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31. L'Assassino e il Cortigiano

«Dai grandi tradimenti hanno inizio i grandi rinnovamenti.»
- Vasilij Rozanov

Quando l'abisso si richiuse sopra le nostre teste, i tentacoli d'oscurità mi lasciarono cadere in un pozzo di buio senza fine. Ezra rispettò la promessa di non separarsi da me: precipitando, mani nelle mani, respiri ansimanti all'unisono, occhi sgranati, labbra spalancate in un grido, mi tirò contro il proprio petto e mi avvolse fra le braccia. In quel preciso istante, mentre spalle e volto venivano protette dal suo corpo, ricordai che aveva fatto la stessa cosa già una volta.

Stavamo sul ciglio di un burrone che affacciava verso morte certa, mentre le guardie di Ender coi loro segugi ci mettevano all'angolo. Pur di scampare a quella sorte, mi aveva afferrato ed eravamo caduti. Era solo grazie a lui se ero ancora vivo. In molti modi. Mi aveva salvato da Ender. Mi aveva salvato da un destino che mi avrebbe portato a morire per mano del Re. Mi aveva aperto le porte di Astrea, lasciandomi respirare la magia di quel luogo tanto narrato da mia madre, quando ero piccolo.

Nonostante gli sbagli che aveva compiuto nei miei confronti, ormai mi fidavo completamente di lui. Perciò gli circondai il torace con le braccia e cercai di proteggerlo a mia volta, traendo coraggio da quella stretta, tenendo a bada la paura dell'ignoto che ci aspettava.

Intorno a noi era tutto buio. Un buio così fitto e claustrofobico che per un momento temetti di essere diventato cieco. Dove poteva averci fatto piombare, Ade? Quanto ancora dovevamo combattere? Capii l'orrore che ci aspettava quando, fra le tenebre, distinsi il bagliore arancio che fumava e alzava scintille e scoppiettii.

«Lava, LAVA, LAVA!» urlai, perché il fiume lavico era l'unica traccia di luce nell'oscurità. E noi stavamo cadendo proprio in quella direzione, verso il liquido ribollente che scorreva a pochi metri e si avvicinava velocissimo.

Il corpo di Ezra dirottò su un lato della riva, volando grazie ai cristalli che gli erano ancora rimasti e subito atterrando su una sponda avvinta dalle tenebre con un grugnito di dolore. Steso sopra lo straeliano, a malapena mi ero reso conto che il terreno sotto di lui era ricoperto di spine, che gli scavavano dolorosamente nella pelle. Velocemente lo liberai dal mio peso, porgendogli la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi.

«Stai bene?»

«Fa un caldo infernale...» ansimò in risposta, tirandomi lontano dalla riva del fiume, come aspettandosi che avremmo preso fuoco da un momento all'altro. «Dove siamo?»

Feci mente locale, cercando di ricordare le indicazioni sulla mappa che mi aveva dato Morfeo. «Questo è il Flegetonte. Quindi siamo...» Sgranai gli occhi. «Siamo nell'Erebo!» esclamai, scioccato. In realtà, era esattamente la nostra meta, dopo il furto dell'elmo di Ade. Finalmente un colpo di fortuna, o c'era un altro motivo se eravamo arrivati dritti dritti lì?

In quel momento mi ricordai che ero effettivamente riuscito a rubare un altro frammento di spada e mi guardai la mano, benché ci fosse ben poco da vedere, con quel buio. L'adrenalina era svampata e adesso riuscivo a percepire con malsana intensità quanto male mi facesse il palmo, come se quella scheggia d'osso mi avesse aperto un buco nella carne. Invece, sentivo che la pelle era integra e liscia.

«Helias...» sussurrò Ezra, piano, con un tono calmo che tradiva una nota d'allarme che mi fece irrigidire. Mi colpì appena un braccio con la mano e il bagliore del fiume di lava a malapena illuminò la punta del suo dito, che indicava qualcosa di fronte a noi, dall'altro lato della sponda. Affilai lo sguardo per distinguere qualcosa in mezzo al tenebrore. E così li vidi.

Tre paia di occhi brillavano rossi e meschini. L'oscurità che li circondava sembrava farli galleggiare nel vuoto. Lo sguardo astioso che ci rivolsero mi colpì per quanto fosse gigantesco. Astio. Scintillante, velenosa malevolenza.

Come se il buio fosse vivo e sapesse che avevo notato quegli sguardi, la scena intorno a noi iniziò debolmente a rischiararsi, il Flegetonte a brillare di fuoco con più forza. Finalmente fui in grado di vedere meglio di chi o cosa si trattasse. Tre vecchie megere stavano acquattate dentro a piccoli troni di roccia, avvolte da palandrane nere, spaventose come le streghe di qualsiasi fiaba che finiva male. Quella sulla destra e quella sulla sinistra stringevano i manici di una gigantesca forbice, mentre la signora al centro, la più giovane, la dirottava verso la giusta direzione.

Le lame delle forbici erano spalancate e aperte intorno a noi, come due cesoie che aspettavano soltanto di chiudersi e tranciarci in due. Non le avevo notate fino ad ora: adesso, il metallo scintillava ai bagliori della lava, diventando incandescente.

Percepita la minaccia, Ezra mi spinse dietro di sé, i nostri corpi attaccati per guadagnare quanto più spazio possibile lontano dalle lame delle forbici giganti. Sentivo che, anche volando, si sarebbero spostate e ci avrebbero seguito. Non era affatto un caso se eravamo atterrati proprio lì. Ecco perché Ade ci aveva scagliato proprio nell'Erebo. Qualcuno ci aspettava. Qualcuno ci avrebbe giudicato. Qualcuno ce l'avrebbe fatta pagare.

E non qualcuno a caso, ma le stesse creature che dovevamo convincere per passare al prossimo Regno dell'Oltretomba: le Parche. "Possono recidere la tua vita, se lo vogliono" mi aveva spiegato Morfeo, per farmi capire di non sottovalutarle anche se erano delle vecchie. Mentre mangiavo muffin al cioccolato e bevevo miele liquido, avevo stupidamente pensato che fosse un eufemismo. Invece potevano tagliarmi letteralmente in due parti, come si taglia lo stelo di un fiore.

