32. L'Assassino e il desiderio
«Senza la speranza è impossibile trovare l'insperato.»
- Eraclito
Lo trovò in un campo di gigli.
Mentre Lyle guardava da lontano il giovane assassino, steso su un fianco e con i capelli d'oro sparsi fra i petali bianchi, gli venne in mente un'immagine dipinta ad acquerello su una cartolina che una volta aveva comprato da un caffè letterario di Skys Hollow.
Helias sembrava il ragazzo ritratto sulla carta, con quel fascino triste che hanno tutte le lettere che non arriveranno mai al destinatario. Il fascino di un amore un tempo non corrisposto. Restò per un attimo immobile ad osservarlo, schiudendo le labbra, sorseggiando il sapore di quell'irrealtà che diventava reale.
Il suo amico era lì con lui. Nonostante fosse ferito e sciupato, appariva comunque bellissimo. Era giusto che qualcuno fosse così bello senza il minimo sforzo? Un tempo il pungolo dell'invidia avrebbe punzecchiato il cuore di Lyle, accompagnato dal rimorso e dal senso d'abbandono. Ma non arrivò stavolta, perché non era più il cortigiano di Sophia. Era cresciuto.
E davanti a quel ragazzo, così bello e così profondamente perso - perso nella disperazione, perso nel dolore, perso nella rabbia - non poté fare altro che correre da lui, cadendo sulle ginocchia per abbracciarlo alle spalle. Helias era lì con lui. E ora erano insieme.
Era per questo che Lyle aveva detto ad Alaister che la propria fine segnava l'inizio della sua. Perché, se sapeva che il Re degli Assassini era morto, una strana specie di morto vivente, allora significava che poteva diventarlo anche lui. Che poteva tornare in vita, tornare da Helias e raccontargli tutto. Non avrebbe mai immaginato che invece sarebbe stato Helias stesso a venire da lui.
Gli strinse le braccia intorno al corpo, appoggiando il viso nella curva del collo altrui, che profumava di vaniglia, come se fosse l'odore naturale della sua pelle. «Mi dispiace...» sussurrò Lyle. «La verità è sempre così amara. Alcuni cercano di digerirla. E altri, semplicemente» spostò lo sguardo sulla chiazza di bile poco lontana, ma non abbastanza per sentirne l'odore «la vomitano.»
Il biondo non fece niente per asciugarsi le lacrime, come se non gli importasse di mostrarsi vulnerabile. Era un atto di fiducia così spontaneo che lasciò Lyle senza parole. «Pensaci...» esordì, con la voce roca, come se avesse pianto o urlato fino ad ora. «Sfavillo. Non è un nome da assassino. Certi nomi devono far paura, devono adattarsi a qualcuno che versa sangue.» Sfiatò dalle narici un sospiro di disprezzo. «Sfavillo è un aggettivo che dai ad un gioiellino da sfoggiare. Come se io fossi sempre stato...» digrignò i denti. «... la loro stupida bambola.»
«Smettila di torturarti così.» si affrettò a rispondere il bruno, rafforzando la pressione dell'abbraccio e curvandosi sulla spalla altrui per poterlo guardare in faccia. «Non potevi saperlo...»
«Ma dovevo. Dovevo capirlo.» Scosse la testa. «Come fa Alaister ad essere morto, eppure così... vivo?» sussurrò, profondamente turbato dalla cosa.
Lyle si strinse nelle spalle, un gesto fatto per nascondere il brivido che provò nel ricordare quell'uomo che gli metteva le mani addosso. «Come lo siamo noi, no? E... Helias... Cosa è successo? Come sei arrivato qui?» Gli occhi verdi gli si fecero torbidi per la paura. Ender, alla fine, aveva avuto la meglio? Le torture di quel campo di lavoro lo avevano ucciso?
«Ma io non sono morto.» risposte Helias, il tono sorpreso, come se anche solo pensarlo fosse un'assurdità. In effetti, ne aveva passate talmente tante che ad un certo punto veniva facile credere che la morte lo scansasse, superandolo senza nemmeno guardarlo in faccia. Anzi, la morte lo guardava in faccia ogni volta. E ogni volta lo risparmiava.
Lyle sentii qualcosa dentro di lui rasserenarsi e rilassarsi. Se Helias non era morto, significava che quel mostro di Alaister non aveva ancora vinto. «Ma allora, come ci sei finito qui?» chiese, confuso.
«Oh, è una storia piuttosto lunga...» si girò a guardarlo, con le ginocchia tirate al petto e la guancia rosea che poggiava delicata su una gamba. Si vedeva che voleva parlargliene, ma in quel momento non ne aveva la forza, Lyle glielo leggeva negli occhi. Perciò non insistette, lasciando che il biondo cambiasse argomento. «E tu, invece? Anche tu dovresti essere» storse le labbra, osservandolo «morto, ma sembri piuttosto vivo. Come ci sei arrivato qui? Qualcuno ti ha indirizzato verso questo regno?»
Lyle corrugò la fronte. Che voleva dire, questo regno? Ce ne erano altri? «No. Non mi ci ha spedito nessuno.» sussurrò, abbassando gli occhi sui gigli bianchi che li circondavano. Ricordava bene il giorno della propria morte. Il salto dal dirupo. La terra che si avvicinava, così velocemente... E poi il tonfo. Il suono del proprio corpo che si rompeva in tanti piccoli pezzettini, come un vaso rotto, ma dall'interno.
E quella era stata la fine.
«Ricordo che c'era tanta luce.» riprese il bruno, dando voce a quelle memorie. «Tanta che faceva male. Mi sentivo leggero e pesante insieme.» Non era facile da descrivere. Era come galleggiare nell'acqua con dei pesi addosso. «Quando ho aperto gli occhi mi sono ritrovato in mezzo ad un campo. Sempre qui, da qualche parte. Delle persone del posto mi hanno aiutato. Mi hanno dato dei vestiti e una casa fra gli alberi. Nessuno di noi ha un preciso scopo. Viviamo e... andiamo avanti. Qualcuno cerca di rifarsi una vita, se così si può chiamare.»
«E dov'è qui? Che posto è questo?» domandò Helias, esaminando i campi di fiori che si perdevano a vista d'occhio e poi il bosco lontano, pieno di case intagliate nei tronchi. «Come fai a tenere il conto del tempo?» aggiunse.
