungo la spina dorsale, l'inizio di un piacere incontenibile, che soltanto lui era in grado di suscitarmi, come se conoscesse ogni più piccolo segreto del mio corpo, che al rosso rispondeva così sinceramente.

«Aah, Yul!» gemetti, inarcando la schiena, le dita a strattonare le lenzuola di seta e gli occhi chiusi in quell'istante di libidine che pareva infinito e invece continuava ad aumentare. La sua mano affusolata s'infilò fra il materasso e il mio corpo, pronta ad afferrare la mia durezza, senza smettere di muovere la lingua mentre il mio corpo iniziava a tremare in piccoli spasmi, incapace di trattenersi. «Non- ngh... continuare...» ansimai. La sua lingua continuava a spingere, torturando deliziosamente la mia fessura. «Sto per...»

«No. Non venire, non ancora. Resisti per me.» disse, la voce bassa e roca per il desiderio, drizzandosi sulle ginocchia con una certa impazienza mentre mi faceva ruotare e mi sistemava di fronte a lui. «Voglio vederti venire mentre ti sono dentro.» sussurrò, indirizzando la punta del suo membro contro di me. «Quando lo farai saremo un tutt'uno, Hel.»

«Avevo... dimenticato...» iniziai ad ansimare «quanto fossi... chiacchierone e pervertito...»

Sogghignò, spezzando la mia frase con un colpo di reni mentre entrava con una lentezza estenuante, una piacevolissima tortura. Gettai la testa all'indietro, allargando le cosce, sentendolo colmarmi fino in fondo. Si mosse in tutta calma, come se volesse riprendere coscienza di come fosse fatto il mio corpo, di come fosse starmi dentro. Ma per me non era abbastanza.

«Più forte...» mugolai, implorante. «Devi fare più forte... Ho bisogno... di sentirti.» Strinsi il cerchietto di muscoli intorno alla sua virilità, dando un incentivo alla mia preghiera.

«Attento a cosa desideri, Hel.» scandì, prima di lasciar cadere ogni delicatezza. Intrecciò le mie dita con le sue in due pugni stretti e poi cominciò a muoversi con un ritmo serrato e martellante, posizionandosi con un angolo preciso, che ad ogni spinta mi colpiva la prostata. Ogni volta che i suoi fianchi schioccavano contro le mie natiche cacciavo un gemito urlato e ben presto la stanza si riempì dei nostri versi di piacere e dei suoni che facevano i nostri corpi, incontrandosi.

Raggiunsi l'amplesso con una velocità disarmante, completamente disabituato ai nostri ritmi, a... tutto quello. Ma fui nuovamente eccitato, per nulla sazio. Nessuno dei due lo era.

Mi misi a cavalcioni su di lui e il rosso mi prese per i fianchi, aiutandomi a muovermi sopra di lui, facendomi danzare il bacino, mentre con le braccia gli avvolgevo la nuca. Le nostre labbra s'incontrarono ancora. Morbide, vaniglia contro menta e caramello, accoglienti come il centro del mondo. E poi battiti del cuore, non all'unisono, ma passati dall'uno all'altro attraverso il contatto dei nostri corpi, come una conversazione fatta soltanto dalla parola.

«Ti amo, Helias. Ti amo, oh, ti amo da morire.» grugnì, una spinta dopo l'altra, seminando baci, marchi e morsi sul mio collo, le mie clavicole, le spalle e il petto. Ancora e ancora e ancora.

«Ti amo anche io, Yul.» gemetti, in un misto di paradisiaco piacere e gioia pura, elettrizzante, nel dire quelle parole per la prima volta dopo un tempo sconcertante. Parole piene di una speranza troppo a lungo soffocata e che ormai si era completamente impossessata di me. Speranza... Amore.

Ad ogni movimento ricordavo e riscoprivo com'era baciarlo, com'era averlo, com'era amarlo. Il dolore dilagante della sua perdita era scomparso. Ad ogni carezza la mia anima straziata si ricomponeva. Era come se non ne avessi avuta una fino ad ora. Com'era qualcuno che viveva senza un'anima? Tradisci quello in cui credi. Anneghi il tuo dolore nel bisogno di vendetta. Uccidi e continui a uccidere finché non rimane più nessuno.

Ormai quell'oscurità apparteneva ad un'epoca finita.

«Dillo ancora...» ansimò, spingendosi dentro di me con un colpo di bacino mentre io abbassavo le natiche sulla sua asta, incontrandoci a metà strada, non capendo più dove finivo io e dove iniziava lui.

«Ti... amo... ah!» mugolai, prima di stringermi a lui ancora più forte - pelle a pelle come se volessi cucirmelo addosso - e raggiungere l'orgasmo nello stesso istante in cui lo fece lui. Venne dentro di me e io su di lui, sporcandolo un po', ma nessuno dei due se ne curò, mentre ci accasciavamo sul letto, sudati e tremanti e sollevati. Ed immensamente grati che il destino fosse ritornato dalla nostra parte e che ci avesse fatti riunire. «Resta dentro di me... Ancora per un po'...» soffiai, con le guance rosse.