E, visti i loro sguardi privi di pietà alcuna, immaginai che lo avrebbero fatto senza remore. Un brivido violento mi scosse dalla testa ai piedi, quando incominciarono a parlare, con delle voci talmente spettrali che parevano il sospiro marcescente di un cadavere.

«L'uomo che ha avuto il coraggio di derubare il nostro Signore.» esordì quella sulla destra. «L'uomo che ha avuto l'ardire di minacciare la nostra Signora.» continuò quella al centro. «Gli uomini che ora pagheranno il prezzo della loro stoltezza.»

Tremai dentro ai miei sandali, cercando velocemente di elaborare una via d'uscita. Come potevamo salvarci da una situazione sembrava non avere scappatoie? Pensa, mi dissi. Rifletti, mi impuntai. «Ridateci ciò che avete sottratto e morirete velocemente.» parlarono in coro. La scheggia d'osso dentro alla mia mano parve pulsare dolorosamente, quasi si sentisse chiamata in causa. Se anche avessi rinunciato a ciò che avevo rubato, come facevo a restituire qualcosa che mi era entrato dentro? Chissà se poteva ritornare alla sua forma originaria?

«Non posso.» risposi, uscendo da dietro alla schiena di Ezrael per affrontarle, faccia a faccia. Avevo la sensazione che mentire avrebbe portato a risvolti ben peggiori, sebbene l'uomo alle mie spalle si fosse irrigidito e mi stringesse un braccio. Non era d'accordo nel dire la verità. «Non si può tornare indietro. Quello che ho fatto è stato irreversibile.» Tutti e sei gli occhi, rossi e sfavillanti, che promettevano orrori indicibili, continuarono a fissarmi. «Ma se ho scelto di farlo, non era per arrecare un oltraggio al vostro Signore.»

Il mondo era in equilibrio sul filo di un rasoio e sentivo che sarebbe presto precipitato, mentre le lame della forbice si chiudevano leggermente, accorciando lo spazio intorno a noi. Non mi credevano. «Il ladro non è un ladro, forse?»

Deglutii. «Non esattamente. Quello che ho preso» e non rubato, la mia era una scelta di parole oculata «apparteneva al regno dei vivi, non a quello dei morti. Non era destino che fosse nelle mani di Ade. Perciò non ho sottratto qualcosa direttamente a lui.» spiegai, cercando di tenere a freno il tremore nelle ginocchia, mentre le vecchie megere assetate di sangue mi guardavano come un maialino da mandare al macero.

«Sta dicendo la verità.» gracchiò la donna al centro.

«Le verità di un ladro sono paragonabili alle menzogne.» canzonò la più mostruosa delle tre.

«Ha comunque portato il caos negli Elisi. Non può continuare a vivere impunito nelle terre del nostro Signore.» fece l'ultima alle altre, la più vecchia. Sentii la mano di Ezrael rinvigorire la presa intorno al mio braccio, strattonandomi leggermente. Intuivo cosa pensava: stavo giocando col fuoco. Ma non avevamo scelta, arrivati a questo punto. Le opzioni erano morire o... Implorare.

Lanciare contro di loro una fiammata, oppure trasformarle in statue di ghiaccio? No. Non era un'opzione. Non se era da loro che dipendeva il nostro viaggio verso il prossimo Regno dell'Aldilà.

«Ma noi non vogliamo vivere negli Elisi, nell'Ade o nel Tartaro!» mi affrettai quindi a rispondere, addentrandomi in quel sentiero pericoloso, che avrebbe potuto portarci alla morte, oppure... «Permetteteci di andarcene da qui. Di abbandonare per sempre questo Regno. Prometto che non torneremo mai più a disturbare il vostro Signore, la sua consorte, i suoi sudditi o voi. Lo giuro sul mio nome.» I loro occhi antichi ed inquietanti soppesarono la mia proposta, senza muoversi. Non avevo mai preso in considerazione l'idea di implorare. Genuflettersi davanti a qualcuno, umiliarsi, pregare... Non era proprio una cosa da me. Ma questo era un caso diverso.

Adesso ripensavo alle persone che amavo. A mia madre, che mi diceva che Yul era lì da qualche parte. E a Lui, che forse mi stava aspettando, come io aspettavo lui sin dal momento in cui l'avevo perduto. Per sempre, credevo, ma mi sbagliavo. Perciò, se dovevo implorare per riuscire a raggiungerlo, al diavolo tutto. L'avrei fatto.

Mi inginocchiai, con le gambe che venivano puntellate da ogni singola spina. Le lame della mastodontica forbice erano arrivate all'altezza del collo. Un semplice zac e mi sarebbe saltata via la testa. «Vi prego. Fateci andare.» pregai e fui sollevato quando Ezra imitò i miei gesti e si inginocchiò nel piccolo spazio accanto a me, la testa bassa, in un gesto di quieta sottomissione.

«Tutto ha un prezzo. Se vuoi che ti concediamo di andare, devi pagarlo.»

Sentii un flebile accenno di speranza accendersi come un fiammifero dentro di me. Alzai la testa. «Ho tante anime.» Indicai l'anfora che Ezra ancora indossava a tracolla.

Una delle tre megere rise, un tintinnio raschiato, simile ad una forchetta che striscia su un piatto. «Quello è il prezzo per aprire il portale. Noi vogliamo qualcos'altro.»

«Non ho nient'altro da offrire.» sussurrai. Cosa potevano volere, da me?

«Forse potremmo avere le tue mani, tanto abili a mietere morte.» sogghignò quella al centro, facendomi ghiacciare il sangue nelle vene.

«O forse i tuoi occhi, sono dello stesso colore dei diamanti.» Mi irrigidii per l'orrore.

«No!» gridò Ezra, alzando la testa con uno scatto. «Vi do io tutto quello che volete!»