«Si chiama Janna. Alcuni lo chiamano semplicemente il Giardino.» disse Lyle, mordicchiandosi un labbro inferiore. «In verità, non so che ore o che giorno sia...» Già. Il cielo era sempre di quel colore: blu screziato di rosa, mai abbastanza chiaro e mai abbastanza scuro. Nessuno aveva orologi. Nessuno aveva un modo per quantificare il tempo che passava. «Nel Giardino ognuno fa pacificamente ciò che vuole, quando vuole. E' così che funziona, qui.» Stirò le labbra in un leggero sorriso. «Ci si annoia facilmente. Molti organizzano banchetti e ballano finché anche quello non diventa noioso. Sai, i morti sono diversi dai vivi, anche se non sembra.» Lyle vide il biondo raddrizzarsi, prestando attenzione. «Noi non abbiamo fame. Non sentiamo la stanchezza. E quando mi ferisco, dopo poche ore sono guarito. Ma è normale, in fondo, siamo già morti.»
Helias era così stupito che aveva le labbra schiuse. Non solo, sembrava addolorato da quella parziale perdita di umanità. Lyle avrebbe voluto accarezzargli il viso e dirgli che non importava. Che aveva scelto questa strada lui stesso e aveva ormai accettato il suo destino. «Ma almeno sai quanto tempo è passato da quando..?» Non completò la frase, ma Lyle capì ugualmente. Da quando Yul era morto e lui era finito ad Ender.
«No. A volte sembra solo qualche giorno. Altre l'eternità.» rispose, mestamente. Era quella la cosa più brutta: non conoscere il destino di Helias, non sapere se fosse vivo, oppure... A dir la verità, la prima cosa fatta, quando era arrivato a Janna, era controllare la presenza di Yul. Aveva cercato e cercato e gli era sembrato strano che il rosso non fosse lì con lui.
«Lyle...» mormorò Helias. Il fatto di sentire la sua voce che pronunciava il suo vero nome era strano, ma di una stranezza speciale. Nostalgica e affettuosa. «Sono passati due anni.» Due anni. L'informazione lo colpì come un pugno allo stomaco. «Ma non importa.» Scosse la testa, con forza. «Sono venuto nell'Oltretomba di mia spontanea volontà. Per trovare Yul. Possiamo andarcene da qui.»
A Lyle venne una stretta al cuore. «No, Helias. E' vero, esiste un cancello in questo Giardino... Ma nessuno è mai riuscito ad aprirlo, nonostante tutte le anime che vengono offerte.» Lyle aveva sempre pensato che dietro agli imponenti Cancelli dell'Eden, così chiamati dagli abitanti del luogo, ci fosse la strada per ritornare a casa. Ma che senso aveva metterlo lì, se nessuno poteva oltrepassarlo?
«Perché nessuno di quelli che hanno provato ad aprirlo era vivo.» sentenziò il biondo, con un'espressione determinata negli occhi che si trasformò in confusione, almeno per un istante. «Ma come fate ad avere delle anime? Chi uccidete? Questo posto sembra così pacifico.»
«Ogni luogo ha il suo lato oscuro.» disse Lyle. Ma non aggiunse altro, come se, anche quella conversazione, fosse complessa abbastanza da dover essere ripresa in un secondo momento.
«E la ragazzina?» domandò Helias, dopo un lungo attimo di silenzio, col vento che profumava di fiori a scompigliargli i boccoli d'oro. Parlava di Anwaar.
«E' arrivata dopo di me. Mi sembrava così triste lasciarla da sola. Non è facile morire a quell'età.» Lyle abbassò lo sguardo con mestizia. «Non era un problema lasciarla vivere nella mia stessa casa-albero.»
A quel punto, l'assassino lo accarezzò. Fu un gesto così lento e dolce che il suo cuore minacciò di fermarsi - sì, perché nonostante la mancanza di fame, freddo o stanchezza, il suo cuore batteva ancora, quasi andasse a ritmo con la sua anima. Lyle ricambiò il sorriso tenero del biondo. «Questo mi ricorda qualcosa.» disse Helias, allusivo, riferendosi al loro passato.
In verità, non era Anwaar a sembrare sola. Era Lyle ad esserlo. Esattamente come il piccolo e sporco ladruncolo di strada che era un tempo: si sentiva solo. Vedere quei ragazzini abbandonati, simili a randagi da raccogliere dal ciglio della strada, era come trovare uno spirito affine che chiedeva soltanto di allacciarsi al suo. E soffrire meno insieme. Le persone tolleravano bene il dolore, se erano unite. Questa era una cosa che aveva scoperto molto bene, Lyle.
«Vieni via con me.» bisbigliò ad un certo punto Helias, battendo le ciglia contro la guancia morbida, leggere come il battito d'ali di una farfalla. «Lascia che sia io, stavolta, a tenderti la mano.» Guardò il bruno con due occhi imploranti, il viola che tempestava l'azzurro ghiaccio sembrava come lampeggiare.
Finalmente, dopo tutto quel tempo, qualcosa dentro Lyle si risvegliò. Dopo le violenze ripetute di Alaister, dopo le umiliazioni che si era costretto a subire da Sophia. Dopo ogni colpo di tosse e ogni macchia di sangue sul palmo della mano. Dopo ogni brutta frase che lui ed Helias si erano scambiati, come delle sferzate, degli schiaffi su quello che erano stati. Qualcosa si risvegliò... Ed era la speranza.
«Devo farti vedere una cosa.» fu l'unica risposta di Lyle, animato da una vivacità febbrile dentro agli occhi verdi. Senza aspettare che Helias replicasse, scattò in piedi e lo prese per mano, iniziando a camminare a tutta velocità verso gli alberi, con un sorriso che gli cresceva fra le guance. Quello che stava per fargli vedere...
«Dove stiamo andando?!» chiese il biondo, arrancandogli alle spalle.
Ma Lyle non rispose. Superarono cespugli di giacinti, rampicanti di bouganville e tende fatte di salici piangenti. Oltrepassarono laghi di ninfee, corbezzoli pieni di frutti rossi e alberi di magnolia fioriti. Finché ad un certo punto, in una radura nel bel mezzo del bosco, non si fermarono di fronte ad uno specchio tanto grande da poterli riflettere entrambi. Decorato da mosaici variopinti e spiraliformi, per un attimo sembrava solo un comunissimo specchio. Ma non era così.