Mi rivolse un ghignetto compiaciuto e non uscì, limitandosi a tenermi sopra di lui, stesi fra le lenzuola di seta cremisi e con le gambe intrecciate. La mia guancia posò sul suo petto, l'orecchio vicino al suo cuore, udendo il suo rassicurante tamburellare. Per un po' ci godemmo il silenzio, io che disegnavo lenti cerchi sul suo torace marmoreo e lui che giocherellava con un boccolo biondo. Le nostre mani si trovarono, la sua ben più grande della mia, i nostri palmi combaciarono e dopo pochi secondi le dita si intrecciarono. Sorridemmo simultaneamente, come spettatori di una magia, un incantesimo impossibile da spezzare.

Dopo qualche minuto, Yul esordì: «Devo chiederti una cosa, ma tu rispondimi sinceramente.» La pausa che seguì mi spinse a distaccare la guancia dal suo petto per guardarlo negli occhi blu. Non riuscì a nascondere la paura che brillava dentro di essi. «Questo non è il tuo posto. Perché sei nell'Oltretomba? Vuol dire che... anche tu...?»

Scossi con forza la testa. «No! Non sono morto.»

Esalò un rumoroso sospiro di sollievo. «Grazie a Dio. Ma allora com'è possibile?» Mi drizzai a sedere, distaccando i nostri corpi e sistemandomi sul letto accanto a lui. «Perché fai quella faccia?»

Non mi ero nemmeno reso conto di aver stropicciato le labbra in una smorfia. All'improvviso mi erano tornate alla mente le minacce di Alaister. Che mi insinuava dentro alla testa il tarlo del dubbio, chiedendomi se Yul sarebbe stato disposto a vivere con me, accettando il fatto che non fossi umano. Che fossi diverso. Che fossi qualcuno di perseguibile secondo la civiltà in cui vivevamo, dove non esisteva la magia. Da allora, però, molte cose erano cambiate. L'uomo che amavo era morto. Il solo fatto di essere nel Feng Du, un posto così strano e sovrannaturale, il solo fatto di trovarci in un mondo dove tutti i morti si raccoglievano, sballava la concezione di normalità.

Quella paura latente venne spazzata via, sostituita da un affettuoso coraggio quando l'assassino coprì la mia mano con la sua. Girai il capo verso di lui e Yul restituì lo sguardo. E così, iniziai a raccontare.

«Mia madre mi narrava storie di miti e di magia quando ero piccolo. Pensavo fossero solo storie per bambini. Ma la verità è che sono sempre stato diverso. Se sono riuscito a diventare Sfavillo, è perché ho barato.» piegai le labbra in un sorriso esasperato, mentre lui corrucciava la fronte. « Non sono mai stato umano. Sono più veloce, guarisco più in fretta, perfino i miei sensi funzionano meglio.»

Yul sgranò gli occhi, che si riempirono di consapevolezza. «Il tuo sangue.» sussurrò. «Ecco perché il dottore non sapeva quale trasfusione farti.» Si riferiva a quando ero tornato dal castello del vampiro, quando lui mi aveva salvato per l'ennesima volta. Annuii.

«Sono uno straeliano. Almeno, una parte di me.» Inghiottii a vuoto. «Astrea, la città della leggenda, esiste. Il Re del Continente Magico ha censurato e distrutto libri, ha perseguitato ogni traccia di magia, per cancellare la storia e farli sparire. Ma mia madre era una di loro. E non una qualsiasi, ma la principessa.» 

Yul drizzò la schiena, mentre la mascella gli cedeva, realizzando quella verità che nemmeno io avevo accettato a pieno. Ero il principe di Astrea. «E nemmeno Re Kavendish è chi dice di essere. E' un mostro, Yul. Una creatura terribile. Io... l'ho visto.» Le visioni che avevo avuto su Yaakov e Qiana mi avevano fatto accapponare la pelle. «E... ecco... io sono suo figlio.»

«... Cosa?» Adesso sì che era scioccato.

«E' stato lui ad uccidere mia madre. Voleva arrivare a me. E questo perché, secondo una profezia di Astrea, sarei stato destinato ad ucciderlo.» E poi gli raccontai tutto il resto. Della mia missione nell'Oltretomba, del fatto che stessi segretamente cercando proprio lui mentre aiutavo Astrea a trovare i frammenti di una spada con cui uccidere il Re di Darlan. Gli parlai di Astrea stessa, delle speranze che quella gente riponeva in me. E di Ezrael, fra le altre cose.

«In che senso "avete un legame?"» I suoi occhi si assottigliarono, guardinghi. Mi irrigidii sul letto.