Quella risata cupa risuonò così secca ed aspra mi fece venire i brividi, mentre tutti e sei gli occhi delle tre donne si posavano sul mio guardiano per puntarlo con gelido disprezzo.

«Non c'è niente che possiamo volere da uno come te.» Mi voltai a guardare l'interpellato, confuso e agghiacciato. Il corpo dello straeliano si irrigidì, mentre induriva la mascella e non diceva una parola. Perché non lui? Che cosa aveva che non andava? «Niente!» dissero in coro, lasciando che il silenzio successivo calasse su di noi come un luttuoso sudario. Mentre attendevo che proclamassero il loro prezzo e speravo che non fosse troppo salato.

«Io so che cosa possiamo chiedergli, sorelle.» Si confrontarono, in bisbiglii così confusi da assomigliare ad un groviglio di fili. Alla fine, con le voci unite all'unisono, dissero: «Vogliamo il tuo ricordo più bello.» Rimasi di sasso. «Daccelo o morirai.»

Ma qual era?

Vagliai frettolosamente il mio passato. Avrei potuto pensare a qualsiasi giorno insieme a mia madre. Lei che mi accarezzava i boccoli e mi rimboccava le coperte prima di andare a dormire. Lei che mi insegnava a suonare le prime note al pianoforte. Lei che mi accompagnava a teatro mentre, mano nella mano, ascoltavamo le nostre sinfonie preferite. Lei che mi raccontava storie sulla sua gente, aprendomi il suo cuore senza che nemmeno lo sapessi.

Ma c'erano anche i ricordi con Yul. Il giorno in cui aveva confessato di amarmi era stato uno dei momenti migliori della mia vita. Quando mi guardava e capiva, riconoscendo il mio dolore senza giudicarmi, baciando quelle stesse mani che avevano versato tanto sangue. L'ultima notte prima della nostra missione ad Ender, per esempio, quando mi aveva rivelato il motivo per cui mi amava. Ender... Il suo ricordo mi aveva mantenuto vivo. I suoi fiori.

All'improvviso capii qual era il ricordo migliore della mia vita.

«Prendetevelo.» ansimai, senza fiato, come se mi avessero colpito. Non volevo perdere anche quello. Yul era vivo nelle mie memorie, ma se mi toglievano i ricordi...

La Forbice si sollevò leggermente e, quando si chiuse sopra la mia testa, tutto quello che mi tagliò fu una misera ciocca di capelli. Una ciocca che, scintillando di luce dorata, fluttuò fino a posarsi nel palmo della mano della vecchia al centro. Le altre due si avvicinarono per guardare, con le bocche schiuse come animali assetati.

«C'è tutto. La gioia...»

«... Il dolore.»

Gioia e dolore. Il giorno in cui Yul aveva cosparso di fiori il nostro appartamento. Il giorno in cui avevamo deciso di alleggerire il peso delle nostre anime svelandoci il reciproco passato. Il mio diciannovesimo compleanno. Quel ricordo.

Mentre lo perdevo, mi ripetei molte volte nella mente la storia di Yul, il suo passato, il modo in cui era finito per diventare un assassino. Non volevo dimenticarlo. E, insieme a quello, ripercorsi come un mantra le parole: "Non ti scordar di me, non ti scordar di me, non ti scordar di me". Quel ricordo. Era l'ultima volta che lo ricordai e poi, semplicemente... Scomparve.

Ma con i contorni della mia anima, mi sembrava ancora di udirlo. La speranza riposta nelle nostre risate e nei fiori che si arrampicavano sui muri, la sensazione di quella speranza, non mi avrebbe mai abbandonato. Sconfinata come il cielo, era parsa conficcarsi nelle profondità del mio cuore ed era rimasta lì. Viva.

«Siete liberi di andare.» dissero, risvegliandomi dal torpore nostalgico di quel ricordo che ormai era sfuggito, lontano come un aquilone spazzato via dal vento. Intanto, il Flegetonte iniziò ad aprirsi in un vortice di lava incandescente. «Pagate il prezzo del passaggio.»

L'idea di buttarmi nella lava non era affatto idilliaca, ma Ezra non esitò nello svuotare l'anfora di anime, che galleggiarono come bolle luminose, attratte dalla forza magnetica del vortice. Un portale iniziò a spalancarsi: riuscivo a vedere un altro mondo che ci aspettava, dall'altro lato. Le tre megere non ci fermarono, quando lo straeliano mi strinse a sé e ci spinse entrambi dentro al gorgo, stavolta senza abbandonare la presa, senza rischiare di restare divisi in un mondo nemico.

Dall'altro lato, il portale si aprì come un taglio nel cielo, scuro abbastanza da non essere giorno ma chiaro abbastanza da non essere notte, in quel preciso colore che la volta celeste assumeva prima di albeggiare, striato di rosa. Piombammo verso il basso come due comete: da lassù, il paesaggio si spalancava come un immenso giardino. Sconfinati prati inglesi, campi di tulipani, cespugli di rose, punte di lavanda ondeggiante.

C'erano molte persone lì.

Alcuni sollevarono la testa e ci indicarono, esattamente come se avessero visto due stelle cadenti. Poi atterrammo: l'unica cosa che attutì la caduta furono i fitti rampicanti, che sembravano creare un baldacchino sopra un sentiero d'archi fatto tutto di glicine. Rimbalzammo e cademmo a terra, con un tonfo appena percettibile sul muschio verde smeraldo.

Mugugnai un verso di dolore, accarezzandomi le costole, per poi girarmi sulla schiena, restando steso. La spalla di Ezra mi sfiorò gentilmente. Era ancora lì con me. «Ho la schiena piena di spine...» sussurrò, pur con un tono di tiepida soddisfazione. Un altro passo era stato fatto. Un'altra vittoria era stata conquistata.

Ma a quale prezzo?

Mentre recuperavo fiato, due ombre si inclinarono sopra di noi, coprendo il bagliore di luce chiara che veniva dal cielo. Due vispi occhi verdi incrociarono i miei. E, con loro, arrivò anche una chioma bruna e un nasino pieno di lentiggini.