«Le persone del Giardino passano tanto tempo qui.» spiegò, mentre Helias lo fissava con un'espressione interrogativa. «Davanti allo specchio dei desideri.» disse, sfiorando la cornice decorata con la punta delle dita. «Quando i defunti vogliono rivedere il loro ultimo desiderio, quello avvertito prima di morire.» A volte si trattava di dare l'ultimo saluto alle persone care. A volte di fare esperienze mai provate prima. La gente sollevava gli occhi e... Vedeva il desiderio.
«Sai cosa ho desiderato io?» Mentre cadeva in quel dirupo, con tutto il suo corpo e la sua mente, con intensità profonda, aveva desiderato... «Che tutti avessero il loro Lieto Fine.»
Poi, sfiorò la superficie riflettente con le dita ed entrambi videro.
❖ ❖ ❖
Buona parte di Skys Hollow era rasa al suolo.
Tegole di tetti verde smeraldo e rosso rubino luccicavano come pietre preziose per le strade piene di macerie e la stessa cupola d'oro del Teatro Reale, rovesciata all'insù e sotto al sole, assomigliava ad un guscio d'uovo col tuorlo esposto. Il Castello del Re che aveva terrorizzato il Continente Magico non esisteva più. Non ce n'era più traccia, quasi si fosse polverizzato al vento. Nemmeno l'altare di pietra delle esecuzioni, quello che stava proprio sulla piazza di fronte al palazzo, vicino al teatro, c'era ancora. Un altare dove erano morte così tante persone che non si potevano neanche contare. Dove era morto Yul.
Al suo posto, spaccando la pietra e spalancando la strada lastricata, era spuntato e cresciuto un immenso, imponente, mastodontico albero di sicomoro. I suoi rami si estendevano a perdita d'occhio, riempiti di così tante lucciole che ogni ramo era illuminato per la festa. La festa... No, una celebrazione.
La piazza era gremita dalla folla. Il suo centro era il cuore pulsante della festa, lì dove era focalizzata l'attenzione di tutti. Cittadini di Astrea assistevano, con gli occhi grandi e le espressioni allegre, minuscole fatine guizzavano fra la gente spargendo petali di fiore e polvere di stelle, mentre i bambini correvano e ridevano spensierati.
Seduto sulle radici dell'albero di sicomoro, ciondolava niente popò di meno che il Re dei Pirati, Ren Uruj, con una spiga di grano in bocca e l'aria di chi la sapeva molto, molto lunga, osservando la folla con gli occhi verde acqua. Da qualche parte vicino alla cupola d'oro del teatro, spaccata e adagiata lì, c'era Selim, coi ricci tenuti a bada da un turbante e una veste talmente raffinata che solo il Sultano di Costantinopoli avrebbe potuto portarla. Non mancava nemmeno Raven Kenneth, quello che un tempo era il Capitano delle guardie reali del castello di Skys Hollow, ad assistere a braccia incrociate e l'aria di chi non sapeva divertirsi nemmeno in quel frangente.
All'ombra dell'albero gigante era stato allestito un arco di legno, tutto decorato con grandi peonie bianche e cristalli che pulsavano di energia magica. Nei pressi, così diversi e così strani da vedere insieme, c'erano i celebranti: il vecchio saggio di Astrea, Deaglan, con la sua barba lunghissima e la sua veste cerimoniale; e Adrian Kavendish, il principe ereditario, tutto pomposo ed elegante.
E poi... C'eravamo noi. Proprio al centro della piazza, dove tutti guardavano col fiato sospeso e il batticuore. Rivolti ai celebranti e vestiti sontuosamente di bianco, con le facce sorridenti e gli occhi lucidi d'emozione. Eravamo in sei, in realtà.
Tre coppie. Sulla sinistra, Lyle incoronato di fiori bianchi, con una luce mai vista dentro agli occhi: allegria e felicità. Aveva il volto arrossato da quella felicità, come non l'aveva mai conosciuta in tutta la vita. Al suo fianco c'era un bellissimo ragazzo dalla carnagione dorata, i capelli di un caldo biondo cenere, occhi nocciola screziati di verde giada e un neo sensuale vicino al labbro. Si guardavano con una tale intensità che avrebbero potuto bruciare l'aria fra di loro.
Sulla destra, invece, c'era un principe dai capelli color caramello, il capo cinto da una coroncina d'oro e gli occhi grigi che osservavano con dolcezza l'uomo al suo fianco, un adone dalla pelle bronzea, scompigliati capelli corvini, occhi arancio lava e una cicatrice che correva dal labbro inferiore al mento. Anche con i vestiti eleganti, sembrava un buzzurro che non si sarebbe mai aspettato di trovarsi lì. Eppure c'era e la cosa, dalla sua espressione, doveva emozionarlo più di quanto pensasse.
La coppia al centro, invece, eravamo noi.
Yul era un sogno. Lo era sempre stato e lo era ancora di più, mentre cercava di nascondere tutta quella mole di sentimenti dietro ad un sorriso beffardo, con le fossette che gli puntellavano le guance e gli splendidi occhi blu che lampeggiavano come supernove. E accanto a lui c'ero anche io, con una corona di stelle e un sorriso che era grande come il mondo.
«C-cosa?! Cosa... diamine..?» boccheggiai, emergendo da quella visione e tenendomi aggrappato alla cornice dello specchio, senza fiato. Cosa avevo appena visto? Mi girai a guardare Lyle, che mi osservava con gli occhi sgranati, pieni di aspettativa, come se mi avesse appena svelato uno dei grandi segreti dell'universo.
Cercai di digerire l'assurdità a cui avevo appena assistito: Skys Hollow era in buona parte distrutta. Ma c'era la gente di Astrea, c'era la magia. E c'era il Re dei Pirati, quello che avevo abbandonato su un'isola deserta. C'era il Sultano di Costantinopoli, quello da cui ero fuggito senza lasciare traccia, dopo avergli ucciso la madre. C'era il principe, il figlio del nemico e mio fratello, al fianco del vecchio che mi aveva mandato verso una spedizione suicida nel regno dei morti.
E chi diavolo era il principe coi capelli rossicci e il belloccio al suo fianco? Chi era l'uomo che stava con Lyle?
E poi... Poi c'era Yul. Yul, che era davvero lui, al mio fianco. E sorrideva, con gli occhi blu pieni di vita e un amore ancora da offrire. Quello a cui avevo assistito sembrava a tutti gli effetti una specie di matrimonio. La testa mi girò così forte che dovetti sedermi, posando la schiena contro il tronco ruvido di un albero.
«E' solo una fantasia.» sussurrai alla fine, massaggiandomi le tempie. «L'hai detto tu. E' solo un desiderio.»