«E' una questione magica fra i reali di Astrea e la loro guardia. Una cosa telepatica.» Non entrai volutamente nei dettagli, cercando di minimizzare. «In ogni caso, mi ha aiutato molto. Non sarei qui con te se non fosse stato per lui.» Mormorò un dubbioso verso d'assenso, lasciando cadere l'argomento. Gli parlai anche di tutte le disavventure che avevo affrontato per trovare gli altri frammenti di spada e i suoi occhi si velarono di sofferenza e dispiacere. Mi ci volle un bel po' per raccontare ogni cosa, tralasciando le violenze di Osiride o le tentazioni di Morfeo. Quando arrivai alla parte su Lyle rise di gioia, sorpreso e felice da quella notizia e dal fatto che non fossimo più nemici.

«Capisci cosa vuol dire tutto questo?» dissi alla fine, con la voce rotta dall'emozione. «Possiamo attraversare i Regni dell'Oltretomba, tornare nel mondo dei vivi.» Mi bloccai, per un attimo agghiacciato. «A meno che tu non voglia restare coi tuoi sudditi.» cercai di trattenere la paura che quell'ipotesi generò in me, ma lui cancellò ogni timore con una risata.

«Non c'è niente per me qui. Ora che ti ho trovato, non ho la minima intenzione di lasciare il tuo fianco. Ovunque tu voglia andare, io sarò lì con te.» Allungò un braccio verso il comodino, prendendo un non ti scordar di me. Poi mi raccolse la mano sinistra e intrecciò un fiore intorno all'anulare, andando a formare una specie di anello.

Sgranai gli occhi, sentendo il cuore martellare. «Mi stai facendo la proposta, Pevensie?» domandai, con un tono a metà fra lo shock e la presa in giro.

«Ti piacerebbe.» esclamò, mostrandomi un ghigno compiaciuto, con tanto di fossette, cosa che mi fece avvampare. Ma tornò subito serio. «No. Ti sto facendo una promessa.» Mi tirò sopra le sue gambe, appoggiando il mento nell'incavo del mio collo. «Ti prometto che, quando saremo fuori di qui, quando torneremo nel mondo che conosciamo, allora ti chiederò di essere mio per sempre, in ogni modo possibile.» sussurrò, mentre restavo senza fiato. Una promessa.

Quello aveva tutta l'aria di essere un nuovo inizio. Finalmente, dopo tanti inizi incerti e sofferti della nostra vita.

Ma c'era ancora un'ultima questione in sospeso. «Yul, devo dirti un'altra cosa...» Mi morsi il labbro inferiore. «So chi ci ha teso una trappola.»

«Alaister.» rispose subito, sorridendo con amarezza. Lo sapeva già. «Me l'ha detto quel bastardo di Crow quando mi ha catturato. E, anche se non l'avesse fatto, era così fottutamente prevedibile. L'avrei capito facilmente.» A differenza mia, che non avevo voluto guardare in faccia la realtà. «E' sempre stato attaccato morbosamente a te.»

Scossi la testa. C'era un motivo ben più profondo della possessività e io gli spiegai anche quello: che era un fedele alleato del Re e che era un non-morto anche lui. «Ma certo. Questo spiega molte cose.»

«Cosa? Di che parli? E perché avevi la sua faccia? Cos'era quella magia?» domandai, ansioso di capire. «Cazzo, stavo per ucciderti.»

«Te l'ho detto... Sono stato avvelenato. Qualcuno voleva creare una copia perfetta del precedente Imperatore. Un uomo con un aspetto fin troppo simile all'Alaister che conosciamo.» Fece una pausa lunghissima. «Ormai so che non è un caso di somiglianze, di sosia. Perché sai come si chiamava quell'Imperatore?» Mi feci attento. «Hēi.»

Battei le palpebre, colto alla sprovvista. Avevo già letto quel nome, in un diario inquietante fatto di carne umana, che parlava di una risalita dall'Oltretomba. «E sai qual è il significato della parola Hēi?»

Scossi il capo, mentre i suoi occhi lampeggiavano. «Nero. Che noi conosciamo come...»

Strabuzzai le palpebre e le nostre labbra si mossero insieme nel dire: «Noir.» 





*NDA - Un angolo che urla un FINALMENTE grande quanto una casa*

Hola!
Ebbene sì. E' successo. Lo so, lo so, non ci sto credendo neanche io. E' da quando ho scritto l'epilogo di Sfavillo che aspettavo questo momentone. Da quando ho scritto quel POV misterioso... Stiamo parlando del 2016/2017, insomma. Avete dovuto aspettare tutti questi anni per il loro ricongiungimento, che è definitivamente un miracolo :') ma mi mancava da morire scriverli insieme! Come mi mancava scrivere Yul, un sacco! Quasi avevo paura di aver dimenticato come narrarlo, poi però ha proprio preso il volo!
A parte ciò, ecco svelato il perché del titolo del libro. Il nostro Yul è un signore dell'Oltretomba, ebbene sì. E, tra l'altro, è vero che Hēi significa nero, in cinese. Un piccolo indizio semi-impossibile da capire, ma c'era xD
Spero davvero che questo capitolo (che andava celebrato con un titolo appropriato) vi sia piaciuto <3 

Alla prossima ~

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