E un singhiozzo, che sussurrava: «... Helias?»

Nello stesso, preciso istante, in cui dicevo: «Lysandro?»

Come ci si sentiva a rivedere una persona che era parte integrante di una vita che avevi perso?

Una persona che avevo odiato, una persona che mi aveva odiato. Una persona che era stata usata come arma contro di me, come strumento per farmi del male. Era come incontrare un fantasma. Come zoppicare su una strada dissestata, senza scarpe, cercando di non cadere.

Mentre lui, a sua volta, mi aveva fissato orripilato e sconvolto, come se fossi l'ultimo individuo al mondo che desiderava rincontrare. Lo avevo capito semplicemente guardandolo. Il viso che si faceva pallido, le palpebre che si sgranavano, l'orrore sincero che si dipingeva dentro alle cortine dei suoi occhi. Un orrore che non capivo, che non mi spiegavo.

Nemmeno mi ero chiesto come conoscesse il mio vero nome: evidentemente Alaister glielo aveva spifferato senza ritegno. Ciò che invece la mia mente indolenzita continuava a domandarsi era come diavolo fosse finito lì. Nell'Oltretomba.

Era morto. Per forza era morto.

Ma come?

Quella frase martellava, muta ma insistente, mentre fissavo la schiena del bruno e lasciavo che mi facesse strada, insieme ad una ragazzina, fra il glicine rampicante e i tralci di rose, in quel mondo che pareva un gigantesco giardino delle meraviglie.

C'erano alberi dai fusti così grandi che, nella loro corteccia, erano incavate delle case. Potevo vedere le tante piccole finestrelle brillare nei tronchi, mentre giravo la testa e studiavo tutto quello che avevo intorno. Sembrava che la gente vivesse liberamente per conto proprio: non avevo notato alcun riferimento a qualche Signore a capo di tutta la baracca. Ma erano semplici congetture, ancora non sapevo niente di quel mondo.

«Lysandro? Da quando ti chiami Lysandro?» disse la fanciulla, a malapena dodicenne, in un sussurro che io non mi feci sfuggire. Quello che un tempo era il Cortigiano più desiderato del bordello di Sophia - l'amica di Alaister - mantenne gli occhi bassi e non disse una parola. Ma immaginavo che sentisse il peso del mio sguardo addosso e forse era per questo che non mi guardava.

No, la sensazione era che non riuscisse a guardarmi.

Poi, una tonda porta scavata nella corteccia venne spalancata e fummo fatti entrare dentro ad una delle case-albero. L'interno si mostrava grazioso come uno di quei cottage di campagna, di legno, curati in ogni minimo dettaglio, con il soffitto a nido d'ape secondo uno stile arabeggiante. Accese la candela nella lanternina posta sul tavolo rettangolare e si affacciò sul camino spento. «Anwaar, perché non accompagni i nostri ospiti nel bagno? Metto a riscaldare l'acqua e poi preparo qualcosa da mangiare.»

Lysandro che faceva gli onori di casa senza ridermi addosso o fare qualche intervento maligno dei suoi? Lysandro che cucinava con quelle sue altezzose manine? Che mi chiamava ospite? Doveva essere uno scherzo. Uno strano, incomprensibile scherzo del destino.

O forse, era una questione molto più semplice da comprendere. La morte cambia le persone. Le fa maturare. Così doveva essere stato per lui.

Alzò gli occhi verdi su Ezra, corrugando leggermente la fronte, come se non capisse chi fosse e che ci facesse al mio fianco. «Dai loro i miei vestiti. Anzi, per lui troveremo qualcosa che gli vada...» si rivolse nuovamente alla sua amica, poi verso di me. In quel momento mi guardò per davvero, non solo per la sorpresa che ci aveva afferrato entrambi al primo approccio, ma vedendomi.

Ero troppo magro, affilato, perché fra la Duat e il Tartaro avevo avuto davvero poco cibo a disposizione, nonostante le premure di Morfeo. Avevo le labbra screpolate, i capelli tutti scompigliati ed aggrovigliati a quella ridicola coroncina d'alloro, il chitone bruciacchiato e pieno di grosse spine. Ero anche ferito, ma le dita fratturate e i tagli superficiali erano guariti, le ferite più profonde e indelebili erano le cicatrici di frustate sulla schiena e quelle nella mia anima. Non poteva vedere nessuna delle due, in quel momento.

Ma non importava, perché nell'osservarmi apparve lo stesso smarrito. Assolutamente smarrito.

A quel punto mi sbloccai. «Lysandro, mi spieghi che sta succedendo? Come... Cosa ci fai qui?»

«Lui non si chiama Lysandro.» intervenne la ragazzina, mettendosi al fianco del Cortigiano, che tirò dolcemente per una manica, mentre il ragazzo si girava a guardarla lanciandole un'occhiata strana. Un monito.

Il bruno dal nome misterioso, completamente un'altra persona rispetto a quella che conoscevo io, sospirò e tornò a guardare il pavimento. «Ti racconterò tutto. Ma ora siete stanchi... Siete caduti dal cielo. E siete feriti.» Indicò con una mano Ezra, che era tutto perforato da grosse spine e gocciolava sangue sul pavimento.

Non mi ero accorto che anche io avevo le ginocchia sbucciate che stillavano rosse goccioline lungo i lacci dei sandali. «Medicatevi, lavatevi e cambiatevi.» Una pausa, che mi servì per lasciarmi convincere. Tanto, non sarebbe andato da nessuna parte, no?

«Parleremo a cena.»

Ci avevo messo un po' a togliere con un ago ogni singola spina dalla schiena di Ezra, pulendogli con calma le ferite per evitare che gli si infettassero. Aveva stretto con forza il bordo della tinozza piena d'acqua calda, grugnendo sottovoce. Io mi ero fasciato le costole ancora dolenti e tamponato le ferite sulle ginocchia, lieto di liberarmi di tutti gli abiti che mi collegavano all'Ade o al Tartaro.