«No, no... Ma non capisci?!» Il bruno si inginocchiò al mio fianco, il tono che si alzava di un'ottava mentre mi indicava lo specchio, ansioso di farmi capire ciò che frullava nella sua testa. «Come posso avere un desiderio pieno di persone che non ho mai visto in vita mia?!»
Sentii la mascella cedere. Era vero. Lyle non aveva mai incontrato Ren Uruj, o Selim, o Adrian Kavendish e Raven Kenneth. Come poteva desiderare un lieto fine con qualcuno che non conosceva neppure? Non li aveva mai incontrati. Non dovevano essere contemplati nel suo desiderio. Ma c'erano e la loro presenza doveva pur significare qualcosa. Qualcosa...
«Mio Dio.» mormorai, sentendo il corpo tremare e il cuore cominciare a battere forte. Lyle lesse lo shock nei miei occhi e annuì lentamente, come se avesse compreso che stavo iniziando a realizzare quel qualcosa.
All'improvviso, ricordai ciò che avevo pensato anni prima, mentre ero incatenato e il carro prigionieri si avvicinava ad Ender. La consapevolezza giunse come un fulmine. L'unica speranza rimasta è sperare. Ma come potevo, se non c'era niente in cui farlo? Invece.
Invece mi sbagliavo, mentre guardavo Lyle e lui continuava ad annuire e a ridere, abbracciandomi.
Lyle, che mi aveva salvato dalla strada, da una vita senza futuro. Per merito suo, avevo visto ciò che dovevo vedere e, oh, adesso avevo un futuro. Tutti lo avevamo, e che futuro. Contemplai di nuovo le persone all'interno di quella visione e provai, come Lyle, un medesimo senso di speranza e completezza. Così era giusto.
Così era destinato e tutto, improvvisamente, era possibile ed inevitabile, come ogni miracolo.
«Penso che sia arrivato il tempo.» risposi infine, con così tanta meraviglia che le mie parole avevano il peso solenne del destino.
«Il tempo per cosa?» domandò il bruno, ebbro della mia gioia.
«Il tempo per sperare.» dissi, stringendolo a me, con così tanta forza da lasciargli un segno sulla pelle quando ci lasciammo e ci stendemmo di schiena sull'erba, a guardare il cielo albeggiante fra le fronde degli alberi.
Ogni volta che osavo sognare la felicità succedevano cose terribili. Ma io e Yul eravamo un destino fissato e due metà rese complete dal momento in cui avevamo posato gli occhi l'uno sull'altro. «Chi è quel ragazzo?» sussurrai alla fine verso il bruno, le teste a contatto e i nostri capelli che si fondevano in un incontro d'oro e cioccolato. «Quello che era con te nella visione.» Nella visione del futuro. Perché quello era il futuro. Nostro e di tutti quanti.
«Oh, lui. Si chiama Axel. Un altro cortigiano del bordello di Sophia. Avevo pensato per anni di essere invisibile, senza sapere che lui invece mi vedeva.» Si lasciò andare ad una risata liberatoria e triste e dolce. «Mi ha detto di amarmi. Ma ho dovuto lasciarlo andare. Mi ero rassegnato alla morte. E poi, ho passato così tanto tempo a fingere di essere qualcuno che non ero, che non so nemmeno da che punto iniziare ad amare qualcuno con sincerità...»
«Significa che lo scoprirai.» Tesi la mano per trovare la sua, stringendola sull'erba morbida. «Torneremo nel regno dei vivi. Lo troverai e, stavolta, non lo lascerai andare.» esclamai, con fermezza. Con profonda convinzione.
Mia madre, all'inizio di quel viaggio, mi aveva avvisato. "Tutti indossano una maschera. E tu non devi mai, mai fidarti delle maschere." Aveva ragione: Alaister aveva sempre indossato una maschera, senza mai svelare il suo inganno. Anche Lyle aveva portato sul viso la maschera di Lysandro, il Cortigiano perfido e frivolo. Ma, una volta caduti gli inganni, il destino si era dispiegato di fronte a noi lucente e reale.
Perciò io, in quel futuro, avevo scelto di sperarci.
❖ ❖ ❖
E finalmente Lyle seppe tutto.
Che ero il figlio del Re del Continente Magico e anche della principessa di Astrea. Che Astrea esisteva, che Ezra veniva da lì e che mi ero infilato in questa enorme disavventura per cercare una spada con cui avrei ucciso il Redivivo. Gli raccontai anche dei vari regni dell'Oltretomba e del fatto che avevo recuperato già due dei cinque frammenti che mi servivano.
«Come sei sopravvissuto fino ad ora!?» aveva chiesto, con gli occhi praticamente fuori dalle orbite, mentre io ed Ezra ci ingozzavamo di cibo che Anwaar aveva preparato. Diceva che si era specializzata in cucina perché non aveva mai niente di meglio da fare, anche se a nessuno del Giardino serviva veramente mangiare.
«Be'...» Avevo lanciato un'occhiata d'intesa ad Ezra, che aveva alzato gli occhi al cielo. «Così.» Girata una perlina del braccialetto che portavo al polso, scomparii dalla stanza, diventando invisibile. Lyle era scattato in piedi con un grido.
«Oh cielo! Rifallo, rifallo!» Saltava e batteva le mani come se non avesse visto niente di più strabiliante.
«Pensiamo a non sprecare i poteri, piuttosto.» mi bacchettò l'albino, sgranchendosi le spalle larghe mentre si sistemava una ciocca color mercurio dietro l'orecchio a punta. Tornai visibile. «E soprattutto, a trovare il nuovo frammento.»
«E' sempre così?» sussurrò Lyle, accennando con un colpetto del capo allo straeliano seduto al tavolo non troppo lontano da me.
«Sempre.» scandii, con un sorrisetto impudente.
«Guardate che vi sento!» si spazientì, mentre io e il brunetto ridevamo, divertiti. Passammo il resto della giornata a rifocillarci e a parlare della profezia. Seduti davanti al camino acceso, guardavo le fiamme contorcersi fra i ciocchi di legno. Accoccolato sul tappeto, ai piedi della poltroncina dove Lyle era sistemato, lasciavo che lui mi districasse gentilmente le ciocche con le dita.
«Quindi avete recuperato la "pelle del caos" e anche "la testa del buio".» rifletté lui, insistendo su un nodo che mi imbrogliava un boccolo. «E adesso?»