Al loro posto, indossavo una tunica di lino bianca ricamata con motivi arabeggianti e un pantalone morbido e largo, da stringere in vita con un laccetto. Era l'abbigliamento che avevo notato su tutte le persone di quel posto. Anche Lysandro indossava qualcosa di simile. Uscii dal piccolo bagno, dirigendomi al salottino col tavolo rettangolare e il camino. Il profumo di stufato ai funghi mi invase dalla testa ai piedi, facendomi dilatare le narici.

«Anwaar, hai finito di apparecchiare?»

«Sì, Ly!» esclamò la ragazzina dalla pelle olivastra e il caschetto nero, Anwaar. Erano un duo davvero strano e malassortito. Mi ridestai quando lui si accorse che ero entrato nella stanza e, agitato, urtò la poltroncina accanto al camino.

«Sediamoci a tavola.» disse, monocorde. Lo straeliano ci raggiunse subito dopo, accomodandosi al posto accanto al mio fianco e ben presto fummo tutti intorno al tavolo. Anwaar aveva preso in mano il cucchiaio e lo batteva insistemente contro il tavolo, aspettando con poca pazienza che il Cortigiano servisse dalla zuppiera di ceramica lo stufato. Mi resi conto, mentre il mestolo versava il cibo nei nostri piatti, che la sua mano tremava.

Dov'era finito il ragazzetto irritante che sapeva sempre come farmi saltare i nervi? Dov'era finito il Lysandro che conoscevo io? Superficiale e frivolo? «Parla.» Avevo fame - molta fame - ma le risposte contavano di più di quella sensazione.

Prese un profondo respiro, nascondendo le mani tremanti sotto al tavolo. «Sei sicuro di volerlo sapere?» La paura dentro ai suoi occhi mi fece agitare e accigliare insieme.

«Sì, dannazione.» esclamai, incapace di mantenere la calma davanti a quel suo tono, come se avesse il potere di far vacillare qualcosa dentro di me e non volesse vedere il mio crollo quando sarebbe accaduto.

Anwaar si voltò a guardare Lysandro, arricciando la fronte in un'espressione apprensiva. «No! Avevamo detto che non avremmo parlato del passato! Che avremmo dimenticato!»

«Non si può dimenticare per sempre...» sussurrò il bruno, piegando le labbra in un sorriso amaro, prima di sollevare le iridi verdi e piantarle nelle mie, del solito chiarissimo azzurro, che troppo spesso metteva in soggezione. Cercai di non sembrare troppo brusco e minaccioso, sulle spine, mentre finalmente decideva di vuotare il sacco. «Lysandro non è il mio vero nome.»

«L'avevo capito, quello.» Inarcai un sopracciglio. Calma, Helias, mi dissi. La mano di Ezra si allungò sotto alla tovaglia, poggiandosi leggermente sul mio ginocchio.

«E vorrei che non mi chiamassi più in quel modo... Lo aveva scelto Sophia. Sulla base del mio vero nome. Lyle.» spiegò, mentre rimasticavo molto lentamente quelle due sillabe, Ly-le. Un senso di familiarità venne a bussare alla porta della mia mente.

«Lyle...» sussurrai. L'avevo già sentito, quel nome. Affondai il cucchiaio nel piatto, sforzandomi di mangiare e di far sembrare quella situazione normale, un pranzo fra amici, non una rimpatriata fra vecchi nemici. Anche se Lysandro non era proprio un mio nemico: solo qualcuno che avevo sempre ritenuto antipatico e con cui mi ero azzuffato una volta o due, per ragioni del tutto sciocche, come un gioiello rubato, un abito copiato o le attenzioni di un certo ragazzo...

«So che avrei dovuto dirtelo tanto tempo fa...» abbassò gli occhi, piantandoli in un punto imprecisato fra il mio petto e la mia ciotola di stufato. Il suo pomo d'Adamo traballò. «Ma mi vergognavo.»

«Di cosa? Di che stai parlando?» incalzai, masticando piano, come se quel gesto tenesse a freno l'angoscia.

«E' di questo che sto parlando. Del fatto che il mio nome non ti dice niente. Del fatto che non ti ricordi di me, che non sai chi sono. Non l'hai mai capito. Non te ne sei mai reso conto.» Notai, con un certo sgomento, che aveva gli occhi pieni di lacrime. Mi irrigidii sulla sedia.

Lyle, Lyle... All'improvviso mi venne in mente la donna che avevo incontrato nella casetta a qualche miglio da Ender, quella che ci aveva salvato la vita, medicandoci e nascondendoci. Tynam. Suo figlio, quello che aveva abbandonato per le strade di Skys Hollow, si chiamava così.

No, non era solo quello. Poteva essere una semplice coincidenza ma... Lyle era il nome del ragazzino che mi aveva gettato un'ancora, quando il mio mondo stava cadendo. Dopo che mia madre era stata uccisa e io non sapevo cosa fare o dove andare. Un bambino al freddo e al gelo nel periodo di Natale. Che mestizia. Che terribile pena. Ma poi questo ragazzino, tutto pelle e ossa, sporcizia e incoraggiamento, mi aveva teso la mano.

Lo scrutai anche io, forse per la prima volta, finalmente vedendolo. Con quegli occhi verdi che scintillavano da sotto alla patina nerastra sulla sua pelle. Coi capelli che, un po' unti e scompigliati, sembravano più scuri di quella che ora era una chioma ordinata color cioccolato. Non gli si erano nemmeno mai viste, quelle lentiggini. Ma aveva lo stesso naso arrotondato verso l'alto e la stessa forma nelle labbra. Lo stesso modo di arcuare le sopracciglia. Quando Lysandro faceva quei sorrisini perfidi, sapevo che stava per dirmi qualcosa di cattivo. Quando Lyle faceva quei sorrisi perfidi, sapevo che stava per propormi una marachella ai danni di qualche nobile.

«Oh.» esalai.

Il ragazzino con cui avevo ballato fuori dal Teatro Reale, perché non ci era concesso entrare, anche se io lo desideravo terribilmente. Il ragazzino che mi aveva gridato di correre mentre gli allarmi magici della gioielleria ululavano e io venivo catturato dalle guardie e destinato a finire nelle mani di uno schifoso borghese che, poi, avrei ucciso.