«Se andiamo in ordine, il verso recita "la piuma del capro strappare". Non so cosa voglia significare.» riflettei, socchiudendo gli occhi come un gatto nel sentire le dita sottili dell'altro scivolarmi fra le ciocche. Ricordavo quando, in una delle nostre numerose litigate, avevamo finito per strapparci i capelli a vicenda. Trattenni un risolino.
«Ma se non andiamo in ordine potrebbe anche essere "la mela dalle fiamme salvare" o "la maschera di sangue svelare".» fece presente Ezra, in piedi, che camminava per la stanza con una mano sul mento. Chissà se aveva visto, attraverso i miei occhi, quello che Lyle mi aveva mostrato. Non sembrava diverso dal solito, però. Si accorse che lo stavo fissando e si fermò di botto, stringendo appena le palpebre per concentrare il suo sguardo ametista dentro al mio. Deglutii, spostando velocemente gli occhi altrove.
Possiamo parlare? In privato?
Sentii la sua voce arrivarmi nella mente. Prima che potessi formulare una risposta, Lyle sbatté una mano sul bracciolo della poltroncina, facendomi sobbalzare.
«Ma certo! La mela dell'Eden!» sembrò ricordare. «Oh, sarà problematico, però.»
«Non possiamo andare nella terra dei Jinn, Lyle...» rispose Anwaar, agitando il caschetto nero mentre si appoggiava alla spalliera della poltrona dove il bruno sedeva.
«Infatti. Noi andremo. Tu resterai qui! Sei troppo piccola per fare cose simili!» Mentre loro bisticciavano e la dodicenne insisteva per aggiungersi alla missione, Ezra continuava ad osservarmi, lo sguardo penetrante e fisso mentre lo scrutavo con la coda dell'occhio.
«Che cos'è questa terra dei Jinn? Come ci arriviamo?» mi affrettai a chiedere, fingendo nonchalance.
«Basterà prendere la funivia...»
La funivia in questione era un complesso sistema di carrucole a forma di ghiande giganti che venivano trasportate, attraverso liane e viticci in grado di muoversi per magia, in un sentiero che saliva verso l'alto. Lyle ci aveva spiegato che la nostra destinazione era tanto pericolosa da non essere accessibile alla gente del Giardino. Attraverso la funivia, però, si poteva arrivare abbastanza vicino da tentare l'intentabile.
La ghianda gigante era cava, capiente abbastanza da ospitare solo due persone. Lyle scelse di salire sulla ghianda prima della nostra, lasciando a me ed Ezra un posto da soli. Seduti l'uno di fronte all'altro, così vicini che le nostre ginocchia si toccavano, lo straeliano mi guardava con la fronte corrugata e le braccia incrociate.
«Hai intenzione di portarlo con noi.» Fece una pausa ma, notando che non rispondevo, continuò. «Lo sai che è una pessima idea, vero?»
«Perché? Cos'ha che non va Lyle? Ci sta portando dritti verso il terzo frammento.» rimbrottai.
«Ti basta la visione di un ipotetico futuro per decidere di assumerci nuovi rischi?» snocciolò, molto lentamente. Irrigidii la mascella. Quindi aveva visto anche lui. «Ricordi la visione che tu hai visto per sbaglio? Quella in cui il Re ti uccideva? Quel futuro era solo una fra le tante possibilità. E l'abbiamo scongiurato. Ciò significa che ci sono minuscole probabilità che quello che hai guardato si avveri.»
Il mio sguardo si fece torvo. Perché doveva affossare così le mie speranze? Non dissi una parola. Mi limitai a scrutare stoicamente fuori dalla ghianda, ammirando il paesaggio fiorito del Giardino dall'alto.
«Parliamoci sinceramente. Lui non ha le tue capacità di combattimento. E nemmeno i miei poteri. Ad un certo punto sarà un peso e se arriverà il pericolo, tu dovrai scegliere chi salvare fra me e lui. Sei pronto perché questo si verifichi?» riprese.
«Vi proteggerò entrambi.» sibilai, stringendo i pugni.
«Non sei invincibile. Anzi, sei un combinaguai.»
Sbuffai. «Voi però non siete due incapaci. Proteggetevi a vicenda così sarà più facile per me salvaguardarvi.» insistetti. Emise un verso spazientito e, allungando un braccio, mi afferrò per il polso: uno strattone e mi ritrovai sulle sue ginocchia, senza ribellarmi, benché avessi un'espressione ancora corrucciata.
«Helias... Non capisci che non voglio che falliamo questa missione?» sfiatò, curvato sul mio viso, prima di sospirare e correggersi. «Che non voglio farti correre rischi? Che non voglio che ti accada nulla di brutto?» Appoggiò una mano sulla mia guancia: i suoi occhi ametista splendevano in maniera innaturale, per una persona normale. Ma lui non lo era affatto.
«Starò attento. Anche nelle situazioni peggiori me la cavo sempre.» Certo, molte volte ero stato salvato, molte altre avevo finito per essere tramortito, rapito e rinchiuso. Ma non mi arrendevo mai. Ero stato molto vicino all'arresa soltanto ad Ender.
«Cosa devo fare con te?» mormorò, appoggiando la fronte contro la mia. Le sue labbra erano così vicine che sentivo l'odore piacevole del suo fiato, miscelato al suo profumo di pino e frutti di bosco selvatici. Una parte di me, quella che si sentiva unito ad Astrea e ai racconti di mia madre, avvertiva una naturale attrazione nei suoi confronti.
Ecco perché per un attimo rimasi immobile, mentre il suo viso cesellato, dai tratti affilati, si avvicinava a me. I nasi si sfiorarono, le bocche abbastanza vicine da immaginarne la morbidezza e il tocco umido delle lingue che si incontravano... Ma virai la faccia di lato, offrendogli la guancia e negandogli le labbra.
«Non posso. Non posso più farlo.» Mi morsi l'interno della guancia. «L'ho già tradito abbastanza...» esalai, scendendo dalle sue gambe. La ghianda, mentre si spostava sulla fune, oscillò per via del movimento improvviso, ma riuscii a tornare senza intoppi al mio posto sotto al suo sguardo arrabbiato e ferito.
«Non mi sembrava ti importasse quando eravamo in mare e facevi di tutto per sedurmi.» mi ricordò, con un tono tanto gelido che mi spinse subito sulla difensiva. «Io davvero non ti capisco.»
«Nemmeno io. Prima mi disprezzi e mi tratti come se fossi un tipo promiscuo che apre le gambe davanti a chiunque, poi mi vuoi e ti arrabbi se cerco di fare la cosa giusta!»