«Oh.» Di nuovo, mentre appoggiavo il cucchiaio sul tavolo e fingevo di non sentire gli occhi lucidi. «Ma... Perché? Perché pungolarmi continuamente? Perché dirmi tutte quelle cose cattive? Perché... Perché continuare a ricercare le attenzioni di Yul? Perché sfidarmi per accaparrarti i favori di Alaister? Perché non dirmelo e basta?!» Non riuscii a controllarmi.

A quel punto, Lyle stava piangendo. «Perché... Ero arrabbiato. E geloso. E ferito. Perché contavano molto più loro per te, di me. Anche se io ti conoscevo da molto più tempo, anche se eravamo sopravvissuti a una vita di niente per le strade.» singhiozzò, mentre si asciugava con poco successo le lacrime che continuavano ad uscire. Anwaar ed Ezra erano semplicemente immobili, non osavano parlare o anche solo continuare a mangiare.

«Perché io ti amavo e non ti importava, maledizione!» urlò, mentre io boccheggiavo, senza parole. Scattò in piedi, la sedia dietro di lui cozzò violentemente a terra mentre usciva dalla porta di casa a tutta velocità. Mi alzai anche io, rincorrendolo per fermarlo proprio oltre la soglia, una mano poggiata sul suo braccio e uno sguardo implorante negli occhi. Implorante. E contrito. E addolorato.

«Lys-» Mi corressi. «Lyle...» sussurrai, con un filo di voce che fuoriusciva dalla gola chiusa.

Si coprì la faccia fra le mani, singhiozzando. «Mi dispiace, davvero, mi dispiace tanto... So di aver detto un sacco di cose brutte, ma io... Io ero diventato un cortigiano... E mi facevo schifo... E tu eri così... Tu eri... Lontano. Da me. Da tutto quello che eravamo.» ansimava e le sue parole a stento erano comprensibili, ma io le capivo, le capivo molto bene. «La prima volta che mi avevi rivisto non hai... non hai dato segno di riconoscermi... Anche se io pensavo solo a te, a come stavi, se eri vivo... Ho iniziato a risponderti male perché ero arrabbiato e per un attimo mi sono sentito meglio. Poi le cose... Le cose mi sono sfuggite di mano...» Si asciugò con forza le ciglia bagnate. «E alla fine mi odiavi... Non sono più riuscito a sistemare le cose...»

«Scusa.» sussurrai, con la voce rotta dal pianto, mentre lo abbracciavo e lui continuava a lacrimare, finché non si aggrappò alle mie spalle e non mi tenne forte contro di sé. «Scusa se non me ne sono accorto. Scusa se non ti ho riconosciuto, se ho sputato sulla nostra amicizia.» E io che credevo di non avere nessuno al mondo, se non Alaister, quando vivevo in quella stupida Fortezza. Quanto ero stato sciocco.

«No, scusa se io... Se ti ho separato da Yul, talvolta.» E a quel punto si fermò, il suo pianto si attutì. Alzò delicatamente la testa dalla mia spalla e mi scrutò con gli occhi rossi, sgranati e pieni di dolore. Dolore e rimpianto. E cordoglio. «Oh, Helias. Mi dispiace tanto per la tua perdita.» Mi rivolse un sorriso che fece male come una pugnalata al cuore. «Era come un fratello per me. Gli volevo bene davvero.»

A quel punto le lacrime mi avevano raggiunto il mento e il mio labbro inferiore tremava. Ricordavo bene quando Yul cercava di convincermi a non biasimare troppo Lyle e i suoi comportamenti, perché in realtà era una persona migliore di quanto pensassi. Yul che aveva sempre una buona parola per tutti. Yul che, in cuor suo, aveva già capito tutto senza nemmeno saperlo.

Scossi la testa, lasciando che le lacrime mi picchiettassero la tunica. «Come ci sei finito qui, Lyle?» chiesi, perché era meglio non soffermarsi troppo sul rosso, altrimenti il vuoto dilagante della sua assenza mi avrebbe fatto mancare il fiato.

«Mi sono buttato.»

Silenzio.

«Co-cosa?» Si era suicidato?

«Io... Non avevo scelta.» Di nuovo quell'espressione smarrita. Si girò, chiuse la porta di casa e poi iniziò a camminare, mettendosi a gambe incrociate sul prato, accanto ad un cespuglio di azalee rosa. Il suo volto si era tramutato in una maschera di cera. «Siediti.» disse, con un tono molto basso. Poco più di un sussurro. Un guizzo di paura strisciò fino in fondo alle mie budella. «Per favore.»

Feci come mi aveva chiesto, accomodandomi con cautela al suo fianco, le caviglie incrociate e le mani sui talloni scalzi. «Io...» riprese. «E' difficile. Non so nemmeno da dove dovrei cominciare.» esalò una risata, ma era così amara che ne pareva il rovesciamento. Restai in silenzio.

«Dopo quello che vi è successo, mi sono ammalato di tisi. C'era un'epidemia, specialmente fra i cortigiani. Era diventata una cosa incontrollabile.» Si strinse nelle spalle. «Pensavo davvero che sarebbe stata quella la ragione della mia morte. Perciò Sophia è venuta al mio capezzale e mi ha rivelato una cosa.» Prese un profondo respiro. «Aveva scelto di prendermi dalla strada, quando ero bambino, perché era stato Alaister a chiederglielo.»

Battei le palpebre, confuso. «Come..? Ti conosceva già? Ti aveva puntato quando eri piccolo?» Non sapevo se sentirmi più disgustato o disorientato.

«No. Non me. Conosceva te.» rispose. «Sapeva chi ero per te.» Piegò la testa di lato. Il suo sguardo mi cercò, mi trovò e si concentrò su di me col rumore di uno schianto. «E' per questo che mi ha comprato con gli stessi soldi con cui tu hai avuto la libertà.»

Oh Dio.

Alaister non l'aveva fatto per ripicca, per comprare una persona che odiavo. Ma per dimostrarmi che, anche se io ero libero da lui, lui poteva sempre strappare via la libertà delle persone che mi volevano bene. E farlo con i soldi che erano valsi la mia, di libertà. Chiusi gli occhi, sentendo lacrime di frustrazione rotolare sulle guance.

«Ma non è possibile... Lui non mi conosceva prima...» Prima di Treblin. Era allora che ci eravamo incontrati. Non poteva sapere che Lyle fosse un mio amico. La mia vita di strada con il Re degli Assassini non c'entrava nulla, non era entrato ancora nella mia storia, in quegli anni. C'era semplicemente qualcosa di sbagliato. Una discrepanza nelle tempistiche.

«Sì. Lui ti conosceva.» Tutto il suo corpo venne attraversato da un tremore profondo, prima di afflosciarsi. Aspettai che si spiegasse. Cercando di non sentire la paura che strisciava dentro di me come una bestia dotata di vita propria. «Odio quell'uomo. Odio ogni cosa di lui. Pensavo che avesse comprato solo la mia verginità, invece mi obbligava a stare al suo fianco mentre lui...» Iniziò a respirare velocemente, in singhiozzi secchi, senza lacrime.

E all'improvviso cambiò argomento, mentre io cercavo di stargli dietro. «Sono sopravvissuto alla tisi, comunque. Mi ha portato con lui ad una residenza vicino a Bellhaven.» Il villaggio non lontano da Ender. Lo ricordavo. «L'ho visto mentre dava delle bustarelle a certe guardie di Ender.» L'informazione mi colpì come un pugno alla testa, dritto alla base della nuca. Perché? Per mantenermi vivo? «E poi ho trovato delle lettere. Lettere che lui scriveva a... Ad un suo socio.» Era pallido come un cadavere, ed era assurdo, visto che era già morto.

Perché sentivo che molto presto tutto mi sarebbe precipitato addosso? Come la terra incontro a un uomo che cade. Le sarei precipitato contro e la terra mi avrebbe colpito tutto in una volta.

«Oh, Helias... Come posso... Come posso dirti una cosa così?» Mi prese la mano e a quel punto la paura divenne reale. «Io so chi vi ha fatto del male. So chi vi ha teso quella trappola. Chi ha voluto la morte di Yul e che tu finissi ad Ender. E ho cercato di fermare le cose... Ho cercato, davvero, ma ho perso...»

Il tempo rallentò, oppure fu solo un'impressione, perché il mondo aveva incominciato a vorticare irrefrenabilmente, come una giostra, un carosello che danzava su un solo asse. E quell'asse era Lyle. Le sue parole. Che mi aspettavano. Che aspettavano la mia caduta.

«E' stato Alaister. Con Crow e... Il Re.»

Le sue parole furono accolte da un silenzio che fu come un naufragio.

Un naufragio.

«Alaister e il Re si scambiavano lettere da molti anni e... E si conoscono da un tempo che sembra fin troppo lungo per degli esseri umani. Ti tenevano d'occhio. Sapevano che saresti stato a Treblin, quando eri piccolo. Alaister non ti ha salvato da lì per caso. Era lì per te. Per andare a prenderti, per conto del Re.»

No. No.

«C'erano lettere in cui loro parlavano del tuo rendimento alla Fortezza dell'Assassino... E lettere in cui dicevano che non potevano permettersi di farti andare via, con Yul. Via dal Continente. Via da loro.»

No. Mi morsi le labbra, imponendomi di non tremare. Rimasi rigido. Dovevo esserlo. «E non solo. In alcune di quelle lettere, si intuiva che il Re fosse qualcosa di... strano. Innaturale. Vecchio e magico. Parlavano di-» corrugò la fronte. «mangiare corpi. Persone intendo. E... E Alaister è come lui, Helias. Alaister è morto. Una specie di morto vivente.»

"Alaister in realtà è m..."

Il messaggio che aveva cercato di darmi Tracy, mentre fuggivo dalla Casa della Sapienza. Ma certo.

"Alaister in realtà è morto"

Ecco cosa aveva cercato di dirmi. Lyle stava ancora parlando, spiegando altri dettagli di quello che avevano fatto, della loro alleanza, ma io avevo già smesso di ascoltare. Avevo già spento il cervello da un pezzo e neanche mi ero accorto di essermi alzato in piedi, come un pupazzo a molla che va avanti per conto proprio e non può fermarsi, o girare. Solo andare avanti. «Helias... Aspetta! Dove... Dove stai andando? Fermati!» Ma non mi sarei fermato.

Mi limitai a camminare lungo il sentiero, mentre la luce di quell'alba perenne mi tinteggiava le spalle di rosa e di azzurro. I rami bassi di alberi e di rampicanti mi sfiorarono il viso, si aggrapparono ai miei vestiti, come se volessero trattenermi anche loro. Ma proseguii, non seppi nemmeno io per quanto. Un passo avanti ad un altro, ancora e ancora, mentre un senso di vacuità profondo quanto una fossa comune ad Ender mi scavava dentro. Finché, esattamente come un pupazzo a molla che conclude la sua carica, non mi fermai.

E caddi sulle ginocchia, con un tonfo appena percettibile, in mezzo ad una radura di gigli bianchi. Un'unica macchia di colore in un tappeto di petali bianchi che sembravano neve.

In equilibrio sulle ginocchia, realizzai l'enorme, oscena, blasfema verità. Per anni mi ero chiesto chi fosse l'assassino di mia madre. Per anni avevo desiderato ardentemente di poter ridurre la sua faccia in poltiglia. Per anni avevo nutrito quella vendetta come si fa con un uccellino che poi ti aspetti diventerà un avvoltoio. Per anni mi ero chiesto chi - chi? - fosse il colpevole, mentre lottavo, mi affilavo, sotto l'ala protettiva di Alaister Noir.

Senza sapere che il colpevole lo avevo sempre avuto al mio fianco.

Perché Alaister evidentemente sapeva tutto. E aveva usato la perdita di mia madre contro di me per farmi diventare il suo burattino, mentre riferiva ogni cosa al Re. Il colpevole era sempre stato lì. Sotto al mio naso.