«La cosa giusta!» Ezra emise una risata sprezzante. «Sono passati due anni. Potrebbe averti dimenticato.» Schioccò la lingua contro il palato. «Ma va bene. Consideriamo pure l'improbabile ipotesi che vi ritroviate. Pensi che riuscirà ad accettare il fatto che non sei umano? Che sei diverso da lui?» Restai a bocca aperta, mentre lui mi osservava con uno sguardo crudo e impietoso. «Io sono come te, Helias. Qualsiasi uomo troverai ad aspettarti... Non potrà capire. Non come lo faccio io.»
«Non è vero. Non sai di cosa stai parlando.» esclamai, a denti stretti. Yul mi avrebbe amato in ogni caso. Anche Lyle aveva accettato la realtà; sì, conosceva gli oscuri retroscena fra il Re e Alaister, forse era preparato per quella verità. Ma Yul mi aveva sempre amato per quello che ero... Qualsiasi cosa fossi.
«Il peso di questa missione. Il bisogno di uccidere il Redivivo, il legame che senti con Astrea, con tua madre... Io sono parte di questo. Non l'uomo per cui stai cercando di fare la cosa giusta.» apostrofò le ultime due parole in modo tagliente, prima di ricadere nel suo mutismo.
Scossi la testa. «Lo dici solo perché sei geloso. Perché credi ancora che io e te siamo destinati a stare insieme.» Ma non era così. Credevo in ciò che Lyle mi aveva mostrato. E, adesso che ci facevo caso, Ezra in quella visione non c'era affatto.
Si alzò in piedi, così in fretta che la ghianda dondolò bruscamente, poggiando le mani contro la parete sopra la mia testa, sovrastandomi. Alzai il capo per affrontare il suo sguardo, con ostinazione. Pareva arrabbiato, ma qualsiasi cosa avesse voluto dirmi, venne stroncata sul nascere: la funivia si fermò. Eravamo arrivati a destinazione.
Fui il primo a precipitarsi fuori, le babbucce che Lyle mi aveva dato contro l'erba e pantaloni larghi di lino che filtravano l'aria mite. Mentre Ezra usciva alle mie spalle, Lyle accorse verso di me. «La fine di Janna e l'inizio di Jahannam.» Il brunetto indicò un punto di fronte a noi, mentre ci fermavamo al suo fianco.
Il colle fiorito che si estendeva davanti a noi non era infinito: ad un certo punto si fermava, aprendosi in uno strapiombo oltre cui non c'era più nulla, o almeno così credevo. Quando alzai il capo verso il cielo, notai il principio di un mondo completamente capovolto. Terra, sterpaglie e alberi all'ingiù, appesi come dei lampadari.
«Accidenti.» esclamai, ruotando la testa per guardare meglio.
«E' il mondo dove finiscono gli esiliati dal Giardino. Dopo un po' di tempo si trasformano in mostri... I Jinn. Ecco come facciamo a guadagnarci le anime, qui: quando cercano di tornare nel Giardino noi li uccidiamo.» Storse le labbra. «Certo, nessuno è mai andato nel loro territorio. Sarebbe una pazzia.»
«Io sono pazzo abbastanza.» Gli mostrai un sorriso d'incoraggiamento, notando che stava tremando. Di solito io ero quello che si tuffava a capofitto nei guai: lui aveva sempre condotto uno stile di vita mondano. Il fatto che fosse disposto a seguirmi rendeva chiaro quanto fosse cambiato.
«Ma come ci arriviamo lassù?» chiese Ezra.
Lyle si fece ancora più irrequieto, se possibile, indicando il vuoto oltre lo strapiombo fiorito. «Ci buttiamo.» Lo straeliano gli restituì uno sguardo nervoso. «Ad un certo punto la forza di gravità si inverte e ci ritroveremo lassù. Tranquilli, l'ho già visto succedere.»
«Dai. Non sarà la prima volta che saltiamo nel vuoto.» Diedi un colpetto col gomito all'albino al mio fianco, che schioccò la lingua.
«In tutti i casi potevamo volare. Ma li abbiamo finiti, i cristalli che ce lo permettevano.» borbottò. Alzai gli occhi al cielo.
«Be', io mi butto.» tagliai corto, chiudendo gli occhi e lasciandomi affondare nel vuoto.
Niente mi avrebbe fermato dal mio obiettivo: prendere quel frammento, lasciare il regno, arrivare al prossimo e cercare Yul. Avevo spesso il timore di averlo lasciato indietro: se fosse stato nella Duat e io non fossi riuscito a trovarlo? E se fosse stato in qualche altra parte dell'Ade dove io non ero arrivato? Ignoravo quelle preoccupazioni. Sentivo che erano errate. Sentivo che a Yul dovevo ancora arrivarci.
Zittiti i pensieri, mi resi conto che la gravità ancora non si era invertita. Il vuoto si spalancava come un abisso azzurro sotto di me. Proprio quando ponderai l'idea di cominciare ad urlare, una forza invisibile mi trascinò all'indietro. All'improvviso, stavo cadendo dal senso inverso e la terra si avvicinava. Atterrai di schiena con un tonfo sonoro. Quando mi drizzai in piedi e alzai la testa, notai il Giardino. Ezra e Lyle mi osservavano a testa in giù, il primo arrabbiato per la mia impulsività, il secondo sempre più preoccupato. Mi seguirono a ruota e ben presto li ritrovai al mio fianco. La prima cosa che facemmo fu renderci invisibili: tenendo Lyle per mano, il potere si estese anche su di lui.
«Adesso che facciamo?» sussurrai, guardandomi intorno.
Se Janna era fatta di prati sconfinati, alberi da frutto e cespugli fioriti, Jahannam era un'infinita distesa di terra arida, talmente secca che si spaccava in profonde crepe da cui spuntavano rovi e sterpaglie secche. Avevo l'impressione che al loro interno strisciasse qualcosa. Inoltre, alberi spogli e contorti si affastellavano all'orizzonte, distanti l'uno dall'altro, non abbastanza da creare un bosco e una copertura dove camminare non visti. L'invisibilità era assolutamente preziosa, in quel momento.
«Qui da qualche parte deve esserci l'albero dell'Eden.» bisbigliò Lyle. «E' solo una leggenda, ma si dice che abbia un unico frutto. La mela del peccato. Un singolo morso ed è in grado di dare un potere inimmaginabile. O almeno così si racconta.»