Incominciai a ridere. Un verso roco e aspro, che si fuse a molti altri, mentre ridevo. E ridevo. Ancora e ancora. L'ironia della cosa mi stava facendo ridere in modo irrefrenabile e i suoni che stavano uscendo da me erano talmente lontani dal divertimento che sarebbero potuti essere il capovolgimento forzato di una risata, come un'anima messa a rovescio per rivelare la sua carne più sanguinolenta.

Finché la risata non si trasformò in singhiozzi. Uno dopo l'altro, che mi sconquassavano le spalle e la testa e il cuore.

Ricordavo ancora lo sguardo di Alaister quando io e Yul avevamo pagato prima il nostro debito e poi la penale per lasciare la Gilda. Lo sguardo di qualcuno che ce l'avrebbe fatta pagare. E dopo, era tutto successo con naturalezza e malevola spontaneità: Alaister che ci sottraeva ogni possibile ingaggio, per indurci ad accettare una missione al limite dell'impossibile. Alaister che veniva a casa mia per convincermi a far partecipare i suoi assassini.

Ecco perché i sicari mi avevano fermato dal salvare Yul ai cancelli di Ender, quando Crow gli aveva puntato la spada alla gola. Perché era un copione, seguito attentamente. Crow doveva catturare Yul e portarlo sul patibolo. Ed ecco anche perché Alaister e i suoi uomini avevano parlato di andare a salvare il rosso dall'esecuzione, proprio dietro alla mia porta, avendo l'accortezza che li sentissi.

Perché era una trappola. Trill in fondo aveva cercato di dirmelo. "E' solo una..."

Lo sapevano tutti. E io non lo avevo capito. Non avevo osato capirlo. Anche se Alaister non era mai arrivato su quel patibolo, come aveva detto che avrebbe fatto. Anche se non era venuto a salvarmi dalle prigioni reali. Era tutto programmato.

Da sempre.

Da quando ero sfuggito dalla stanza del bordello dove mia madre era stata uccisa. Avevo creduto di essere lontano dall'uomo pericoloso che l'aveva uccisa, invece ero stato una sua pedina sin dall'inizio. Sfavillo era il nomignolo della loro pedina. Una pedina del Re, una pedina di Alaister. E quell'infame, quel disgustoso bugiardo, che mi diceva quanto avesse provato ad uccidere il sovrano nel corso degli anni, senza riuscirci! Ma allora, io chi avevo ucciso, in tutti questi anni?

«No... No.»

Funzionari del Re. Molti di loro, lo avevo visto con i miei occhi, erano uomini disgustosi, stupratori, schiavisti o assassini. Ma alcuni... Alcuni li avevo uccisi senza fare domande o pormi il problema. Li avevo uccisi perché mi bastava che fosse Alaister ad ordinarlo.

Avevo le mani sporche di sangue innocente. Per colpa di Alaister. Che un tempo ritenevo la mia famiglia.

Lo stesso Alaister da cui il me stesso quindicenne - misero, misero e cieco, e patetico e stupido - tanto voleva un bacio. Una carezza. Un'attenzione. Lo stesso Alaister che mi sorrideva, con quei suoi luccicanti occhi gialli, accarezzandomi la testa con approvazione mentre mi diceva a fine lavoro "bravo, ben fatto" ed io ero su di giri per la sua fierezza.

Le dita di Alaister che mi lambivano la fronte. Le dita di Alaister che mi aggiustavano la postura durante l'allenamento. Le dita di Alaister che mi davano un buffetto leggero contro la guancia. Le dita di Alaister che mi stringevano, proprio il giorno prima della partenza per la missione ad Ender, mentre mi sussurrava "Provo qualcosa per te. Qualcosa di vero."

Vomitai, piegandomi in avanti, ad artigliare con le mani il campo di fiori sotto di me. Il solo pensiero di quell'uomo malvagio e traditore che mi toccava era intollerabile. I conati mi scossero come un terremoto, mentre lo stomaco rigettava il poco che aveva dentro, continuando a muoversi in spasmi vuoti, fatti di bile e di aria. E Alaister era morto. Alaister era un alleato del Re. No, del Redivivo, che mangiava le persone.

E lui?

Vomitai di nuovo, fino a sentir l'anima uscire dal corpo e poi rientrare, ancora e ancora, in un balletto di lacrime e succhi gastrici, che poi si trasformò in un circo di grida, di "NO NO NO NO!" finché non ebbi più aria in gola o nei polmoni. O dolore da esprimere.

Caddi su un lato del corpo, strisciando in avanti, allontanandomi, per non sentire l'odore del vomito solleticarmi il naso e farmi tornare la nausea. Poi restai steso, ad occhi chiusi, a riprendere fiato e a calmare la gola dolente. Forse il dolore non avrebbe mai smesso di esserci. Ma Alaister aveva fatto un gravissimo errore ad allenarmi. Lui e il Re avevano fatto un gravissimo errore ad usarmi come la loro marionetta, ad inventare Sfavillo, un nome che non avrei mai, mai più usato.

Avevano fatto uno sbaglio a fare di me la loro arma.

Perché adesso sapevo chi erano i colpevoli di tutto. E gliel'avrei fatta pagare. Avrei trovato Yul e gliel'avremmo fatta pagare.

Fino all'ultima goccia di sangue.



*NDA - Un angolo di tisane ed euforia e canzoni tristi*

Hola a tutti!
*Ahem* Lo so. Finalmente. Ci ha messo un po' per scoprirlo, Helias, eh? Giusto qualche anno, sia nella storia che fuori, visto che questo capitolo è arrivato secoli dopo gli intrighi di Alaister. Ma era così che doveva andare! E che dire, è anche ritornato il nostro Lys/Lyl, che a dir la verità mi mancava un sacco. Tutte le domande aperte nello spin-off sono decisamente state risposte in questo capitolo... Ah, non vedevo l'ora di scriverlo! Spero che vi sia piaciuto!
Alla prossima <3

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