Ci riflettei per qualche secondo. I frammenti della spada trovati sino ad ora erano sempre legati a situazioni di potere: il primo era la pelle di un serpente gigante e per sconfiggerlo avevo dovuto letteralmente esplodere; il secondo era un oggetto magico di proprietà di un invincibile Signore dell'Oltretomba. Anche il terzo si prospettava particolare. Ma era ovvio. I frammenti erano pezzi d'ossa degli straeliani divorati nei secoli dal Redivivo. Contenevano tutta la potenza del loro odio. Ecco perché era un'impresa difficile prenderli.
«Okay. Troviamo questa mela.» mormorai, stringendo forte le loro mani, avvertendo a sinistra le grandi dita di Ezra e a destra quelle morbide e curate di Lyle.
Dopo minuti interminabili di ricerca, mi resi effettivamente conto di quanto facesse caldo: più del Deserto Rosso, più del Regno del Caos. Ma non era un caldo umido. Era secco e asciutto, quel genere di calura che ti prosciugava fino all'osso. Lyle stava rallentando, avevo iniziato a trascinarmelo dietro. Notai però che non c'erano fiamme da nessuna parte. "La mela dalle fiamme salvare", diceva il verso della profezia. Forse stavamo sbagliando strada?
«Lo vedete anche voi? Alla vostra destra, in fondo!» sussurrò l'albino, mentre giravamo la faccia in quella direzione. Un grosso albero nodoso, con la corteccia scolpita da volti urlanti - quasi quelle facce fossero rimaste intrappolate dentro all'arbusto - estendeva i suoi rami contorti verso l'alto. Da uno di essi penzolava una mela rossa e lucente.
«Sembra troppo facile...» sussurrò Lyle, mentre ci avvicinavamo.
«Prendetevi per mano e restate invisibili. Vado a prenderla.» ordinai, ormai a pochi metri. Proseguii a passi felpati, guardandomi intorno con circospezione, pur arrivando alle radici dell'albero senza incontrare intoppi.
La mela era troppo in alto perché riuscissi ad arrivarci, per cui dovetti iniziare ad arrampicarmi sui rami per raggiungerla. Toccai la corteccia e gli appigli ruvidi con cautela, ma non successe niente. Col cuore che batteva forte, allungai una mano verso il frutto succoso: proprio quando fui sul punto di toccarlo, il ramo si ritrasse, sollevandosi più in alto di qualche centimetro. Tentai di nuovo, salendo un poco, in equilibrio precario. Tesi le dita e la mela si sollevò in alto, ancora, allontanandosi.
«Oh, andiamo!» sbuffai, iniziando ad inseguire il ramo da cui penzolava il frutto, che ogni volta che io mi avvicinavo si distanziava, facendosi di diversi centimetri più su. Senza rendermene conto ero salito così tanto che fra me e il suolo c'erano una decina di metri. Così capii che non ero solo io o il ramo a salire. Era tutto l'albero. Avvertii un martellante senso d'allarme, ma non mi azzardavo a scendere: non fin quando non ottenevo quello che volevo.
L'albero sta andando troppo in alto, Helias. Scendi!
Mi avvisò Ezra, trovando quella situazione allarmante. Non gli risposi, sentendo un inevitabile richiamo verso quella mela. Tesi il braccio, stringendo i denti per lo sforzo, ma quel dannato frutto si sollevò ad un soffio dalle mie dita. Continuai a salire e salire, finché non iniziai a sentire un caldo così asfissiante da farmi mancare l'aria.
L'albero aveva oltrepassato le nuvole e non riuscivo più a vedere la terra sotto di me. C'era solo un calore infernale e i rami più in alto stavano iniziando a prendere fuoco. Mentre io sudavo copiosamente, la mela aveva iniziato a fumare e sfrigolare. "La mela dalle fiamme salvare"... Ah, ecco in che senso.
Cercai di scendere più in basso, solo per poter allontanarmi dall'aria rovente, ma mi resi conto di non potermi muovere. Dalle bocche dei volti scolpiti nelle cortecce erano fuoriuscite delle liane simili a lingue che mi si erano avvinghiate intorno alle caviglie. «Cazzo cazzo cazzo!» mi divincolai, mentre l'albero continuava a salire verso il sole.
In panico, mi sforzai di pensare ad un'idea. Cosa contrasta il calore? Il freddo. Il ghiaccio.
Immediatamente, ruotai il cristallo del braccialetto al polso e il ghiaccio si diffuse dalle mie mani in una scia scintillante che proseguì fino alla mela. Quella si congelò in una sfera gelata, tanto pesante che si staccò da sola dal suo ramo. E iniziò a cadere, lontana dalla mia traiettoria.
Estrassi dal passante dei pantaloni l'unica arma che avevo - un coltello da frutta - e pugnalai con ferocia le liane che mi trattenevano all'albero, ignorando la materia viscosa e nerastra che mi macchiò le dita. Senza esitazione mi lanciai nel vuoto, a caccia della mela, che precipitava verso il basso come una stella cadente. Allungai la mano, ma ero troppo lontano: non avrei mai fatto in tempo. Si sarebbe spiaccicata al suolo.
E io mi sarei spiaccicato subito dopo, visto che avevo esaurito i cristalli del volo.
Dì a Lyle di prendere la mela. Tu invece prenderai me. Mi fido di te, Ezra.
Mentre cadevo, tornai visibile così che potessero notarmi. Pochi istanti dopo, anche Lyle fu visibile: si era separato da Ezra, che invece teneva ancora il potere attivo, per poter prendere la mela al volo. Quanto al mio guardiano, non riuscivo a capire dov'era. Stavo solo cadendo verso il basso e avevo l'impressione che la mia vita dipendesse da lui, ancora una volta.
Non lasciarmi morire.
Ansimai, un singulto mentale mentre chiudevo gli occhi per non vedere la terra che si avvicinava alla mia faccia, a pochi metri. Fortunatamente, un paio di braccia mi afferrarono al volo, cingendomi forte. Il contatto con la pelle invisibile di Ezra mi fece diventare trasparente come lui, perciò non potei vedere la sua espressione mentre mi diceva: «Non ti lascerei mai morire.»
«Ehm, ragazzi?» Lyle si guardò attorno, non vedendoci. «Ho la mela!» Sventolò la sfera rossa e congelata dentro al suo palmo. Balzai verso di lui.
«Dammela!» esclamai, con una certa urgenza, spaventato da quello che avrebbe potuto accadere. E infatti, non appena toccai il frutto e quello si trasformò in una scheggia d'osso che mi conficcò la mano - con un dolore tremendo, come se mi avessero appena pugnalato il palmo con una lama rovente - esseri orrendi schizzarono fuori dalle sterpaglie.
Mostruosità dalla pelle rossa, blu o nera ci furono addosso, circondandoci da ogni parte. Ezra tornò visible e tese le mani davanti a sé, generando una fiammata che ci aprì la strada per la fuga. «Muoviamoci!» urlò.
Presi Lyle per mano e, col coltello teso a scagliare fendenti davanti a me, iniziai a correre, mentre l'albino continuava a menare lingue di fuoco intorno a noi, scacciando le creature che ci si lanciavano addosso. In pochi istanti raggiungemmo il ciglio del burrone che separava quel mondo di siccità dal Giardino e, afferrandoli entrambi per le spalle, ci spinsi tutti e tre nel vuoto.
«Funziona anche all'inverso, vero?» urlai sopra al fischio del vento, riferendomi all'inversione di gravità. Lyle mi lanciò un'occhiata terrorizzata che mi fece intuire che non ne aveva idea e si mise ad urlare. I mostri si fermarono sul ciglio del baratro a guardarci con smorfie grottesche ma non ci seguirono.
Forse perché eravamo diretti verso morte certa.
Fui investito da un sollievo enorme quando la gravità si invertì e i nostri corpi toccarono l'erba fresca di Janna. Per un attimo nessuno disse niente: riprendemmo fiato e la lucidità per renderci conto che eravamo salvi. Poi Lyle esordì: «Allora è così che ci si sente ad andare all'avventura...» Emise una risatina nervosa. «Spaventati a morte.»
«Già.» brontolò Ezra, con un tono seccato, come se fosse sempre tutta colpa mia. In effetti... Mi limitai a ridere, stordito dal sollievo.
❖ ❖ ❖
«Perché non posso venire con voi?!» ululò Anwaar, tremando dalla testa ai piedi mentre agitava i pugnetti. «Ly, non mi puoi abbandonare! Ti prego!» Aveva gli occhi pieni di lacrime e, per un attimo, mi sentii colpevole. «E' colpa vostra!» strepitò la ragazzina, come se mi avesse letto nella mente. «Siete voi che me lo state portando via!»
Strizzai le labbra in una smorfia, evitando di rispondere. Lasciai che Lyle la attirasse poco lontano da noi per parlarle con dolcezza, mentre io controllavo ancora una volta gli zaini insieme ad Ezra. «Cibo ce n'è a sufficienza?»
«Mh-mh.» assicurai.
«Che armi abbiamo?» domandò l'albino, scompigliandosi con una manata le ciocche d'argento lunghe fino al mento.
«Coltelli da cucina. Un batticarne. E, oh, forbicine.» risposi, controllando nelle sacche mentre lui alzava un sopracciglio. «Che c'è? Non sai quanti occhi ho cavato con delle semplici forbicine.»
Sospirò con esasperazione, mentre mi aiutava a sistemare il mantello nero sopra alla testa. Sotto avevo abiti puliti di lino bianco, una tunica arabeggiante, pantaloni larghi con una coulisse da stringere in vita e babbucce verdi. Ezrael era vestito come me, anche lui con un mantello tirato fin sopra la testa, così come Lyle.
Ci trovavamo davanti al grande Cancello dell'Eden, che assomigliava più all'imponente doppia porta posta all'ingresso di una magione nobiliare. Bianca, di legno massiccio lavorata con stucchi d'oro, era piantata in mezzo al bosco e si reggeva senza essere attaccata ad alcun edificio. Se ci giravo attorno c'erano solo alberi, perciò il fulcro era riuscire ad aprire i battenti.
Lanciai un'occhiata a Lyle, facendogli un cenno del capo: eravamo pronti ad andare. Depositò un bacio sulla fronte della bambina e si avvicinò. «Sei ancora sicuro di voler venire?» domandai, guardando la ragazzina con una stretta al cuore.
«Assolutamente.» confermò, sollevando la lanternina di ferro battuto dentro cui si vedevano guizzare i bagliori luminosi delle anime. Era il corrispettivo del cappello di Osiride e dell'anfora di creta, un altro contenitore magico per anime. Era affascinante rendersi conto quanto cambiassero a seconda del Regno dell'Oltretomba.
«Ne sono felice.» Sorrisi, aprendo lo sportellino della lanterna, che sussultò quando le anime si riversarono fuori, simili a lucciole grosse quanto un palmo di mano, che guizzarono nella toppa della porta ancora chiusa. Poi afferrai le maniglie e spinsi. L'uscio si spalancò.
«Incredibile...» sussurrò l'ex-cortigiano. Di fronte a noi, il varco ondeggiante e sfocato di un nuovo mondo ci attendeva. Riuscivo a malapena ad intravedere un cielo rosso tramonto e il luccichio dell'acqua.
«Stavolta non resterà indietro nessuno.» dissi, con determinazione, al centro fra Ezra e Lyle. Li presi entrambi per mano, lanciando un ultimo sguardo verso il brunetto, i cui occhi di smeraldo scintillavano. «Stavolta saremo insieme.» E quel destino che avevo visto si sarebbe avverato, prima o poi.
Pregai intensamente che Lyle riuscisse a superare il varco, anche se significava abbandonare il Regno dell'Oltretomba dove si era risvegliato. Pregai che funzionasse, pregai che per una volta la speranza servisse a qualcosa.
Poi, oltrepassammo le porte.
❖ ❖ ❖
*NDA - L'angolo di un'autrice alquanto elettrizzata*
Hola a tutti!
Ho tante cose da dire in questo spazietto, stavolta. Primo, ho finito la revisione di Sfavillo, cosa che mi rende molto soddisfatta di me stessa. Secondo, non so chi se n'è accorto, perché per farlo bisogna aver letto altre mie storie, ma in questo capitolo c'è un easter egg sui personaggi principali di un'altra mia storia che, prima o poi, faranno la loro comparsa *ghigno* perché è sempre stato quello il loro futuro, ma io rivelo le cose poco a poco, meheheh. Terzo, i prossimi due capitoli saranno molto molto importanti... Perciò potrei aggiornare in tempi davvero brevi. Sono elettrizzata, eccome se lo sono! Quarto, Lyle è tornato dei nostri, io sono felice, voi? Insomma, spero che il capitolo vi sia piaciuto <3
Alla prossima (cioè presto!) ~
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